giovedì 25 aprile 2024

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

 

Sabato 4 agosto andammo  tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue di toro di Eger, già noto a chi mi legge e  l’ Egri leánika, e la fanciulla di Eger, una baccante probabilmente, splendidi doni di Bacco alla Pannonia.

Dioniso e il toro, Dioniso e le menadi invasate da lui.

 Non mi limitai a bere però; dialogai con Silvia, la giovane tedesca bionda e un poco opulenta che sapeva parlare e pure ascoltare. Quel giorno, facendo attenzione a tutto quanto udivo e vedevo, compresi che la maturità mentale consiste, tra l’altro, nel ridiventare com’eravamo quando si era bambini, prima delle diverse crisi di identità dell’adolescenza o dei venti anni iniziali.

L’età tragica della mia vita e di tanti altri umani.

Mentre osservavo e ascoltavo, mi accorsi che da qualche tempo  l’intelligenza, le esperienze e un demone buono mi stavano riconducendo alla mia antica natura infantile qual era prima che venisse contraffatta e aulterata dai luoghi comuni dell’epoca. Ci venne vicino una giovane donna con una bambina di quattro o cinque anni che disegnò il disco solare con i raggi e disse: “questa è la testa del fuoco, è la faccia di Dio”. Mi tornò in mente Platone, il mito della caverna e il sole che è nel visibile quello che è  l’idea del Bene,  il massimo oggetto di scienza nell’intellegibile[1]. Poi ricordai Leopardi quando scrive che la filosofia  ci ha insegnato  “quello che da fanciulli ci era connaturale,  e che poi avevamo dimenticato e perduto” [2]

La bambina aveva disegnato il mare con un pesce enorme, una rete, tanti pesci piccoli, e disse: “Questa è la balena che cattura i pesciolini con una ragnatela”.

“Il diritto del più forte-pensai-uccellacci e uccellini. I bambini intelligenti capiscono molte cose. Intuiscono la parentela di tutto con tutto, dell’intera natura con se stessa, siccome hanno dentro qualche cosa di sacro, e lo manifestano fino a quando non temono i giudizi mortificanti degli adulti mortificati ”.

Voglio dire che arrivato vicino ai 35 anni, dopo tante esperienze e letture, mi sentivo simile a quella creatura nel senso che avevo recuperato il coraggio infantile di esprimere quanto pensavo e sentivo: non temevo più i giudizi della gente meccanica, formata sui luoghi comuni, mimetica della pubblicità, una imitazione del maligno che andrebbe proibita. Elogiai la piccola alla madre, una bella signora bruna, con gli zigomi alti e gli occhi chiari, dal taglio magiaro vicino al chirghiso. Mi disse il suo nome e mi chiese chi fossi. Mi presentai e dissi che ero un uomo contento e che mi piaceva l’ umanità: facevo un lavoro che mi soddisfaceva, amavo una donna contraccambiato, godevo di una buona salute mentale e fisica, e volevo rendermi utile al prossimo mio, a partire dagli adolescenti che educavo a diventare ciascuno quello che era davvero, possibilmente bello e buono.

A Silvia, quando mi chiese dei chiarimenti su quanto aveva sentito, aggiunsi che stavo riprendendo coscienza dell’ottimismo mio, connaturato eppure smarrito durante la crisi postliceale, siccome in quel tempo sciaguratissimo avevo creduto nei bruti asserviti alla pubblicità e alle propagande più che in me stesso. Dopo un biennio di quasi disperazione, senza bicicletta né corsa, con studio fatto male e controvoglia per  riferirli a umbratici doctores  tutt’altro che educatori stimolanti, privo amore, amicizia, di tutto  tranne ingrassare, soffrire, annoiarmi e lamentarmi,  avevo cominciato a ritrovare quello che ero e ce l’avevo fatta aiutato  dal  movimento del Sessantotto e dai collegi universitari di Bologna e di Debrecen grazie ai quali ero uscito dall’isolamento.

I colpi di grazia salvifica, generosi impulsori  di vita bella e buona, non certo di morte come si usa dire, erano stati i miei primi allievi, l’amicizia di Fulvio, l’Elena di Praga e  le tre finniche  Helena, Kaisa, Päivi e alla fine dei conti  Ifigenia la bella che mi aspettava, speravo, in Italia sul lido Adriano senza peccare e, invece di fornicare, osservava gli innumerevoli sorrisi della distesa marina e pensando a me, come io la pensavo.

 

Bologna 25 aprile 2024, ore 12, 59. giovanni ghiselli

p. s.

