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Addio di Alcesti 340 a.C. circa |
12
giugno 2016
Dopo
la rappresentazione nel teatro di Siracusa.
Funerale
anticipato con un lungo corteo e una croce cristiana.
Un
grande velo nero ricopre il coro.
Nel
prologo recitato da Apollo e Thanatos, la Morte rinfaccia ad Apollo "Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro; ~ tw`n
ejcovntwn, Foi`be, ton novmon tivqh", v. 57). Ebbene questo verso ideologico è
stato saltato. Altri versi nodali spariti sono quelli che sconsigliano le nozze:
il
Coro formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo
cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h]
lupei'n,
toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn
basilevw", o}sti" ajrivsth" - ajplakw; n ajlovcou th'sd j, ajbivwton
- to; n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo
dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa,
vivrà in futuro una vita non vita.
Buona la trovata della musichetta allegra
suonata all’arrivo di Eracle e ripetuta alla fine. Dopo la resurrezione di Alcesti,
Eracle raccoglie la croce e la butta sul feretro vuoto. I due sposi si
allontanano mano nella mano.
La
traduzione è nel complesso accettabile, ma, oltre le omissioni di cui sopra, sono
da biasimare alcune banalizzazioni come p. e, l’aggettivo ajpovtomo" (“scosceso”, v. 118) riferito a movro" (“parte, destino, morte”) tradotto con
“terribile”. Nell’insieme lo spettacolo è buono.
Ottima la recitazione di Graziosi nella
parte pur secondaria di Ferete. Buffo e divertente Eracle (Santospago)
con il suo epicureismo ante Epicurum
Alcesti di Euripide
Tragedia
rappresentata per la prima volta nel 438. Il significato di fondo del dramma
credo sia contenuto nei versi con i quali Admeto riconosce il suo sbaglio.
Alla
resipiscenza segue un lieto fine.
Admeto, sentendo il peso della solitudine
dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare
la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw
bivoton: a[rti manqavnw"
(v. 940), condurrò una vita penosa: ora comprendo In seguito, come si sa, gli
verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del
Grande in Tragw/diva
afferma che pure la commedia
nuova, e particolarmente quella di Menandro
mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte"
(L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie per un presunto errore sessuale
di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si
accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo
attento alla reputazione: " ejgwv ti" ajnamavrthto", eij"
dovxan blevpwn" (v. 588),
io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un
"ajkouvsion
gunaiko; " ajtuvchma",
un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella
commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui
intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che
infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha
usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già
incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira
contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua
indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza
della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro
che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te
stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato
il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste
aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non
riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza
un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è
caduto vittima della debolezza umana.
L’Alcesti è una delle non poche tragedie greche stroncate da Schopenhauer:
“Le Baccanti
di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti
drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia
fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino
nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano
il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la
rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli
antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della
concezione dell vita in generale…Quindi l’esortazione alla rinunzia della
volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia".
La
tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide,
in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare
natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis
all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron);
e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono
state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”.
Il letto, vedremo è il mobile più
importante della casa nell'Alcesti di Euripide (vv. 177 e sgg.), e nella
Medea è un nodo di affetti così sacro e forte che, se l’uomo
unilateralmente lo scioglie o lo taglia, rende la donna feroce (vv. 265 - 266).
Da Alcesti morta, come da Edipo a Colono, dovrebbe
spirare il bene: il coro nel terzo stasimo formula questa preghiera che verrà ripetuta
dai passanti, sull’obliquo sentiero accanto alla tomba: “Au[ta pote; prouvqan
j ajndrov~, - nu'n dj e[sti mavkaira daivmwn: - cai'r j w\ povtni j eu\ de
doivh~. - toi'aiv nin prosrou'si fh'mai” ( Alcesti, vv. 1002 - 1005),
questa una volta morì per il marito, ora è una divintà beata: salve, signora, dacci
del bene. Tali parole le diranno.
Il
potere assoluto dell' jjjjAnavgkh viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti.
Nel terzo Stasimo della tragedia, il Coro eleva un inno alla Necessità
vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi
gli dèi:
"Io
attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi
ragionamenti (pleivstwn
aJyavmeno" lovgwn), /ma non ho trovato niente più forte/della
Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde; n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle
tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli
Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali
afflitti dalle malattie" (vv. 962 - 972).
Da
questi versi si vede che la
Necessità è più forte del lovgo", della poesia, dell'arte
medica.
E
ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga; r Zeu; ~ o{ti neuvsh/ - su; n soi; tou'to
teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus
approvi, con te lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.
Nella
Prefazione al romanzo Notre - Dame de Paris, Victor Hugo scrive che
“rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò in un recesso oscuro di una delle
torri, questa parola incisa a mano sul muro:
ANAGKH”
Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su
quella parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831”.
Alcuni
versi prima del terzo stasimo, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato
l’impotenza della tevcnh
nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'"
tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere
dalla tecnica (oujd
j aJlivsketai tevcnh/)” (Alcesti, vv. 785 - 786)
Prometeo
sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli
uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514) e infonde
negli uomini cieche speranze. Egli infatti sa pene che le tevcnai da
lui scoperte non possono nulla contro la necessità “ tevcnh d j
ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto
più debole della necessità.
