![]() |
Allegoria della tragedia, Gustav Klimt (1897) |
PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA
QUI E GREEK QUI
Introduzione alla tragedia. Prima parte
Sarà l’argomento della prossima conferenza che terrò nella biblioteca Ginzburg il 24 marzo 2025 dalle 17 alle 18,30.
Quando avrò il link lo metterò nei miei Post.
Chi vuole l’intera introduzione in formato PDF può chiederla alla biblioteca che la invierà gratis telefono 051-466307
Sommario
La Poetica di Aristotele. La mimesi. Differenza tra storia e poesia. Polibio ripete
formule tucididee. Aristotele e la catarsi. Pietà e terrore. Il misfatto deve
essere compiuto di j aJmartivan tinav, per un errore. Origini del dramma. Le rappresentazioni. L’opera
drammatica come atto religioso. Il dramma antico rispetto al melodramma è
logocentrico. Struttura del teatro. La forma e la metrica della tragedia. Le
sei parti qualitative: favola, caratteri, linguaggio, pensiero, spettacolo
visivo, musica. Il racconto è parte la più importante. Peripezia e
riconoscimento. Vari tipi di riconoscimento. Critiche di Euripide (Elettra) al riconoscimento di Eschilo (Coefore). Le cosiddette unità
aristoteliche. A. W. Schlegel e Manzoni. I caratteri. La verosimiglianza e la coerenza.
Critiche a Euripide. Condanna del mostruoso. La funzione del Coro. Hegel, Leopardi,
Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray. Pregi del linguaggio
poetico. La metafora. Idealismo di Sofocle e realismo di Euripide. Le parti
quantitative della tragedia: prologo, parodo, episodi, stasimi, commo, esodo. Il
ritardare è epico. L’Estetica di
Hegel. Tragedia e Commedia. La critica di A. Schopenhauer. Ancora Nietzsche. In
L’uomo Mosè e la religione monoteistica Freud
spiega l’origine della tragedia attraverso la storia dell’umanità primitiva.
Per un’introduzione al dramma antico partiamo dalla Poetica di Aristotele. E’ un trattato di estetica che nella parte a noi giunta si occupa prevalentemente di poesia tragica. Fu scritta intorno al 335, durante la piena maturità del filosofo[1], e constava di due libri, dei quali ci è arrivato il primo. Il secondo riguardava principalmente la commedia.
Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale, la storia il particolare.
“ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi... Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
Anche Polibio[2], ma da storico, distingue la tragedia dalla storia. Questa non deve tragw/dei'n, rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga; r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie, II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro; n tou; " ajkouvonta"", II, 56, 11), mentre la storia deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veritieri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to; n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou; " filomaqou'nta""). Questo poiché nella tragedia prevale ciò che è persuasivo (hJgei'tai to; piqanovn), anche se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th; n ajpavthn[3] tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia ha la precedenza il vero, per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe; " dia; th; n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[4] presenti in Polibio.
Tucidide
Lo storiografo della guerra del Peloponneso infatti aveva scritto: “ la mancanza del favoloso di questi fatti (to; mh; mqw'de~ aujtw'n), verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente che li giudichino utili (wjfevlima krivnein aujta; ajrkouvntw~ e[xei) quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la natura umana” (Tucidide, Storie, I, 22, 4).
Introduzione alla tragedia greca. Seconda parte
La storia nasce dalla poesia
La storia è comunque intarsiata di miti, non senza le iridescenti bugie di cui scrive Pindaro[5], tant’è vero che è preceduta e anzi, in un certo senso, “nasce” dalla poesia epica e i fatti storici, come hanno rilevato studiosi di levatura ed estimazione europea, sono stati cantati, o raccontati, prima dai poeti che dagli storiografi di professione.
Giambattista Vico afferma che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra l'epica ed Ecateo,: "prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[6].
In effetti le guerre puniche vennero narrate prima da Nevio e da Ennio che da Tito Livio.
Un giudizio apprezzato anche da Pavese: "Ciò che si trova di grande in Vico - oltre il noto - è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente" vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura"[7]. Storia e poesia insomma sono intrecciate insieme,
Wilde sulla mimèsi.
Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contrario: "La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita...Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare...I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele...Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[8]
Con Aristotele dunque l'arte si risolleva dalla condanna inflittale da Platone: essa non è la copia di una copia che ci allontana di un grado dalla realtà delle idee; anzi ci fa vedere l'universale. Allora non è vero che i poeti riproducano solo la parte esterna e superficiale delle cose, né che suscitino emozioni contrarie all'uso corretto della ragione. Infatti l'altro concetto fondamentale della Poetica è quello di catarsi: "La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/)... di attori che agiscono e non attraverso un racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni" (di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th; n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).
Caatarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
Non molto diversamente l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have heard - that guilty creatures, sitting at a play, - have, by the very cunning of the scene, - been struck so to the soul that presently - they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.
Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” (Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.
Secondo Leopardi sono più educative le tragedie “di tristo fine” dove il crimine immane impunito che quelle di lieto fine quando il malvagio viene castigato poiché se il delitto resta impunito nel pubblico nasce maggiore odio verso il delinquente.
Sentiamo le parole del Recanatese: “Il fine dei drammi non è, e non dev’essere, d’insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura del codice penale che si facesse sulla scena. Il loro scopo si è d’ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono... Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual essa è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi benché felici e viceversa”[9].
Quindi Leopardi si dichiara contrario al lieto fine della tragedia, in quanto non è educativo: “Quanto all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata il poeta; l’uditore non ha a far più nulla, e nulla fa... Dunque l’uditore parte dal dramma senza né odio né ira né altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto... Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possono le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine. Perché promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perché il delitto fosse rimasto ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di tremila anni addietro, potuto ispirare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre o lasciare; per l’una e per l’altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco utili o dilettevoli... Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli immeritevoli, non viene da’ cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l’ Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue... [10] ”.
Ecco allora che la tragedia, ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[11], opera una depurazione dalle passioni e un rasserenamento.
“Aristotele ritiene che l’eccesso di compassione e di timore si scarichi mediante la tragedia, che lo spettatore torni a casa più freddo. Platone ritiene invece che lo spettatore diventi più emotivo e pauroso che mai”[12].
Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che nell'anima nostra rimane qualche cosa che sfugge a quel potere ed ha la capacità di nobilitare la vita umana. Allora il male svanisce, e, come stelle nella notte, brillano la bellezza, la giustizia e la generosità.
Sentiamolo con le parole di Bertrand Russel citato da Murray: “What was eager and grasping, what was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful and eternal shine out like stars in the night”[13], quanto c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è svanito. Le cose che erano belle ed eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere di trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.
Già Gorgia aveva indicato un nesso tra la poesia, la pietà e il terrore: nell’ Encomio di Elena il sofista dichiara di giudicare th; n poivhsin a{pasan , la poesia nel suo complesso, un discorso in versi, negli ascoltatori del quale si insinua kai; frivkh perivfobo~ kai; e[leo~ poluvdakru~ (9), un brivido pieno di terrore e una pietà grondante di lacrime.
Aristotele chiarisce meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio, non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me; n peri; to; n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to; n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[14].
Racine nella Prefazione alla sua Fedra (1677) scrive che il carattere della protagonista: “possiede tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.
Leopardi nota che “la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente né molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra... onde Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe... Da per tutto l’uomo cerca il suo simile, perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso...”[15].
L'arte dunque è mimèsi, e, all'interno di tale categoria, la tragedia, la sofoclea in particolare, si propone, come Omero, di imitare personaggi migliori di quelli reali; la commedia peggiori.
Nel prologo del film Melinda e Melinda di Woody Allen c’è una battuta azzeccata sulla differenza fra tragedia e commedia: “tragedy confronts, comedy escapes”, la tragedia istituisce confronti, la commedia è evasione. Dopo la fine (lieta) delle vicende di Melinda, il medesimo personaggio della cornice teorica, un commediagrafo, conclude: “we laugh because it masks our real terror about mortality”, noi ridiamo per mascherare il reale terrore della nostra mortalità.