Il 25 aprile del 1945 avevo 5 mesi e 11 giorni. Non ne ricordo nulla e devo attenermi ai diversi racconti, ascoltandoli sempre tutti con spirito critico.

 

 

 

 



[1] Platone, Repubblica, 505a:"hJ tou' ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma".

 

[2]   Zibaldone, 305.

Ifigenia CXLVII. Il 3 agosto in piscina.


Venerdì tre agosto tornai in piscina con Giulia e con Alfredo del quale oggi piango ancora la morte. La ragazza ci aveva chiesto se volevamo andare a prendere il sole con lei.

“Il sole mi va sempre” risposi. E Alfredo: “sì pure io amo il sole, però mai quanto te”

Quella donna attirava assai l’amico che la corteggiava spendendo il suo tempo e cominciava a riscuotere qualche successo.

Giulia era una tra le ragazze più amene a vedersi di quel corso estivo, ma non era bella né interessante per me quanto  Ifigenia nell’estate del 1979. Il grande entusiasmo del telegramma del giorno prima non si era ancora afflosciato. La giovane donna diceva di provare qualche interesse per la letteratura e io introdussi la chiacchierata che speravo corposa dicendo: “ et tu litteras scis et ego, nec Alfredus noster  minus  doctus est”.

In quei giorni leggevo la Ricerca di Proust con diletto sempre maggiore: ne giravo le pagine con mano diurna e, talora, anche notturna.

Certi episodi raccontati con pathos dolente o gioioso avevano toccato la mia sfera emotiva suscitando sentimenti e pensieri, insegnandomi modi di dire, sicché sapevo parlarne con una certa efficacia persuasiva. Volevo mettere a suo agio quella ragazza, farle pensare che la nostra compagnia era la migliore possibile. Mi accorsi presto però che Giulia non sapeva ascoltare. Questo è un brutto difetto, tipico delle età di egoismo, di sospetto tra gli esseri umani e di solitudine.

“Ecco, il loro orecchio non è circonciso: sono incapaci di prestare attenzione”[1]

Le stragi avviate nel dicembre del 1969 proprio  per creare un clima di terrore di  odio, stavano compiendo la loro funzione orrenda. Tre lustri più tardi non ce ne sarebbe più stato bisogno. Il genocidio morale e culturale, se non già compiuto, era oramai metodicamente impostato su quella via criminale. Gli uomini hanno disimparato l’attenzione e l’ascolto della voce umana ricca di logos e di pathos. Odono più volentieri il ringhio metallico delle macchine, le menzogne della pubblicità, la chiacchiera insignificante, e il boato infernale delle bombe omicide gli uomini di questa età.

 Età iniqua e guasta che non soltanto la generazione di Edipo il parricida seminatore del solco da dove era venuto alla luce, poi  punitore di se stesso con le proprie mani sanguinarie e incestuose, potrà condannare, ma anche la seguente di Eteocle e Polinice, fratelli fratricidi reciproci, tuttavia compianti e onorati dalla pietà sororale di Antigone, e pure la tragica razza dei figli e nipoti dell’assassino Pelope:  Tieste adultero avido e incestuoso lui pure,  suo fratello Atreo, despota furibondo che gli fece ingozzare le carni dei figli, e la seguente generazione di Agamennone che alla propria ambizione sacrificò la figlia Ifigenia, oscenamente casta, quindi costui cadde sotto il coltello vendicatore di Clitennestra, la bipede leonessa ammazzata infine dai suoi stessi figlioli, Elettra e Oreste, autorizzati, e assolti dal dio, il Signore di delfi, ombelico del mondo.

Tutti costoro nel giudizio finale potranno condannare la canaglia ottusa di questa età, incapace di qualsiasi grandezza tanto nel bene quanto nel male.

La ragazza dunque non sapeva ascoltare: l’unica cosa che la       interessava era esibirsi e farsi corteggiare. Con una siffatta non era possibile alcuno scambio di idèe né di sentimenti: né logos né pathos c’era in quella carne pur fatta non male.

A un tratto notai che le sue occhiate  non erano più espressive di quelle di un fagiano, che i suoi movimenti erano macchinali, meccanici privi di significato e di luce, che le sue parole erano senza bellezza né ordine. Sicché pensai che stavo perdendo il mio tempo e, salutati i comites, bisognoso di solitudine, andai via

 

Bologna 25 aprile 2024 ore 12, 30 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] L’antico testamento, Geremia, 6.

I governanti sconci sconciano la nazione.


