Anndammo nel sito delle antiche e nobili gare cantate al suono della dorica lira da Pindaro che ha eternato la fama degi agonisti vittoriosi. Anche noi due aspiravamo all’arte e alla gloria.
Ifigenia era bella e pensosa. Era davvero la mia compagna quel giorno. Ricordando il vate tebano, le dissi che noi, destinati comunque a morire, non dobbiamo aspettare nell’inerzia una vecchiaia inferma, diventare inutili pesi alla terra e fastidiosi fardelli a chi non fugge via lontano dallo spengersi della nostra breve candela, bensì acquistare ogni giorno energie nuove per potenziare sapienza e bellezza e fissarle con le parole, trattenerle dall’abisso orrido immenso dove precipiteranno i nostri corpi, per farle brillare sul mondo perché dai cuori delle donne e degli uomini zampilli il ricordo di Dio.
Ifigenia annuì in silenzio.
Eravamo nel recinto dei templi caduti sotto i pini che si levano al cielo e sussurrano arcane voci profetiche trasmesse dal vento caldo del Peloponneso alle orecchie delle persone devote.
Mi vennero in mente alcune parole della Sibilla Cumana da recitare a Ifigenia, la mia compagna sempre in bilico tra il bene dove poteva elevare anche me e il male dove talora cercava di trascinarmi a precipizio con sé:
“facilis descensus Averno:
noctes atque dies patet atri ianua Ditis
sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
hoc opus, hic labor est.
Dobbiamo farcela, conclusi”
Ifigenia approvò tutto quanto aveva capito.
Quindi entrammo nel museo per vedere i frontoni raccolti. Soprattutto ci piacque e commosse la figura di Febo signore che si erge imperturbato sopra la zuffa dei Lapiti con i Centauri ubriachi, violenti e immondi profanatori delle nozze del re Piritoo con Ippodamia.
“Dobbiamo trovare anche noi la forza di elevarci sopra il caos degli istinti cattivi e nocivi, se vogliamo trovare una nobile identità umana e la bellezza imperitura dell’arte”. Eravamo d’accordo,
Sostammo pensosi anche davanti al frontone orientale e all’Ermes di Prassitele, quindi attraversammo il Peloponneso fino a Sparta. Qui non c’era niente di bello tranne certe fanciulle fiere e robuste.
Mi fecero venire in mente le antiche ragazze che correvano lungo l’Eurota saltando come puledre e scagliando verso il cielo le chiome odorose prima di stendersi stanche, sparpagliate nell’erba qua e là.
In un piccolo museo c’era solo un oplita desolato e meschino.
Ifigenia mi domandò se gli Spartani avessero lasciato qualcosa di bello.
Le recitai alcuni versi di Alcmane rimastimi impressi nella memoria fin dal liceo. Un notturno dei più belli:
"Dormono le cime dei monti e i burroni
e le balze e anche le gole
e la selva e gli animali quante ne nutre la nera terra
e le fiere montane e la stirpe delle api
e i mostri negli abissi del mare purpureo;
dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali".
Verso le sei del pomeriggio partimmo. Tre ore più tardi arrivammo a Epidauro appena in tempo per vedere l’antico teatro. Lo chiusero presto facendoci fretta. Non potemmo commuoverci sentendo l’emozione del luogo sacro dove celebrare una sacra unione tra noi, una specie di pur provvisoria e precaria ierogamia.
Oltretutto eravamo digiuni dalla sera precedente e poco provvisti di denaro necessario a sfamarci. Tuttavia non potemmo resistere e spendemmo più del consentito dai conti meschini e pur doverosi.
Bologna 3 luglio 2024 ore 18, 56 giovanni ghiselli
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