Avvertenza: il blog contien 11 note e il greco non traslitterato.
Introduzione alla tragedia greca. Terza parte
Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo: "ajpo; tw'n ejxarcovntwn to; n diquvrambon”[16], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città" (Poetica , 1449a, 12).
L'origine del dramma sarebbe dunque da collegarsi al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
Per quanto riguarda la regione di origine del dramma e il popolo che l’ha inventato, Aristotele ci informa che i Dori rivendicano la tragedia e la commedia etimologizzandone i nomi: “poiouvmenoi ta; ojnovmata shmei`on “ (1447b), poiché considerano i nomi un segno. Essi infatti affermano di chiamare i sobborghi kwvma~[17], mentre gli Ateniesi li chiamano dhvmou~, e sostengono che i commedianti (kwmw/douj~) sono così chiamati oujk ajpo; tou` kwmavzein, non dal fare baldoria ajlla; th`/ kata; kwvma~ plavnh/, ma per il loro vagare per i sobborghi, in quanto disdegnati dal centro delle città. Inoltre affermano che per “fare” loro dicono dra`n, mentre gli Ateniesi pravttein. Ebbene dra`n è “il verbo tragico per eccellenza, l’agire che decide, risoluto fino alla fine, compimento felice o naufragio che sia”[18]. Ancora: il “fare” contiene la categoria della politica. Il dramma antico è dramma politico.
L’inessenza politica è una in essenzialità radicale.
Di nuovo Cacciari: “La ‘conversazione’ beckettiana, come certi dialoghi dell’Ulysses, non mette in scena una perdita, ma un’inessenzialità radicale: l’uomo non è ‘animale politico’. Allora, certamente, ogni drama diviene impossibile a priori, poiché è possibile fare soltanto per quell’esserci che è nella sua essenza inter - esse”[19].
Dioniso
I riti della fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale - dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce (...) Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore (...) In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci - e non solo per i greci - è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[20].
“Seppure possa sembrare affascinante, la ricerca delle origini... non è poi problema tanto rilevante (...) non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[21].
Le rappresentazioni ad Atene
Le rappresentazioni ad Atene avvenivano principalmente durante le Grandi Dionisie, le quali, istituite tra il 535 e il 533 da Pisistrato, si tenevano all'inizio della primavera, tra marzo e aprile, quando, per una settimana circa, si svolgevano processioni, cortei e riti in onore di Bacco, si cantavano a gara ditirambi da parte di cori maschili e femminili, si facevano banchetti e scatenate baldorie che incrementavano le nascite, e finalmente si assisteva agli agoni tragici e comici: per tre giorni, tre drammaturghi scelti dall’arconte eponimo tra i concorrenti presentavano tre tragedie nuove e un dramma satiresco, mentre il quarto giorno era quello delle cinque commedie, una per ciascuno degli autori ammessi.
“ Almeno nell’età di Eschilo, Sofocle ed Euripide, il dramma satiresco concludeva, a mo’ di appendice alle tragedie, la tetralogia che ciascun tragediografo portava in scena alle Grandi Dionisie.
Il dramma satiresco proponeva al pubblico un episodio del mito, ma riservando ad esso un trattamento in chiave burlesca. Si badi bene però: nulla che lo assimilasse alla commedia. Il dramma satiresco era piuttosto un “sottogenere” del più nobile genere tragico, come indicano i molteplici e sostanziali punti di contatto tra le due forme di spettacolo: medesimo autore, medesima occasione della performance, medesimi attori e medesimi coreuti, medesima morfologia strutturale (articolazione in prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo), introduzione sulla scena dei medesimi personaggi. Questi ultimi sono ovviamente gli eroi del mito; e tuttavia l’atmosfera in cui sono immersi, pur ricalcando il soggetto scenico le linee del racconto tradizionale, è assolutamente surreale: ché accanto ad essi imperversa regolarmente - come elemento imprescindibile del genere - un coro di satiri guidati dal loro padre - tutore, il vecchio Sileno. Esseri semiferini, cinti di una pelle di cuoio, con fallo eretto, coda e orecchie equine, maschera con barba e naso camuso... li vediamo all’opera come araldi, atleti, cuochi, nutrici di Dioniso, marinai, carpentieri, pastori ecc. Incapaci e vili, rozzi e brutali per un verso, ingenui e puerili per un altro, totalmente estranei alle istituzioni e alle convenzioni della polis e del consorzio civile, essi si trovano a cooperare (spesso contro un mostro o un “nemico” di cui sono schiavi e da cui dovranno essere liberati) con personaggi di forte tempra e di fiera dignità eroica, determinando con i loro facili entusiasmi e la loro imperizia, ostacoli, sorprese, situazioni di imprevista comicità. La magra messe di testi di cui disponiamo - appena un dramma completo, il Ciclope di Euripide, circa metà dei Cercatori di orme di Sofocle e poi frammenti più o meno estesi, tra cui si distinguono per ampiezza e vis inventiva soprattutto quelli eschilei - induce a credere che, a paragone delle tragedie, il dramma satiresco presentasse di norma un intreccio estremamente semplificato, il quale non aveva altra funzione se non quella di creare un pretesto al gioco lieve e scanzonato di Sileno e del coro: di qui anche un’estensione che, in media, doveva essere comparativamente molto più breve di quella di una tragedia. Come a compensare l’esilità della trama e lo scarso spessore psicologico dei protagonisti, un rilievo proporzionalmente assai maggiore era assegnato ad altri elementi di più facile presa spettacolare: ad esempio la danza, con frequenti sezioni liriche strofiche che dovevano assecondare l’esecuzione di movimenti orchestici particolarmente vivaci; o una gestualità fortemente connotata sotto il profilo mimico e dunque ben lontana dalla rigida compostezza cui era vincolata la scena tragica; o il ricorso al teratodes (il “meraviglioso”), con l’introduzione di creature mostruose, metamorfosi, camuffamenti animaleschi, apparizioni inattese”[22].
Una giuria di dieci membri estratti a sorte, uno per tribù, attribuiva i premi.
“Al termine delle rappresentazioni ogni giurato scriveva le proprie preferenze su una tavoletta; tra le dieci tavolette raccolte ne venivano sorteggiate cinque, ed era sulla base di queste cinque che veniva compilata la classifica finale. Ci si è chiesti se i giudici fossero davvero ligi al giuramento di imparzialità che erano obbligati a prestare. Il pubblico che sedeva a teatro partecipava agli spettacoli con grande vivacità, ed è naturale supporre che le rumorose reazioni di consenso o di riprovazione con cui accompagnava la rappresentazione delle opere incidessero sulle scelte dei giurati... Platone - ma siamo già nel IV secolo inoltrato - protesta energicamente contro i condizionamenti imposti dalle claques (Leg. 2, 659 a - b)” [23].
Leggiamone solo alcune parole: “A teatro il vero giudice non deve imparare a giudicare spaventato dallo strepito dei più e dalla propria ignoranza” (659a)
“Altrove, alludendo ancora ai fischi, agli applausi e alle urla scomposte del pubblico, il filosofo parla di “teatrocrazia” (Leg. 3, 700c)”[24].