 

    “Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo mostruoso, quando ciò avviene”[1].

 

Questo topos vale anche per il costume femminile: il cattivo esempio che le donne importanti danno a tutte le altre  viene biasimato da queste parole di Fedra nell'Ippolito di Euripide: " wJ~ o[loito pagkavkw~-h{ti~ pro;~ a[ndra~ h[rxat jaijscuvnein levch-prwvth quraivou~ (vv. 407-409), fosse morta malamente colei che per prima disonorò i letti di casa con uomini esterni. Infatti, continua Fedra, questo male ha cominciato a propagarsi dalle case nobili: "ejk de; gennaivwn dovmwn" (v. 409). Quando le turpitudini (aijscrav) sono reputate belle dalle persone di alta condizione, certo sembreranno belle anche al volgo (vv. 411-412). 

 

Anche Tacito ha rilevato che le mode provengono dalle persone di alta condizione sociale, talora perfino dall'imperatore: con Vespasiano terminò il lusso del tempo di Caligola, Nerone e delle  splendidissime famiglie senatorie. Probabilmente il cambiamento provenne da questo primo degli imperatori Flavi, rappresentante di una borghesia pecuniosa ma parca.

 

In Tacito non manca l'idea dell'ajnakuvklwsi" , un ritorno ciclico che è chiamato orbis  e viene  applicato all'economia e alle mode: con l'avvento di Vespasiano, "praecipuus adstricti moris auctor...antiquo ipse cultu victuque " (Annales , III, 55) principale promotore di vita austera...egli stesso di antica semplicità nel mangiare e vestire, addirittura simile  ai comandanti antichi se non ci fosse stata l'avaritia ("prorsus, si avaritia abesset, antiquis ducibus par ", Historiae , II, 5), ebbene con il 69 d. C. quando inizia il suo impero, termina quella del luxus  delle splendidissime famiglie senatorie, un ciclo iniziato "a fine Actiaci belli ", dalla fine della guerra di Azio, il 30 a. C.

 E' interessante cercare le cause di questo mutamento ("causas eius mutationis quaerere libet ", Annales , III, 55) che fu graduale ma ebbe il principale auctor  in Vespasiano come abbiamo visto. Infatti la cortigianeria verso l'imperatore, e il desiderio di imitare tale modello, ebbero maggior valore che la pena minacciata dalle leggi suntuarie e la paura:"Obsequium inde in principem et aemulandi amor validior quam poena ex legibus et metus ". Però la causa più vera e misteriosa è, forse quella del ciclo :"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur "(Annales , III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgano le vicende alterne dei costumi. Cambieranno anche questi di oggi, credo in meglio. In peggio è difficile.

 

Bologna 25 aprile 2024 ore 10, 45 giovanni ghiselli

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[1] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte quarta e ultima, Colloquio con i re, 1 (p. 298 Adelphi)

mercoledì 24 aprile 2024

“il Buon Esempio”. Conferenza a Pesaro

https://fb.me/e/3Gq8ncOTM

Venerdì 26 aprile alle ore 19:00
nella Galleria degli Specchi dell’ALEXANDER MUSEUM PALACE HOTEL di Pesaro
seconda conferenza:
“il Buon Esempio”
Relatore: Prof. Giovanni Ghiselli
Ingresso libero 



Euripide Ippolito X. Dialogo Fedra –Nutrice vv. 311-337.


Fedra chede alla nutrice che ha nominato Ippolito di non farlo più se non vuole rovinarla. Anche il nome di questo ragazzo deve rientrare nel tabù.

L’anziana riconosce che la testa della sua pupilla funziona ancora dato che è in grado di parlare, però  le rinfaccia e disapprova il fatto che si lascia morire  e non vuole giovare ai figli- ouj qevlei~-pai`da~ ojnh`sai- 313-314.

Fedra dichiara amore ai figli ma lamenta di essere sconvolta da una tempesta, una tempesta scatenata nel buio della sorte- ejn tuvch/ ceivmavzomai- 315.

La tuvch turbinosa di Euripide ha acquistato potere rispetto agli dèi olimpici: è il caos che si riaffaccia e recupera terreno sul cosmo.

La nutrice teme che Fedra abbia ucciso qualcuno e le domanda se abbia le mani pure dal sangue.

Fedra non è Medea né Lady Macbeth, non è una sanguinaria, anzi è una mite che prefigura tale tipo dostoevskiano, e risponde con questo verso chiave: “Cei`re~ me;n aJgnaiv, frh;n d’ e[cei mivasmav ti- 317  le mani sono pure ma il cuore è contaminato.