Cfr. a
questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas
non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit” ( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità
più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma
anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno
nel 332 a. C.
Avanzando
nella Sogdiana Al. si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior
in adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora
la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante
rationem est).
L’ambiguità non riguarda soltanto il
linguaggio sofocleo.
Anche una situazione, o un intero dramma
possono essere ambigui: “La puoi dire viva e che è morta anche”.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il
tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è
ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione.
Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra
significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua
“forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere
ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto
rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un
vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma
nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che
dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio
blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia
sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso
di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”.
Clitennestra
sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla
quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”.
Sofocle considera i legami di sangue più
forti di quelli affettivi. Diversa è la posizione di Euripide il quale nell'Oreste
fa dire al protagonista, in lode dell'amicizia di Pilade: "acquistate
amici, non solo parenti: /poiché chiunque collimi nel carattere, pur essendo un
estraneo, /è un amico più caro ad aversi di mille consanguinei (murivwn kreivsswn
oJmaivmwn ajndri; kekth`sqai fivlo~)" (vv. 804 - 806). Si può pensare che già nell'Alcesti il
drammaturgo più giovane rappresenta una sposa la quale sacrifica per il marito
la propria vita dopo che il padre e la madre di lui si erano rifiutati di
donargli la loro.
Plutarco nella Vita di Solone
racconta che il legislatore ateniese permise a chi non aveva figli di lasciare
in eredità i propri beni anche fuori dalla famiglia in quanto “filivan te
suggeneiva~ ejtivmhse ma`llon kai; cavrin ajnavgkh~” (21, 3), valutò l’amicizia più della
parentela e l’affetto più della necessità.
Con Euripide, il primo letterato puro, comincia
il distacco dalla storia e dalla politica. Eppure a volte si trovano forme di
eroismo, quali il sacrificio alla patria o alla famiglia, di una giovane vita
come quella di Ifigenia, o di Alcesti, o di Polissena, o di Macaria la
figlia di Eracle negli Eraclidi, o di Meneceo, figlio di Creonte nelle Fenicie.
Giovani che muoiono a[wroi, ante
diem e muovono la commozione di Euripide, come poi quella di Virgilio. Si
tratta di eroismi improvvisi, fondati non su abitudine morale ma su entusiasmi
e slanci che magari succedono alla paura, come nel caso di Ifigenia, o allo
scetticismo. Aristotele infatti, si ricorderà, trova il difetto di una scarsa
coerenza nella protagonista dell’ l'Ifigenia in Aulide (Poetica 1454a,
31).
Euripide discute molto sul matrimonio (
Medea, Alcesti) e più in generale sulla relazione tra i sessi che, come
ogni cosa nella natura, è fatto anche di lotta. Nei rapporti umani, non tanto
diversamente da Tucidide, vede divulgarsi il diritto del più forte, anche se
non gli piace. La Medea drammatizza il conflitto tra lo sconfinato
egoismo dell'uomo e l' immensa passione della donna.
Un topos
gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto, anzi
al letto della propria morte per amore.
Alcesti
poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo bagna tutto con il
torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion
- ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183 - 184.).
Un
gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os
impressa toro, Eneide, IV, 659,).
“La
donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e
bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle
dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi
di Deianira)”.
Nelle
Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto:
“w\ levch te
kai; numfei' j ejmav, - to; loipo; n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote devxesq j
e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920 - 922), o letto mio e
stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come
sposa nel vostro giaciglio.
Antigone
portata alla tomba si compiange perché è rimasta ajnumevnaioς (876), senza nozze.
Per kuvsse da kunevo, aor.
[ekusa,
cfr. inglese to kiss e tedesco küssen
Non è
vero che “il sacrilego”Euripide è eversivo nei confronti dei valori
tradizionali quali aijdwv~, per esempio, e cavri~.
Il pudore, il ritegno è un predicato
di nobiltà: “to;
ga; r eugene; " - ejkfevretai pro; " aijdw' ” (vv. 600 - 601),
il carattere nobile infatti è portato al ritegno, canta il Coro nel secondo
stasimo dell’Alcesti.
Il
tragediografo mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia nell'Eracle dove
Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che lo ha riportato in
luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: "
cavrin de; ghravskousan
ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che
invecchia, e chi vuole godere delle cose belle ma non imbarcarsi con gli amici
quando se la passano male.
Nelle
Nuvole di Aristofane la
riservatezza e il ritegno contraddistinguono il giovane beneducato dal
petulante sfacciato. Il Discorso Giusto prescrive al ragazzo di essere "th'"
aijdou'"... ta[galm j " (v. 995), l'immagine del ritegno. Eppure
secondo il linguaggiuto commediografo, Socrate, complice di Euripide, avrebbe
insegnato ai giovani la spudoratezza.
Euripide
a sua volta avrebbe messo in scena le varie Fedre e Stenebbee povrnai (Rane,
v. 1043)
E
avrebbe insegnato a stravolgere (strevfein), a macchinare (tevcnazein) a pensare (noei`n, v. 957)) in maniera critica riguardo
ai valori tradizionali
Insomma
avrebbe reso gli Ateniesi scelleratissimi (mocqhrotavtou~, v. 1010) da buoni e
generosi che erano.
continua
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