“Ad episodi di corruzione accennano gli oratori del IV secolo, ma in generale non abbiamo motivo di dubitare dell’onestà dei giurati. Allo stesso modo occorre riconoscere alle giurie stesse (...) un’apprezzabile capacità di giudizio estetico. Lo prova il fatto che sia Eschilo che Sofocle vinsero in più della metà degli agoni cui parteciparono; per Euripide il discorso è più complesso: lo scarso numero di vittorie riportate da un lato riflette una reale difficoltà del pubblico ateniese ad accettare le novità ideologiche, se non anche drammaturgiche, del suo teatro, e dall’altro si spiega con la circostanza tutt’altro che irrilevante che sin dagli inizi della sua carriera e fino alla morte egli si trovò a rivaleggiare con un concorrente della statura di Sofocle. Non manca peraltro qualche caso in cui il verdetto dei giudici ci appare opinabile se non addirittura scandaloso: nelle Dionisie in cui fu presentato l’Edipo re, Sofocle giunse solo secondo, essendogli stato preferito un autore di non eccelsa levatura quale Filocle. Eppure l’Edipo re - non solo a giudizio della critica moderna, ma già nella valutazione di un autorevole e indiscusso conoscitore della tragedia greca come Aristotele - è un capolavoro di rilievo assoluto. Restano oscure le ragioni della scelta dei giurati. Si può solo supporre - e ciò richiama la nostra attenzione sull’ottica parziale con cui guardiamo al teatro antico - che essi abbiano tenuto conto non solo dell’intreccio, ma anche della musica, della danza, della recitazione, dei costumi, degli effetti visivi, e che il loro voto abbia riguardato, come del resto era prassi negli agoni, non le singole tragedie, ma le tetralogie nel loro insieme”[25].
Erano meno importanti i festival invernali: quello delle Lenee (gennaio - febbraio), dedicato soprattutto alla commedia, e quello delle Dionisie rurali (dicembre - gennaio), ma gli appassionati non se li lasciavano sfuggire, e, come se avessero dato a nolo le orecchie (w{sper de; ajpomemisqwkovte~ ta; w\ta), li denigra Platone, “corrono in giro ad ascoltare tutti i cori senza mancare alle Dionisie, né a quelle urbane, né alle rurali" (Repubblica , 475d).
Platone nella stessa Repubblica biasima Omero ed Eschilo poiché attribuiscono menzogne agli dèi mentre il divino è pavnth/ ajyeudev~ (382e), assolutamente incapace di mentire. Viene ricordato il sogno ingannevole inviato da Zeus ad Agamennone nel secondo canto dell’Iliade e un frammento di Eschilo dove Teti biasima l’inganno di Apollo che aveva predetto felicità alle sue nozze poi le aveva ucciso il figliolo. Dunque sentendo cose simili sugli dèi: “calepanou`mevn te kai; coro; n ouj dwvsomen” (383c), noi ci sdegneremo e non concederemo un coro.
“ Le Lenee, cioè la festa di Dioniso Leneo (da lh`nai = “menadi” piuttosto che da lhnov~= “torchio”, come si riteneva un tempo, allorché si collegava la festa ai riti della vendemmia) si celebravano nel mese di Gamelione (gennaio - febbraio) e, dato il periodo poco propizio alla navigazione, avevano una dimensione prettamente locale: vi partecipavano soltanto, o quasi, gli abitanti dell’Attica. “L’agone è quello lenaico, e siamo tra noi” fa dire Aristofane a Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, rappresentati appunto alle Lenee, per giustificare le critiche che intende muovere al demagogo Cleone (vv. 504 ss.): assenti gli stranieri e gli alleati, il poeta comico si sente legittimato a lavare i panni sporchi in famiglia... gli agoni lenaici prevedevano all’inizio esclusivamente competizioni tra poeti comici. Le tragedie vi furono introdotte solo alcuni anni più tardi, e in scala ridotta rispetto a quanto avveniva alle Dionisie: al concorso erano ammessi solo due tragediografi , ciascuno con due tragedie, senza dramma satiresco. I grandi tragici del V secolo vi fecero rappresentare di rado i loro drammi... Le Dionisie rurali erano invece feste organizzate dai demi a dicembre, nel mese di Poseidone, ma non dappertutto nella medesima data: gli appassionati di teatro ne approfittavano , come ci riferisce Patone (Resp. 5, 475d), per assistere in più demi a spettacoli diversi. La celebrazione del culto di Dioniso qui aveva il suo momento più importante nella falloforia, una processione con la quale si chiedeva al dio la fertilità dei campi”[26].
Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner: “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune... La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte”[27].
Quindi Thomas Mann: “io credo che l’aspirazione segreta, l’estrema ambizione di ogni teatro sia il rito, da cui esso è del resto derivato presso pagani e cristiani. Arte teatrale è già per se stessa arte barocca, cattolicesimo, Chiesa: e un artista che, come Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[28].
Aggiungo Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo... bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[29].
Leopardi svaluta il dramma.
Opposta è l’opinione di G. Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua... Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a sé e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote" (Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa[30] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta... Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica, spesso è perfino soggettiva perciò impoetica.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr. fiorì principalm. In Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[31].
Sulla poesia lirica in una pagina precedente si legge: “Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone, 1856).
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[32].
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari... Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto... questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri... Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica” (V. Ehrenberg), Sofocle e Pericle, p. 19.
Qualche cosa di simile scrive T. S. Eliot a proposito del teatro elisabettiano: “La struttura fornita ai drammaturghi elisabettiani non fu semplicemente il blank verse e il dramma in cinque atti e il palcoscenico elisabettiano; non fu semplicemente la trama, poiché i poeti incorporarono, rimodellarono, adattarono o inventarono, come le circostanze suggerivano. Fu anche l’u{lh per metà già formata, il “tono dell’epoca” (espressione insoddisfacente), una preparazione, un’abitudine da parte del pubblico a reagire a certi particolari stimoli”[33].
Del resto nello stesso Zibaldone, più avanti, Leopardi entra in contraddizione con quanto scritto a p. 1856.
“le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione (2362) contraria. Che vuol dir ciò? Non è dunque la sola verità dell’imitazione , né la sola bellezza e dei soggetti e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente”.
Sentiamo anche Ortega y Gasset: “Ed è interessante ricordare... che la pagliacciata, combinata a un rito religioso... è in tutti i popoli all’origine del teatro”[34].
Introduzione alla tragedia. Parte quarta
All'inizio nel dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[35], poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to; n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15 - 18).
Infatti il dramma greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[36].
Il metodo odierno tende piuttosto alla orwelliana distruzione delle parole: “it’s a beautiful thing the destruction of words” (1984, I, 5) , una cosa bella e utile per ogni regime tirannico
Ad Atene i drammi venivano rappresentati nel teatro di Dioniso situato sulle pendici dell'acropoli.
In origine era di legno, poi subì diversi sviluppi e cambiamenti, fino all'epoca dell'impero romano, quando vi si svolgevano combattimenti di gladiatori e forse anche naumachie. Meglio conservato e di struttura più unitaria è quello di Epidauro, creazione[37] di un singolo architetto: Policleto il giovane.
In ogni modo il teatro[38] era senza tetto e constava di tre parti: la prima era la càvea (koi'lon), la gradinata dove sedeva il pubblico; la seconda l'orchestra circolare, il luogo centrale sul quale danzava il coro, dove sorgeva l'altare di Dioniso e si trovava una piattaforma (logei'on), forse leggermente elevata: questa era il palcoscenico sul quale recitavano gli attori e stava nella parte dell'orchestra più lontana dagli spettatori; infine, di seguito, si trovava la scena, in origine una tenda (skhnhv) che consentiva ai personaggi di cambiarsi il costume senza essere visti dal pubblico, poi divenne l'edificio di sfondo, un palazzo reale, un tempio, con una o più entrate, e due ali sporgenti (paraskhvnia), oppure una caverna. L'attore, abbiamo detto, recitava davanti alla scena, ma in certi casi appariva sul suo culmine o, impersonando un dio, su un un tetto mobile (qeologei'on), o anche sospeso in aria da una specie di gru (mhcanhv), e in tal caso era il deus ex machina.
“Dove agivano gli attori? Era riservato loro uno spazio distinto da quello del coro? Una testimonianza di Vitruvio (V 7, 2) riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione di questa struttura, con una conseguente rigida spartizione degli spazi, è un prodotto dell’età ellenistica: essa interessò certamente anche il teatro di Dioniso, ma non prima del III sec. a. C.