 

Ora si apre il problema che occupa le vicende dell’Edipo re di Sofocle: chi è il diffusore del  mivasma? Nell’Edipo re è lo stesso re di Tebe qui nell’Ippolito è addirittura Cipride.

 

.La nutrice domanda se la contaminazione dipenda da un maleficio indotto da uno dei nemici di Fedra319.

 Questa risponde che è un amico a distruggere senza volere lei che non vuole-oujc ejkou`san oujc eJkwvn- L’amico non vuole farle il male e lei non vuole subirlo. E’ il destino dunque.

E’ stato Teseo dunque che ha errato commettendo un errore conto di te? Domanda l’anziana

In questo verso 320 c’è una figura erimololgica- hJmavrthken aJmartivan-

L’errare e l’errore hanno la stessa radice.

 La tuvch  è la stessa persona che agisce e pure quella che subisce

Fedra risponde che non vorrebbe mai fargli del male.

 La nutrice vuole sapere qual è il nocciolo della questione, to; deinovn 322 la cosa tremenda che la spinge a morire.

 

Cfr. lo squillo iniziale del primo stasimo dell’Antigone (vv. 331 sgg.)

 

Fedra seguita a nascondersi: “lascia che io sbagli tanto non sbaglio contro di te”.- Torna per altre due volte il verbo ajmartavnw. Un’ossessione di Fedra

La nutrice riconosce che Fedra non commette una colpa volontaria ma sbaglia lasciandola indietro, senza rivelarle il male.

Quindi stringe la mano della pupilla la quale le domanda se voglia costringerla afferandola- tiv dra`/~  biazh/ ;325. E’ la violenza della premura che però Fedra respinge. L’anziana non lascia la presa affettuosa, anzi dice che afferrerà anche le ginocchia e non lascerà mai la sua figlioccia.

Fedra avverte questa donna cui vuole bene che se saprà di cosa si tratta vedrà che sono mali su mali anche per lei- Kavk j  ---kakav sono le due parole che aprono e chiudono il verso 327

Cfr- Erodoto:  colpo e contraccolpo, e pena su pena si posa" (kai; tuvpo" ajntivtupo", kai; ph'm  j ejp  j phvmati kei'tai,  I, 67, 4).

Piena di amore davvero materno è la risposta della nutrice: “quale male per me più grande che non averti più?” 328

Fedra avverte la nutrice che facendola parlare la uccide, eppure la morte le fa onore timh;n fevrei 329.

Se l’onore è salvo perché nascondi delle cose buone mentre io ti supplico? Obietta l’anziana

In effetti da cose turpi dobbiamo cercare di ricavare effetti nobili-331 risponde Fedra

E’una richiesta di aiuto alla maestra da parte dell’allieva prossima a confessare

“Dunque parlando apparirai più degna di onore” fa la nutrice

Fedra chiede alla donna di lasciarle la mano e scostarsi

Ma l’anziana dice che  non lo fa siccome non ha ricevuto dalla giovane il dono dovuto.

Fedra le promette di darglielo dwvsw poiché rispetta e venera la mano di questa cara donna.

Questa promette di tacere perché da adesso la parola è di Fedra- so;~ ga;r lovgo~ 336.

Una lezione educativa per i beceri e le becere della televisione.

Fedra prepara la nutrice alla rivelazione dolorosa: “ o madre sventurata, quale amore amasti!” 337

La madre qui invocata è Pasife e l’amore nefando ricordato è il connubio con il toro. Anche la madre di Fedra dunque fu condannata a una passione maledetta da Afrodite o da Posidone. Esistono versioni differenti. Afrodite si sarebbe offesa  perché il Sole padre di Pasife aveva denunciato a Efesto l’adulterio della dea con Ares. Sicché la divinità adultera  avrebbe spinto Pasife a un adulterio abominevole (Servio in Virgilio, Eneide, 6, 14).

Secondo Apollodoro invece fu Poseidone, che non aveva ricevuto il sacrificio di un toro eminente- tau`ro~ diaprephv~- pomessogli da Minosse, a indurre Pasife a un rapporto sessuale con questa bestia bella assai (Apollodoro)

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 19, 39 giovanni ghiselli

p. s.

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errata corrige.

errata corrige: il sindacalista era Maurizio Landini


Bologna 24 aprile 2024 ore 18, 32

giovanni ghiselli

Ifigenia CXLVI. L’apoteosi di Ifigenia. L’identità ritrovata.