Le tragedie che noi leggiamo ci documentano invece, in più di un caso, una stretta interazione tra coro e attori: le Supplici di Eschilo ci mostrano l’araldo egizio che aggredisce le Danaidi e tenta di trascinarle via con la forza da Argo; e nell’Edipo a Colono il coro cerca di contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le stesse commedie di Aristofane, del resto, e ancor più il dramma satiresco - che, non dimentichiamolo, venivano rappresentati nello stesso teatro di Dioniso - presuppongono la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che nel teatro del V sec. a. C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e logheion, o almeno non poteva esservi un proscenio così alto come quello di cui parla Vitruvio... L’ipotesi che riscuote maggiori consensi è che nel V secolo un logheion rialzato esistesse realmente, ma che la sua altezza fosse tale da consentire facilmente, qualora la dinamica scenica lo prevedesse, un avvicinamento e quasi un contatto tra coreuti e attori”[39].
“Tra le convenzioni del teatro greci rientra anche l’uso di macchine... Il più celebre di questi strumenti è senza dubbio la macchina del volo (mhcanhv o anche gevrano~= “gru”): un congegno fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra , dotato di un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui estremità doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare l’attore destinato ad essere sollevato in alto... della mhcanhv si fa uso nel Prometeo[40] , ove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato... Della mechané Euripide si avvalse spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra il fatto che l’espressione qeo; ~ ajpo; th`~ mhcanh`~ (=deus ex machina) divenne proverbiale: la prima attestazione è in Platone (Crat. 425d; Clitoph. 407a), e con ironia il comico Antifane[41] osserva che ai poeti tragici, quando essi non sanno più come sviluppare l’azione, basta alzare la gru così come si alza un dito, ed ecco che ogni loro problema è risolto (fr. 189 K. - A)”[42].
Un'altra macchina, utile a mostrare simbolicamente scene d'interno o a trasportare personaggi era l' ejkkuvklhma , un carrello basso su ruote, spinto fuori attraverso l'apertura centrale della skhnhv .
Questa , tornando ad Aristotele, fu resa più ricca e varia da Sofocle che introdusse la scenografia e il terzo attore (Poetica , 1449a, 19).
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[43]) e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.
“Il medesimo attore interpretava nelle Baccanti i personaggi di Penteo e di Agave, con un sinistro effetto di ironia tragica, se si pensa al finale del dramma e alla possibilità che nella voce della madre che celebra il suo folle trionfo gli spettatori riconoscessero, al di là delle variazioni messe in atto dall’interprete, la medesima voce del figlio da lei dilaniato (...) nelle Baccanti un attore impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora Cadmo, il servo e il primo Messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del ruolo del secondo Messaggero ”[44].
Torniamo alla Poetica di Aristotele
Per quanto riguarda la grandezza (to; mevgeqo~), da racconti brevi e un linguaggio scherzoso, per il fatto che subì una trasformazione dal satiresco, la tragedia assunse tardi una forma solenne, e il metro da tetrametro divenne giambico (1449a, 21). All’inizio si usava il tetrametro per il fatto che la poesia era satiresca e piuttosto adatta alla danza, poi, sviluppatosi il dialogo, la stessa natura del parlato trovò il metro appropriato: mavlista ga; r lektiko; n tw'n mevtrwn to; ijambei'on ejstin (1449a, 25), infatti il giambo è il verso più adatto al parlato; un segno di questo è che noi nella conversazione diciamo moltissimi giambi, mentre gli esametri li usiamo raramente e solo quando usciamo dal tono della conversazione (1449a, 31).
La tragedia consta di sei parti qualitative (mevrh ei\nai e{x, kaq j o{ poiav ti~ ejsti; n hJ tragw/diva, 1450a, 10): racconto (mu'qo~), caratteri, linguaggio, pensiero, spettacolo visivo, musica.
Introduzione alla tragedia. Parte quinta
Il dramma dunque è un'opera complessa. Wagner , nello scritto L'arte e la rivoluzione (1849), la definisce "arte complessiva dove l'elemento maschile e intellettuale, la parola, feconda quello femminile, la musica che ha la risonanza dei tempi primordiali". La tragedia greca era una forma d’arte connessa a una “religione inviscerata nelle leggi e ne’ costumi d’un popolo”[45]”, quello ateniese. Cito ancora Wagner: “L’opera d’arte è la rappresentazione vivente della religione; ma la religione non l’inventa l’artista: essa deve le sue origini al popolo”[46].
La tragedia complessa presenta peripezia e riconoscimento. Infine c’è la catastrofe.
Aristotele delle sei parti considera importantissimo il racconto, ossia l'intreccio dei fatti che è quasi l'anima della tragedia. I racconti possono essere semplici (aJploi', 1452a, 10) o complessi (peplegmevnoi). E’ semplice l’azione dove il cambiamento (hJ metavbasi~, 1452 a, 16) accade senza peripezia o riconoscimento , complessa quella dove il cambiamento avviene meta; ajnagnwrismou' h] peripeteiva~ h] ajmfoi'n (Poetica, 1452a, 17), con riconoscimento o peripezia, o entrambi. Vediamo di che si tratta.
"Peripezia (peripevteia) è il cambiamento repentino di ciò che accade nel suo opposto, cosa che deve avvenire in maniera verosimile e necessaria" (1452a, 11).
Viene fatto l'esempio dell'Edipo re di Sofocle, quando giunge un messo da Corinto per tranquillizzare il protagonista (vv. 924 e sgg.) e invece dà l'avvio alla parte dell'indagine che porta al pavqo~, l’evento doloroso e catastrofico, che, dopo la peripezia e il riconoscimento, è la terza parte del racconto (trivton de; pavqo~, 1452b, 10), pravxi~ fqartikh; h] ojdunhrav (Poetica, 1452b, 11), un’azione rovinosa o dolorosa.
Questo capovolgimento che inganna le attese ottimistiche è tipica dei drammi di Sofocle: "In quattro tragedie, e cioè Antigone, Aiace, Edipo re, Trachinie, poco prima della catastrofe, il Coro, convinto o illuso che le cose stiano cambiando in meglio, si abbandona a una danza allegra, l'iporchema. Teatralmente è una trovata geniale. Il pubblico che è, per così dire, preveggente in quanto conosce la trama della vicenda, soffre per la cecità del Coro, per la sua incapacità di prepararsi al peggio (...) La tragedia di Sofocle è il resoconto di un assedio a cui il protagonista è sottoposto, per lo più in modo terribile, e che si conclude con l'espugnazione del suo mondo. Si può individuare una linea che ora ascende e ora discende, c'è un momento in cui l'eroe sembra spuntarla sul male e sui nemici. Almeno così ritiene il Coro in quattro tragedie su sette. Il suo comportamento sottolinea l'inadeguatezza della ragione umana nel cogliere i movimenti profondi del divenire"[47]. “Forse è un decreto della provvidenza che ci colga l’euforia quando stiamo davanti all’abisso”[48].
Tw/' pavqei mavqo"
Vero è pure che il pavqo~ può essere valorizzato e redento dal mavqo~, secondo quanto afferma il coro di vecchi argivi nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw/' pavqei mavqo" (v. 177) , attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[49]. Una sentenza topica che ha avuto un lungo seguito nella letteratura europea: da Euripide, a Menandro, a Proust, a Hermann Hesse per fare solo alcuni nomi.
Vediamone alcune espressioni
Un tovpo" etico e psicologico diffuso è quello del tw/' pavqei mavqo" [50], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[51]. Voglio darne un ampio quadro.
La sofferenza che conduce alla comprensione.
Esiodo. Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij. H. Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora Hesse. Piero Boitani
Tale legge si trova in diverse espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine, supera la prepotenza e soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni, vv. 217 - 218).
Viceversa Pavese: “Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente”[52].
Nell'opera di Sofocle questa concatenazione di delitto - castigo - riconoscimento degli errori, è messa in piena evidenza alla fine dell'Antigone, quando Creonte riceve la notizia del terzo suicidio provocato da lui e dichiara la propria colpa che lo ha annichilito: "a[getev m j ejkpodwvn, - to; n oujk o[nta ma'llon h] mhdevna", portatemi via, io non sono più di un nessuno (vv. 1324 - 1325). Nel poeta di Colono questo comprendere tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine in seguito a resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti di Euripide.
Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v. 940). In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie Panfile per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione: " ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko; " ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso.
Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (...) i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc (...) Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi (...) E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[53].
E', secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[54]. Su questo episodio torneremo trattando l’intolleranza e la tolleranza (21. 1).
Sulla medesima linea si trova il Duvskolo": il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere: " e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn - aujto; " aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv. 713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più comprensivi: "non si può dire che mavqo" non ci sia stato...Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[55].
Del resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia il figliastro del misantropo: “ oJ pai`~ uJpe; r th; n hJlikivan to; n nou`n e[cwn: / proavgei ga; r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28 - 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età: /infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia; tw'n ajllotrivwn); la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa ("ajblabevsteron", Storie , I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore... la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore... quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello! "[56].
La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata". [57]
Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[58]: "il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini, - la sua raccapricciante certezza... di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (Che cosa è aristocratico, 270) .
Per non limitarci alla letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungiamo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris succurrere disco " (I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola: "E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[59].
“Virgilio insiste, com’è ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente sensibile al dolore degli altri”[60].
Friederich Schiller impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue tragedie, particolarmente nella Maria Stuarda (1802): “il personaggio della infelice regina cattolica sembra tra tutti il più adatto ad essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione euripidea (...) secondo quelle leggi drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen [61], 1793, per le quali “Se la prima legge dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda legge è rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[62]. Maria muore non solo rassegnata ma felice del proprio matirio: “La prigione si apre, /e lieta la mia anima vola/verso l’eterna libertà... ora/ benefica e dolce mi si affianca/la morte come una severa amica... Sento/di nuovo sul mio capo la corona/e l’antica dignità rivive/nell’animo lavato dal dolore” (V, 4).
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive: " io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza (...) In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio? " (p. 234 e p. 320).
Lo stariez Zossima nei Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “ Avrai molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento: nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[63].
H. Hesse, in Siddharta (p. 135) esprime con altre parole l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo": "Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.
Su questo possiamo sentire Proust: "Perché solo la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie dello spirito... Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere...Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante! "[64].
La sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure all'arte: "Spesso solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara a quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[65].
“La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”[66].
Sentiamo ancora qualche testimonianza
D'Annunzio attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore: "Ella[67] ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[68]: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito"[69].
Di nuovo il vecchio Malavoglia: “Hanno imparato presto perché hanno visti guai assai! - diceva padron jNtoni: - il giudizio viene colle disgrazie”[70].
Torniamo a C. Pavese: " la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente"[71].
“Soffrire non serve a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[72].
“Qualunque sofferenza che non sia anche conoscenza è inutile”[73].
Mi avvio alla conclusione con un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse: "mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[74].
Concludo questo argomento citando Piero Boitani, professore di Letterature comparate nell’Università di Roma “La Sapienza ”, e amico
umanissimo: “La vita è fatta della nostra relazione con gli altri, non solo di
contemplazione della natura o di noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli
altri sia necessario compatire: non soltanto nel senso di avere pietà nei loro
confronti, di guardare alle loro e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com - patire”.
Se soffriamo con gli altri, se prendiamo su di noi i loro dolori, riconosciamo
l’essere umano che è in loro, e in noi, in maniera assai più profonda di quanto
non ci consenta il semplice conoscere... Leggere la compassione nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le
variazioni in Omero, in Proust, in Guerra
e Pace. Temi e tradizioni. La letteratura è un albero gigantesco, ma le
radici sono sempre le medesime, e la ri - scrittura è il principio che ne
governa la crescita”[75].
E più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un prerequisito del riconoscimento. Sela Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere
sia la morte[76],
i Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto
attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[77],
ma è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera
memorabile nell’Agamennone, quando il
coro intona il famos “Inno a Zeus”[78]
Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome
Con cui gli è caro essere invocato,
così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente vagliando,
tranne Zeus, se veramente si deve gettar via
il vano peso dal proprio pensiero.
(... .)
Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la saggezza -
A Zeus che ha avviato i mortali
A essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza attraverso la sofferenza”.
Invece del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia memore di dolori:
anche a chi non vuole arriva saggezza.
Pathei mathos: questa è l’indicazione di Zeus per il phronein umano, la “prudenza” che è saggezza”[79].
Aggiungo i due versi dell’Agamennone opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me; n paqou' - sin maqei'n ejpirrevpei” (Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
Concludo davvero con Nietzsche: “A proposito di rose e di spine, di croce e di rose, sentiamo Così parlò Zarathustra: “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”[80]. Man muss noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können.
Non solo: questo caos va attraversato, capito e redento in cosmo. Credo che tutti gli uomini umani - quorum ego - siano saliti per questo calvario per essere crocifissi e poi risorgere.
Introduzione alla tragedia. Parte sesta
Ancora dalla Poetica di Aristotele
Ora veniamo al riconoscimento.
Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv (Aristotele, Poetica, 1452a, 30) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.
Il miglior riconoscimento
Kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32 - 33) come per esempio nell’Edipo re.
Un altro tipo di riconoscimento avviene attraverso la memoria (hJ trivth dia; mnhvmh~, 1454b, 37) come nella narrazione di Alcinoo. Si tratta dell’Odissea quando Odisseo si ricordò e pianse commuove sentendo Demodoco che alla corte dei Feaci canta la lite tra Achille Pelide e lo stesso Laerziade[81]. Quindi venne riconosciuto. .
Varie sono le forme del riconoscimento (ei[dh de; ajnagnwrivsew~, 1454b, 20) dunque. La più usata e più estranea all’arte (hJ ajtecnotavth) avviene attraverso segni (dia; tw'n shmeivwn, 1454b, 21) che possono essere congeniti (suvmfuta) o acquisiti (ejpivkthta 1454b, 23). Esempio di segno congenito è la lancia che portavano sulla pelle i Ghgenei'~, i figli della terra progenitori dei Tebani, mentre i segni acquisiti possono essere ferite (oujlaiv, 1454b, 24) impresse sul corpo, come la cicatrice di Odisseo[82], oppure oggetti esterni al corpo, come collane, o la culla a forma di barca attraverso la quale nella Tiro di Sofocle la madre riconosce i figli Pelio e Neleo che vi erano stati esposti. Ci sono poi i riconoscimenti di secondo tipo, quelli fatti dal poeta, e nemmeno questi sono artistici.
Nell’Ifigenia fra i Tauri, la protagonista si rivela attraverso la lettera (dia; th'~ ejpistolh'~, 1454b, 34)
C’è un quarto tipo di riconoscimento: quelli che avviene ejk sullogismou' (1455a, 4), attraverso un sillogismo, come nelle Coefore di Eschilo, dove Elettra deduce che il fratello è arrivato, con un ragionamento fatto dopo avere trovato sulla tomba del padre "un ricciolo tagliato" (oJrw' tomai'on tovnde bovstrucon tavfw/, Coefore, v. 168)[83], una ciocca di capelli simili ai propri: qualcuno che mi assomiglia è stato qui, ma solo Oreste mi somiglia, dunque quello era Oreste. Quindi Elettra trova un secondo indizio: tracce di piedi simili alle sue: ” kai; mh; n stivboi ge, deuvteron tekmhvrion, - podw'n, oJmoi'oi, toi'~ t j ejmoi'sin” (Coefore, vv. 205 - 206).
Nemmeno questo è il riconoscimento ottimo, ma quello che deriva dagli stessi fatti (pasw'n de; beltivsth ajnagnwvrisi~ hJ ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn1455a, 16), come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia poiché era verosimile voler mandare una lettera (eijko; ~ ga; r bouvlesqai ejpiqei'nai gravmmata, 1455a, 19).