 

Quel giorno feci quanto dovevo a me stesso: camminai, corsi, nuotai,  mi abbronzai, lessi diverse pagine dei Guermantes per poterne parlare presto con lei. Mangiai poco. Per tenere a bada la fame,  bevvi molta acqua e alcuni caffè. Verso le sei, da occidente, arrivò un vento fresco sulla piscina di Debrecen.. Lo sentìi profumato della mia donna. Faceva già presentire l’autunno e pregustarne le gioie. Era il presagio di una stagione felice. Pensavo ai nostri incontri in casa mia dove la ragazza arrivava sul calar delle tenebre lunghe di novembre, verso le cinque del pomeriggio. Dopo pochi minuti era seduta sui talloni, nel nostro letto, nuda, sorridente e luminosa come il sole sul mare greco dove nacque Afrodite, la dea dal dolce sorriso. La creatura mia splendidissima profumava come le rose che nella stagione bella rallegrano perfino i cortili più bui e miserandi. Era bella tutta, la mia giovane donna. L’alito, la saliva, il sangue mestruale, ogni cosa era gradevole e buona in siffatta creatura. “Le tue vene, come cespugli di rose, trepidano continuamente, ha scritte in un’ode Attila Jozsef, il più bravo, il più caro poeta ungherese del Novecento: “Vérköreid, miként a rózsabokrok reszketnek szüntelen[1]

Le foglie oramai rinsecchite e ingiallite sussurravano buoni presagi. Nella vasca più grande dove alcuni adolescenti giocavano a palla, l’acqua trepidante nel vento, e schizzata fuori dai ragazzi in miriadi di gocce, rifletteva i raggi del sole moltiplicandoli in un luccichio festivo. La piscina sembrava sorvolata da sciami di farfalline gialle agitate da un impulso amoroso. Poco dopo giunsero nuvole umide che nascosero il  sole cadente.

Solitamente vedere i primi segnali dell’equinozio acquoso che offusca i colori del cielo e del mare mi rende inquieto.

Il due agosto del 1979 invece ne fui del tutto felice poiché la stagione dolente significava per me il rinnovarsi dell’amore con Ifigenia che un giorno di novembre del mirabile anno passato era venuta in camera mia, nel nostro recinto sacro, nel tempio dell’amore,  trafelata e gioiosa, con la chioma bruna bruna screziata di neve bianchissima e un sorriso radioso negli occhi, nella bocca, in tutta la sua persona.

Ogni tanto il sole estremo spuntava con dura fatica da quelle nuvole dense.

Se l’autunno era già vicino, non erano più tanto lontani i salti gioiosi, mai al di sotto della sufficienza: tre tripudi; anzi, molto spesso ben al di sopra.

 Erano prossime a rinnovarsi le sacrosante orge celebrate in onore del dio Eros cui eravamo entrambi devoti.

 Allora mettevamo l’amore sopra ogni cosa.

 La vacanza crudele che mi teneva lontano da lei aveva superato la cresta montuosa, lo spatiacque della metà. Mi aspettava. Mi amava. “Zazzì”, come annunciava il telegramma messaggero di amore.  Mi avrebbe amato per sempre, e anche se fosse sparita, sarei rimasto a lungo con lei scrivendo la storia del nostro amore. Quella donna era lo scopo della mia vita, siccome i fini veri di tutto quanto facevo, li avevo individuati stando con lei, per essere degno di lei.

Dovevo continuare a  educare, a imparare e amare. Mantenere la forma migliore studiando e facendo esercizio fisico. Un’ascesi pagana. Sui venti anni mi vergognavo di essere tanto diverso dagli altri, dai più, e magari cercavo di camuffarmi per assimilarmi a loro, sempre  senza successo e con tanto dolore; poi altre donne benedette, come le due Elene di cui ho già raccontato in questo epos erotico, mi avevano autorizzato a essere me stesso, e, dopo tali incoraggiamenti, ero diventato fiero della mia identità rara, molto fiero, sicuro e felice di non essere uno che vive di luoghi comuni, che li ripete annoiando perfino se stesso, e di sera gioca a carte o guarda le partite di calcio bevendo birra. Costoro fanno l’amore due volte alla settimana, benissimo che vada. E da giovani. Magari arrivano a tre volte  con un’ amante o un amante, poi dicono menzogne al coniuge. Tutto questo fa schifo, eppure durante la crisi quasi mortale dei miei sciagurati ventanni tale masnada mi era sembrata fatta di persone normali. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a essere come loro. Era gente mortificata che mi mortificava.