Il riconoscimento delle Coefore viene criticato più duramente da Euripide nell'Elettra[84] dove la stessa figlia di Agamennone polemizza con il sillogismo di Eschilo proposto dal vecchio che l’ha allevata, in quanto, dice, i capelli di Oreste non possono essere simili ai miei, siccome egli è un uomo cresciuto nelle palestre; io invece sono una donna che usa il pettine; del resto molti hanno riccioli simili senza essere parenti (Elettra , vv. 527 - 531). Altrettanto aspramente viene confutato l'indizio delle orme che il prevsbu~, quasi echeggiando Eschilo, le fa notare (i[cno~... ajrbuvlh~, v. 532, l’impronta dello stivale), dopo i "riccioli recisi dalla testa bionda" (Elettra, v. 515). Le impronte infatti sulla roccia, replica Elettra, non restano neppure, e anche se rimanessero, quelle del fratello non sarebbero uguali a quelle della sorella, ma più grandi (Elettra, vv. 534 - 537). Il riconoscimento avviene comunque poco più avanti attraverso il segno convincente di una cicatrice sul sopracciglio (oulh; [85] par j ojfruvn) che Oreste si procurò da bambino inseguendo con la sorella un cerbiatto nel palazzo del padre (Elettra, vv. 573 - 574).
Ho riferito questi versi euripidei per dare un saggio di come la tendenza al ragionare si sviluppa dal poeta più antico a quello più recente in un crescendo che, secondo i detrattori di Euripide, Aristofane e Nietzsche, giunge ad uccidere lo spirito dionisiaco e la pietà tragica.
Il riconoscimento è cruciale per l’avvio alla catarsi. Il non riconoscimento, nella tragedia greca quello tra Edipo e Laio, per esempio come nel Nuovo Testamento è qualche cosa di negativo. “Il non - riconoscimento sostituisce, nel mondo degli uomini, la lucida opposizione delle potenze demoniache nel mondo spirituale (il disconoscimento, il non riconoscimento potrebbe quindi essere la figura umana dell’ostilità del demone)”[86].
Tornando ancora alla Poetica che mi sembra la propedeutica più seria, seppure meno brillante di altre, alla tragedia greca, Aristotele sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta1450b, 5), e questo applicato all’eloquenza è il compito della politica e della retorica: infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (1450b, 7 - 8).
Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti politicamente.
Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale: "benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[87].
Allora l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”[88]. La categoria della bellezza è sempre presente nei classici greci “intendentissimi del bello” come ha scritto bene Leopardi.
Quanto alle cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o di eccederne di poco" (1449b, 13). Come si vede non si tratta di una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[89] approvandolo, della " semplice notizia di un fatto"[90]; eppure i critici del Rinascimento ne dedussero la regola dell'unità di tempo. Più prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia - afferma - è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza" (1450b, 24 - 25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4).
Quanto all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni: “è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[91].
Vediamo invece quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16).
“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere rivelato dai proponimenti (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare)”[92].
Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto).
I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).
“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[93].
La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh; n ei\nai, 1454a, 23).
Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presentala Nutrice nel Prologo della
tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il
canto della vittoria (Medea, vv. 44 -
45).
Tremenda del resto è anche l’Elettra di Sofocle con la madre, Antigone con la sorella Ismene e la Clitennestra di Eschilo con il marito.
La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi.
O magari la somiglianza co se stesso.
Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).
Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[94] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[95] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[96], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene.
Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (Poetica, 1454a, 32).
Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[97], poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille si innamora (gennaiva ga; r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo; n jEllavdi”, v. 1397.
“In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[98].
In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi vari. Ma Aristotele pretende che l'irrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come nell'Edipo di Sofocle.
Questo mi sembra poco chiaro. Trovo piuttosto che Sofocle in questa tragedia tenda a smontare la presunzione di Edipo riguardo alle proprie capacità mentali. L’irrazionale è sottovalutato da Edipo e Giocasta per gran parte della tragedia. Per esempio nel rifiuto degli oracoli e dei segni mandati dagli dèi.
La Medea di Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene
per effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).
Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.
Interessante è anche la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso (to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".
Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos: "se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[99] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.
Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23), ossia il poeta deve mettersi nei panni dello spettatore, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[100].
Stanislavskij che studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[101].
E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e vi distraggono dall’arte”[102].
Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava diverse parti e psarti diverse in un sol dramma
“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, molto sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[103].
Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit”[104], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Anche il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le parti cantate non sono più connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.
Introduzione alla tragedia. Parte settima
Funzioni del coro tragico. Senofonte, Demostene, Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray
Voglio riferire alcune interpretazioni sulla funzione del coro nella tragedia
Senofonte nei Memorabili (del 370 circa) fa dire a Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non vedi - dice il filosofo a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi - come nei cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli istruttori? ” (3, 5, 18).
Un analogo elogio dei cori si trova nella I Filippica (349) di Demostene il quale contrappone la serietà dell’organizzazione delle feste Dionisie e Panatenee al disordine, alla confusione e all’improvvisazione delle spedizioni militari. Le feste infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla in queste viene trascuratamente lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde; n ajnexevtaston oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai (36).
Secondo Hegel il Coro della tragedia "non agisce ed ha dinanzi a sé solo l'universale"[105].
Il coro è la "coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione (...) è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio suolo" (Estetica, p. 1604).
Il coro può anche "essere paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la statua del dio, che qui diviene l'eroe in azione" (p. 1605).
Leopardi nello Zibaldone afferma che l'uso del coro è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua poetica del vago e dell’indefinito o dell’infinitudine.
Manzoni nella Prefazione a Il conte di Carmagnola (1820) sostiene che dei "Cori dei greci" si possa rinnovare lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti dall'azione, possono avere "uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i propri sentimenti".
In La nascita della tragedia Nietzsche ricorda la tradizione la quale "ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene l’obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario, senza in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche correnti - che esso era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena...dato che da quelle origini puramente religiose rimane esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere qualsiasi sfera politico - sociale "[106].
L'idea di identificare il coro come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[107] e deve avere fatto epoca, poiché la ricorda anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un espressione lirica e armonica e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori”[108].
Così siamo tornati e ci colleghiamo di nuovo a Nietzsche il quale invece rifiuta, quasi con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda allo spettatore ideale: “un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto ideale, e dal nostro stupore momentaneo"[109].
La formula non regge siccome lo spettatore e il coro sono entità differenti.
Il pubblico ha la consapevolezza di assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre il "coro tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente davanti a sé il titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto il dio della scena"[110].
Maggiore credito viene data dal filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina (1803) da Schiller, che considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica (...) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale dei mortali...La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà... Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto ...il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia - lo dico fin d’ora - per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi "[111].
Da una parte è vero che l'uomo moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[112].
Non è è falso quanto afferma Bernardin De Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[113].
D’altra parte la componente istintiva, prima repressa poi scatenata alla distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti: " Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira acciecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra"[114].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[115], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel1886 a
quest’opera giovanile , essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla
prolissità della giovinezza appunto, all’influenza del romanticismo e del
cristianesimo: “metafisicamente consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente... No! Dovreste prima
imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”.
Ma torniamo alle pagine e alla consolazione metafisica della stesura del 1871.
“Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita (...) In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini [116]. La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione"[117].
L'arte però ci salva dalla negazione della volontà: "Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[118].
Il coro "può essere inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in genere"[119].
Sofocle però comincia a ridurre questa funzione: "Già in Sofocle appare quella perplessità riguardo al coro - un segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a sgretolarsi. Egli non osa più affidare al coro la parte principale e più efficace, e ne limita invece a tal punto il dominio, che esso appare ora quasi coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall'orchestra e portato in scena: con ciò certo la sua essenza è totalmente distrutta, per quanto Aristotele[120] dia la sua approvazione proprio a questa concezione del coro. Quello spostamento della posizione del coro, che comunque Sofocle ha raccomandato con la sua prassi e, secondo la tradizione, addirittura con uno scritto, è il primo passo verso la distruzione del coro, le cui fasi si susseguono con spaventosa rapidità in Euripide, in Agatone e nella commedia nuova. La dialettica ottimistica scaccia la musica dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge l'essenza della tragedia, che si può interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione della musica, come il mondo di sogno di un'ebbrezza dionisiaca"[121].