 Poi, grazie alle donne e al movimento liberatòrio del ’68,  avevo ritrovato la mia identità di giovane studioso, sportivo, strano, curioso e amantissimo della vita. Dovevo realizzare al massimo la mia vita mortale secondo l’identità mia, nella maniera più forte e pù nobile. Un’identità non gregaria, non presa a prestito.

Il sole, sbucando ancora una volta dalle nuvole acquose,  simile a una palla cerchiata da lamine d’oro, balzava su un ramo rotto, aguzzo, ma non ne veniva forato, come l’anima mia resa impenetrabile dal male e dal dolore. Mi aspettavano gioie e successi.

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 10, 55 giovanni ghiselli      

 

 

 



[1] Oda 4, 9-10

Ifigenia CXLV. Il telegramma. La gioia.


 

Il giorno seguente, martedì 2 agosto, finite le ore di lezione, tornai in collegio e trovai un telegramma che riattizzò l’ardore amoroso e mi spinse di nuovo nelle reti inestricabili della giovane compagna di letto[1], fiorente donna italiana.

Avevo i pensieri stravolti e pure l’aspetto, come la sera oramai lontanissima del luglio del 1966, quando arrivai a Debrecen per la prima volta.

Ma quella mattina di agosto, tredici anni e venti giorni più tardi, lo stravolgimento volgeva la mia persona cangiante al lato più bello

Con l’anima e la mente in tumulto, lessi queste parole:

Ti amo. Mi manchi. Mi fido. Fidati. Zazzì. Un bacio. Tua Ifigenia. Aspetta mio espresso. Ifigenia”.

Zazzì nel nostro gergo di coppia significava quello che tu immagini già,  lettore malizioso: ho una voglia bestiale di fare l’amore con te: almeno tre volte. Iterazione di un concubitus vagus ma non prohibitus[2]  una trilogia amorosa che negli otto mesi precedenti noi due consideravamo  appena sufficiente.

Misi in tasca il foglio verde e andai a camminare nell’orto botanico dove il destino mi aveva più volte indicato con dito diritto i suoi decreti e il prosieguo del mio cammino spesso tortuoso e accidentato . Ma in quel momento non vedevo ostacoli né vie oscure, erte o arte: nulla di inameno turbava la gioia che mi aveva inondato.  Il luogo era tutto sacro e pieno di dèi. 

La multiforme vegetazione era viva e luminosa : ogni pianta, ogni cespuglio, ogni fiore e filo di erba mi parlava di amore, di felicità, di poesia; la Jiuniperus communis, una specie di edera, aveva qualcosa di antico, misterioso e fatato: volevo incoronarmene come facevano le baccanti durante le sante orge in onore di Dioniso. Sulla strada al di là della rete passavano alcuni dei “simpatici burattini”  menzionati da Cornelia la sera prima. Li salutai con la mano e mormorai: “stefanou'sqe kissw'/[3].

 Danilo, mezzo morto di sete, contraccambiò il saluto: mi lanciò uno sguardo desolato mentre capovolgeva una bottiglia di sangue di toro già vuota. Disse che stava andando a ricaricarla di vita, cara da Dio!

 Ezio a sua volta mosse il piede rapido, a balzi, come una menade[4]. Alfredo domandò: “Chi è per strada, chi è per strada, chi?”[5]

“Ifigenia, Ifigenia,  evoè!”, risposi.

Il dio Dioniso mi stava approvando.

Passati gli amici  bizzarri e cari, tornai a osservare le piante strane: la tunica saxifragata aveva qualcosa di carneo e voluttuoso: l’accarezzai come fosse stata una mano di Ifigenia. Avrei voluto pure baciarla più volte, ma passarono due anziani signori, probabilmente docenti della Nyári Egyetem e, vedendomi inginocchiato, uno disse all’altro: “guarda quell’uomo pieno di alcol, e non è ancora mezzogiorno! Vergogna!”

In effetti avevo gli occhi velati di lacrime. Quando i due accigliati Catoni, tristes et superciliosi alienae vitae censores,[6] furono passati, mi stesi a terra e gridai: “ecco io mi prostro, Ifigenia, al suolo” [7].

Quindi mi rovesciai, beato e da resupino[8], e alzai gli occhi all’alta chioma di una quercus robur   antica e maestosa come quelle sacre del santuario di Dodona sorvolata da colombe profetiche: le sue fronde, sonore al vento quasi fresco mi sembrarono preannunciare un altro autunno di gioia con la mia baccante splendidissima e santa. Promisi che sarei arrivato in bicicletta all’antichissimo oracolo. Avrei sciolto quel voto dodici anni più tardi osservando i voli degli alati diretti da Dio e interpretandoli per decifrare la direzione del “grande” amore di turno, un’altra collega mal maritata .