Certo è che dal ditirambo originario, a Eschilo a Euripide, così come pure nella commedia, dal primo all’ultimo Aristofane, il coro perde progressivamente importanza, a mano a mano che ne acquista l'individuo. sganciandosi sempre più dalla città, dalla religione, dalla stirpe.
Il coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore lirico. Esso, sostiene Gilbert Murray[122] traduce il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le sofferenze vengono redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza.
I coreuti talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi , talora umani invasati o attraversati da grandi emozioni, come le Baccanti .
Il canto di queste creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla stessa trama del dramma. Murray fa l'esempio del quinto Stasimo della Medea , il canto successivo all'infanticidio. Nella seconda antistrofe (vv. 1282 - 1292) le donne di Corinto, che più volte hanno espresso solidarietà a Medea, cantano:
"Di una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che scagliò le mani contro i figli: /Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di Zeus la cacciò da casa di corsa. /Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia strage dei figli, /e avere teso il piede oltre la riva marina, /e muore una morte comune con le sue creature. /Quale altra atrocità potrebbe accadere? /oh letto delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai mortali! ".
Il coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non viene dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei secoli. La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo, la quale, fatta impazzire da Era, uccise i propri figli.
La Memoria, madre delle Muse ha compiuto la sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria svanisce, e, come stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.
Tale potenza di trasfigurazione dunque si ottiene per mezzo del coro che canta non solo la sofferenza ma anche la felicità dell'uomo. Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che rimane nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre al loro potere e ha la forza di rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura la realtà tragica in poesia.
Così i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori, possono assumere una valenza educativa: “ Proust ricordava che nessun altare fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più profonda venerazione e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[123].
"La realizzazione delle parti corali della tragedia greca costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno. Il teatro borghese da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la capacità di ascoltare, e incarnare in un coro, le voci provenienti dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo due eccezioni: la banda di straccioni e mendicanti della brechtiana Opera da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S. Eliot. [124]" .
Introduzione alla tragedia greca. Parte ottava
Chiudo questa parte con altre due parole sul film Itaca il ritorno
Torniamo alla Poetica di Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh; n ei\nai” (1458a, 18). Pregio del linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta è libero di variare rispetto all’usuale, cioè al dozzinale.
Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine: “xeniko; n de; levgw glw'ttan kai; metafora; n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale.
Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4).
Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). Allungata (ejpektetamevnon, 1457, 35) è la parola adoperata con una vocale più lunga dell’ordinario o con l’aggiunta di una sillaba; accorciata (ajfh/rhmevnon) quando si toglie qualche cosa (1458a, 1). Non si devono impiegare tutti insieme questi elementi inusuali, altrimenti si produce l’enigma o il barbarismo. Dalle glosse si producono i barbarismi, dalle metafore l’enigma, la cui caratteristica è combinare insieme l’impossibile dicendo cose vere. (1458 a, 26)[125]. Per avere insieme elevatezza e chiarezza dunque bisogna fare in un certo modo una mescolanza di queste forme: “dei' a[ra kekra'sqai pw~ touvtoi~” (1458a, 31). Arifrade canzonava[126] i tragediografi poiché fanno uso di espressioni che nessuno impiega parlando, come le anastrofi (oi|on to; dwmavtwn a[po ajlla; mh; ajpo; dwmavtwn, 1458a, 33, come per esempio da casa via e non via da casa), e ignorava che sono proprio le espressioni inusuali a produrre nel linguaggio to; mh; ijdiwtikovn (1459a, 3) il non triviale.
E’dunque molto importante sapere usare queste forme di abbellimento, e soprattutto le metafore
Questo fatto creativo non può essere preso in prestito da altri: “ eujfui? a~ te shmei'ovn ejsti: to; ga; r eu\ metafevrein to; to; o{moion qewrei'n ejstin” (1459a, 6 - 7), ed è segno di talento: infatti trovare buone metafore significa osservare ciò che è somigliante[127].
“E’ in questo senso che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose”[128].
“Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale”[129].
Nella Retorica, Aristotele dà questo suggerimento: "bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th; n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).
Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone di Leopardi dove leggiamo: "le parole lontano , antico , e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse" (1789). E, più avanti (4426): "il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago".
La metafora del resto possiede in massimo grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica , III, 1405a).
Diamo l’esempio di una bella sequenza polimetaforica dei Persiani di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta all' a[th: " u{bri" ga; r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun - - a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/ qevro"" (vv. 821 - 822) la prepotenza infatti fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una messe tutta di lacrime.
“I Persiani sono un dramma storico, ma trascendono questo livello grazie all’interpretazione che in essi riceve l’evento: la vittoria dei Greci è opera loro come degli dei che puniscono l’eccesso con l’empietà... Il dramma resta naturalmente anche un documento storico e non si dovrà dimenticare che il grande resoconto della battaglia fu scritto da un uomo che vi prese personalmente parte”[130].
Tornando alla Poetica, Aristotele ribadisce che il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth; ~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei; zwgravfo~) o un altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli uomini come devono essere, Euripide come sono" (1460b, 34).
Questa famosa affermazione attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea della differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide che comincia a degradare l’eroe[131].
Insomma: se il poeta è un imitatore al pari di ogni altro artista, e si accusa il drammaturgo perché ha ritratto cose non vere, allora può darsi che egli le abbia rifatte come vorrebbe che fossero.
Riporto anche una divisione della tragedia in parti quantitative (kata; de; to; posovn, Poetica, 1452b, 15) che può essere utile a uno studente di liceo. Il Prologo è la parte (recitata) che precede l'ingresso del coro; la Parodo è il primo canto del coro (quello di ingresso), i successivi si chiamano Stasimi (canti sul posto); Aristotele definisce lo stasimo “canto del coro privo di anapesti e trochei” (Poetica, 1452b, 24), che dovrebbe essere un canto moderato, simile al recitativo; gli Episodi sono gli atti recitati, compresi tra un coro e l'altro; l'Esodo è la parte finale, cui non segue un canto corale; il Commo è un lamento comune cantato (a voci alterne) dal coro e dalla scena: kommo; ~ de; qrh'no~ koino; ~ corou' kai; ajpo; skhnh'~ (Aristotele, Poetica, 1452b 24
“Come sinonimo di amebeo lirico viene spesso usato il termine kommov~. In realtà il kommov~ (da kovptomai = “percuotersi” il petto o il capo in segno di lutto) è propriamente un canto antifonale di carattere funebre, un qrh`no~ che riprende forma e motivi dal lamento rituale tradizionale, in cui un solista intona il lamento e un coro risponde. Kommoiv di questo tipo sono ben attestati nella tragedia. Essi si pongono su una linea di sostanziale continuità con le descrizioni di pianto rituale già testimoniateci dai poemi omerici (ad esempio Il. 24, 719 - 776 e Od. 24, 35 - 94), con il ricorrere di elementi topici quali l’allocuzione al morto, l’autocommiserazione, l’elogio dello scomparso, il ricordo nostalgico del passato, il riferimento alla condizione del defunto e dei sopravvissuti, la promessa di adeguate onoranze funebri... L’esempio più antico di kommov~ tragico è quello dell’esodo dei Persiani di Eschilo tra Serse, che intona e guida il lamento, e il Coro, la cui funzione è di rispondere e di amplificare l’espressione di cordoglio. Oggetto del compianto è la sorte dei soldati che il re ha portato alla disfatta nella sciagurata spedizione contro la Grecia (vv. 1038 ss.)”[132].
Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato tra epica e dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa contiene tutti gli elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la musica. Inoltre il dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce più gradito anche perché è meno diluito: l'Edipo re consta di un numero di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da1500 a
15000 circa). “To; ga; r ajqrowvteron h{dion h] pollw'/ kekramevnon
tw'/ crovnw/ ” (1462b, 1), in effetti ciò che è concentrato è
più gradevole di quanto è diluito in molto tempo.
Invero la densità di uno scritto non si deve giudicare contando il numero delle pagine ma dalla significazione di ogni singola parola
Sappiamo che "il ritardare è epico"[133], mentre il tragico si affretta alla conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo a un impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.