Ma quel 2 agosto pensavo:  “Sei tu, ifigenia, la donna migliore dell’universo. Il poco male che c’è stato tra noi, sparirà, il tanto bene rimarrà eternamente vivo su questa terra. Creatura mia, figlia, amante,  madre, sorella, ti amo come amo la vita da quando tu mi hai donato la tua”

Non avevo fame siccome ero pieno di gioia e andai in piscina per digerirla e assimilarla tutta.

Bologna 24 aprile  2024 ore 10, 10 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Nell'Agamennone  di Eschilo la moglie fedifraga e assassina viene denominata con un vocabolo che contiene il letto (eujnhv) poiché queste grandi tragedie matrimoniali hanno sempre a che fare con il letto:"ajll& a[rku" hJ xuvneuno", hJ xunaitiva-fovnou", vv. 1116-1117, ma è una rete la compagna di letto, la complice dell'assassinio.

 

[2] Cfr. Orazio  che nell’Ars poetica scrive:

Fuit haec sapientia quondam,

publica privatis secernere, sacra profanis,

concubitu prohibere vago, dare iura maritis,

Oppida moliri, leges incidere ligno (Orazio, Ars poetica, 396-399)

 Fu questa un tempo la sapienza, separare il pubblico dal privato, il sacro dal profano, distogliere dagli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, e fondare città, incidere le leggi nel legno.

[3] Euripide, Baccanti, 106, incoronatevi con l’edera

[4] Cfr. Euripide, Baccanti,  166

[5] Euripide, Baccanti, 68

[6] Cfr. Seneca: “istos tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos , assis ne feceris (Ep. 123, 11), questi austeri e accigliati censori della vita altrui, nemici della propria, questi pubblici pedagoghi non stimarli un soldo.

 

[7] Cfr.Lleopardi, All’Italia, 127-128

[8] Cfr. Gozzano, Totò Merumeni

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.

Egli sognò per anni l’Amore che non venne,

sognò pel suo martirio attrici e principesse

40

ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,

fresca come una prugna al gelo mattutino,

giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza

su lui che la possiede, beato e resupino...

 

 

L'intellettuale, il sindacalista e i finti trionfi politici


 

Ieri sera ho visto Saviano e Salvini nella trasmissione di Floris.

Il primo ha situato più volte se stesso nella categoria degli intellettuali. Ha parlato delle proprie difficoltà e del proprio coraggio nell’affrontarle.  Certamente lui non è solo: è protetto e ha degli aiuti.

Sui lavoratori poveri da meno di 10 euro all’ora, sui disoccupati, su chi non ha protezioni, non può pagarsi l’affitto, le cure mediche, gli studi, nemmeno una parola.

 

Dopo di lui è arrivato  Salvini che nessuno considera un intellettuale ma parla della povertà e la condanna e propone rimedi. Preferisco questo a quello.

 

Io ho passato e ancora passo la vita a studiare dunque, come scrivevo ieri, sono uno studioso soprattutto di letteratura antica e moderna comparate, e mi occupo di politica ossia dei problemi della polis, della comunità, dei cittadini impoveriti di mezzi per vivere decentemente, compresa la cultura.

Cittadini che non vannio a votare siccome trascurati da chi chiede i voti oltre che ignorati dagli “intellettuali”.

 

Ora gira la menzogna delle elezioni vinte dalla destra nella nobile e antica Lucania dove la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto non è andata a votare. E’ la maggioranza  che ha vinto le elezioni.

 

Povertà diffusa dunque e rifiuto della politica prevalente.

Intanto certi “intellettuali”  continuano a blaterare, a pavoneggiarsi e nello stesso tempo a fare le vittime, mentre i politici, nemmeno presi in considerazione dalla maggioranza dei cittadini, celebrano dei finti trionfi.

Questa è la situazione reale. Il resto sono chiacchiere pure troppo remunerate.

Contribuisco al 25 aprile con questo post.

 

 

Bologna 24 aprile 2024 ore 9, 41

 

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martedì 23 aprile 2024

Euripide Ippolito IX. Il dolore straziante provoca mutismo e immobilità


 

La nutrice chiude la seconda scena del primo episodio con 16 trimetri giambici

 

La nutrice – mamma-  spinge Fedra a confidarsi dicendole che se  la sua malattia è uno dei mali indicibili- ti tw`n ajporrhvtwn kakw`n- 293 eccoci qui noi  donne pronte a rimediare-forse pensa a qualche male segreto e vergognoso come essere incinta di un ganzo-; se invece l’accidente si può rendere noto ai maschi, parla perché questa faccenda sia rivelata ai medici.

Tuttora si dice, o almeno anni fa ho sentito dire-affari di donne.- magari con riferimento alle mestruazioni come se fossero innominabili.

 

Fedra comunque continua a tacere e la nutrice la sgrida chiamandola tevknon  297 figlia come se fosse una bambina che fa i capricci-oujk ejcrh`n siga`n- non avresti dovuto tacere già  prima, e ora non puoi tacere: devi confutarmi se dico male, oppure convenire con le mie parole se sono dette bene. 298-299

Ma Fedra non risponde e rimane immobile: “di’ qualche cosa, guarda di qua- Oh me sventurata”, implora l’anziana.

 

Anche Medea  viene descritta dalla nutrice come donna ostinatamente  chiusa nel dolore

“E Medea, l'infelice donna oltraggiata,

 rinfaccia con grida i giuramenti, reclama il sommo impegno

 della mano destra, e chiama gli dèi a testimoni

di quale contraccambio ella riceva da Giasone.

E giace senza cibo- kei`tai  d j a[sito~- , abbandonato il corpo alle sofferenze,

struggendo tutto il tempo in lacrime

da quando si è accorta di ricevere torto dal marito,

senza sollevare lo sguardo né staccare il volto

da terra; e, come rupe, o marina

onda wJ~ de; pevtro~  h] qalavssio~ kluvdwn , ascolta gli amici consigliata,

tranne quando, girato il bianchissimo collo,

rivolta a se stessa, rimpiange il padre suo

e la terra e la casa che tradì nel venir via

con un uomo che ora la tiene in dispregio (Euripide, Medea, 20- 33)

Nell'Edipo a Colono , Sofocle  paragona il vecchio cieco, l' indomito punitore di se stesso, a una scogliera boreale  che, battuta dalle onde invernali da ogni lato, viene incalzata senza tregua:"pavntoqen bovreio" w{" ti" ajkta;-kumatoplh;x ceimeriva klonei'tai"(vv.1240-1241).

Come la rupe anche l’onda (kluvdwn, Medea, v. 29) significa insensibilità[1]; ebbene l’immagine dell’ Edipo a Colono , al pari di questa della Medea , significano il colmo delle sventure e della resistenza.

 

Torniamo all’Ippolito.

   Quindi la nutrice si rivolge alle coreute in cerca di aiuto

“Inutilmente, o donne, soffriamo queste pene

Siamo lontane quanto prima: né infatti allora

Si lasciava intenerire dalle mie parole costei né ora dà retta” (301-303)

Poi si rivolge di nuovo a Fedra:

“Ma sappi tuttavia: di fronte a questa situazione sii pure più crudele

del mare- se morrai tradendo i tuoi

figli che non avranno gran parte del palazzo paterno,

pensa alla signora equestre, l’Amazone (Ippolita la madre del protagonista),

che ha generato un padrone per i tuoi figli

un bastardo che pensa alla legittimità. Tu lo conosci bene

Ippolito- 304- 310

Il v. 310 è diviso in tre parti: la nutrice ha detto Ippolito, Fedra dice Ahimé e  la nutrice le domanda: “Queste parole ti toccano?”

Il mare crudele fa pensare a Esiodo che scrive è tremendo morire tra le onde: deino;n d j ejsti; qanei'n meta; kuvmasin", Opere e giorni,  687.

O anche a  Verga che fa dire a Mena "il mare è amaro ripeteva ed il marinaio muore in mare"( I Malavoglia p. 98).

Ma si potrebbe tradurre e forse meglio con inflessibile  e allora si puà pensare a Svevo: in Senilità “l’abito letterario” fa vedere a Emilio Brentani nel moto delle onde il correlativo oggettivo della “impassibilità del proprio destino. Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno.” Capitolo XII.

 

Bologna 23 aprile 2024 ore 19, 24 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Andromaca, vv. 537-538: Menelao dice al figlio di Andromaca che lo supplica: “una rupe marina (aJlivan pevtran) o un’onda (h] ku'ma) tu supplichi con le tue preghiere. Significa, ovviamente, un supplicare vano. E’ il solito “odioso” Menelao di Euripide

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