A proposito del ritardare epico si può fare l’esempio del racconto particolareggiato della cicatrice di Ulisse. Nel XIX dell’Odissea leggiamo che Ulisse quando era ospite del nonno materno Autolico venne ferito sul Parnaso da un cinghiale dalla candida zanna su`~ leukw`/ ojdovnti (393). La nutrice Euriclea riconosce da questa oujlhv il suo pupillo partito venti anni prima e Omero procede per 72 versi raccontando come il fanciullo durante una caccia ricevette questo colpo che gli strappò un bel lembo di carne sopra il ginocchio.
Solo al verso 467 il racconto torna al presente con il riconoscimento di Euriclea che ravvisa la sua cara creatura - fivlon tevko~ - (v. 474) nel falso mendico.
Omero mette tutto in primo piano e in piena luce. Tutto viene mostrato, chiarito e spiegato.
Mi sono fermato un poco su questo episodio perché, come ho scritto nel Post di questa mattina, Il film Itaca il ritorno ha di pregevole solo questo momento di emozione della vecchia nutrice e mamma vicaria di Odisseo.
Il resto ha poco o niente del poema omerico.
Un film “liberamente tratto da un libro” è un tradimento e un’usurpazione del libro come una traduzione che non rispetta le scelte dell’autore.
Ma torniamo alla tragedia. Nell’introdurre i tre grandi tragici, non avendo abbastanza posto per rendere conto di ogni aspetto della loro poesia né dei loro contenuti, darò uno spazio prevalente al rapporto tra l’uomo e la donna, e alla condizione femminile.
Introduzione alla tragedia greca. Parte nona.
L’Estetica di Hegel
Prima di passare ai singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica di Hegel sul dramma antico. Si tratta di uno scritto uscito nel 1838, dopo la morte del filosofo, e ricavato da appunti e lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli anni tra il 1817 e il 1829.
Il dramma dunque costituisce “la fase suprema della poesia e dell'arte”, siccome “riunisce in sé l'oggettività dell'epos con il principio soggettivo della lirica”[134].
Per chiarire il significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade , si può dire che esso rappresenta spesso lo spirito originario di una nazione che mette alla prova se stessa attraverso una guerra. Hegel nella parte dedicata all'epica sostiene che"la poesia drammatica degli indiani o le tragedie di Sofocle non ci danno un'immagine così totale come il Ramayana ed il Mahabharata oppure l'Iliade e l'Odissea " (p. 1383).
L'epos dunque costituisce il fondamento della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione con un altro popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al suo centro il più delle volte vediamo un individuo che lotta con un antagonista, o con delle situazioni, o con il destino.
In vero Eschilo nei Persiani rappresenta una guerra tra due popoli, due regimi diversi e due culture differenti; nelle Eumenidi fa prevalere il patriarcato sul matriarcato.
Sofocle nei suoi drammi contrasta da sofistica di moda con l’uomo misura di tutte le cose asserito da Protagora.
Euripide che pure dà maggiore spazio ai contrasti famigliari e tra i sessi, non manca di mostrare lotte politiche e pure militari prendendo e motivando anche posizioni sue.
Nei Persiani [135] di Eschilo chiarisco assistiamo ad una guerra tra due civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano rispettivamente la libertà e il dispotismo, l'ordine civile e il caos barbarico. La tragedia greca è sempre politica.
Il conflitto del resto può essere anche interiorizzato; allora il protagonista ha l'avversario dentro se stesso, e vive in una contraddizione che lo dilania. Medea soffre con piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando afferma il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv. 1078 - 1080).
"Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme all'interno dell'individuo. . costituisce il principio propriamente lirico della poesia drammatica" (Hegel Estetica , p. 1538).
Nell'Ippolito di Euripide [136], Fedra, la matrigna innamorata del figliastro, è dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo, /ma non lo costruiamo nella fatica - oujk ejkponou`men d j - alcuni per infingardaggine, /alcuni anteponendogli qualche altro piacere. / E sono molti i piaceri della vita: /lunghe conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza" (vv. 380 - 385).
La luce di queste citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[137] .
Sentiamo anche Cacciari: “Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il confronto con l’ethos. La conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune, lo xynón, diviene problematica già nel corso della tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[138].
Caratteristica del dramma dunque è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta dovrebbero arrivare ad una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p. 1540).
L'ampia e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la soluzione delle unilateralità: “ Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è giusto o è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo spingono ad agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino solo oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di quel che è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve accontentarsi di una visione meramente indeterminata di quel che si agita nella profondità dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi esclusivo stato d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di vedere il mondo, ma ha necessità della più grande apertura e della più comprensiva vastità di spirito. Infatti le potenze spirituali... nel dramma si presentano, secondo il loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente opposte come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione dell’unilateralità di queste potenze che divengono autonome negli individui " (p. 1541).
La collisione tra le unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.
"Nella tragedia gli individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si oppongono in modo sostanziale" (p. 1589).
L'Antigone viene considerata " l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente" (Hegel, Estetica, p. 1613) [139].
Questa tragedia sopprime le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di Creonte.
" Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza.
Antigone subisce la morte prima di avere gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l'altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno - li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli - l'Antigone mi pare per quest'aspetto come l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente.
L'esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[140].
Hegel menziona le unità aristoteliche, notando che nella Poetica non c'è traccia di quella di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia" (Estetica, p. 1543).
Nella prima tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero, lo spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel campo greco sulla riva dell'Ellesponto.
Secondo Hegel "la legge veramente inviolabile è l’unità di azione" (p. 1545) poiché essa si basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel movimento totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni.
Un’ altra regola ineliminabile è che la progressione della tragedia sia più veloce di quella epica: "Il corso propriamente drammatico è dato dal progredire continuo verso la catastrofe finale" (p. 1548).
Le scene episodiche, tipiche dell'epos, che "senza portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare lo svolgimento, sono contrarie al carattere del dramma" (p. 1549).
Ho ricordato le decine di versi dedicati da Omero alla genesi della cicatrice di Ulisse nel XIX canto dell’Odissea.
Il poeta non deve dare spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda più che non infiammi” (p. 1554).
Si può ricordare il to; teratw'de~ il mostruoso della Poetica (1453b, 9). Questo è presente soprattutto nelle tragedie di Seneca.
“E non giova niente al poeta descrivere le passioni in modo così commovente; il cuore si sente soltanto lacerato, e ci si volge altrove. Infatti vi manca il positivo, la conciliazione, che non deve mai essere assente nell'arte. Gli antichi, invece, nelle loro tragedie, operavano soprattutto attraverso il lato oggettivo del pathos, a cui al contempo non manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo richiede, l’individualità umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo pathos di un animo grande, un pathos che penetra profondamente ed ovunque si mostra e si esprime come base dell’azione. " (p. 1555).
Questo mi sembra un arzigogolo.
Per quanto riguarda la metrica, Hegel riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del giambo: “Al metro drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme scorrere dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della lirica. A questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[141].
In effetti il trimetro giambico si confà all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo con il quale viene letto.
“Se si prescinde dalle melodie e dai kommoí che erano composti in metro lirico e dunque implicavano una resa affidata al canto, gli attori interpretavano le parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai più raramente in tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse resi in parakataloghé (recitativo) nelle scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di ionico. E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate da una lieve coloritura dorica”[142].
Il trimetro giambico “sembra evolvere , nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di composizione più recente - il che sembra avvalorato, in linea generale, dall’evidenza delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di rappresentazione - vari studiosi hanno tentato di fissare la cronologia relativa dei drammi euripidei. E’ evidente tuttavia che il criterio non può essere applicato in modo meccanico: vero è, ad esempio, che, secondo le statistiche di Ceadel, nell’Andromaca (rappresentata nei primi anni della guerra del Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di soluzioni è dell’11%, nelle Troiane (416 a. C.) è del 21, 2% e nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4% ”; ma nelle Baccanti e nell’Ifigenia in Aulide , che pure sono posteriori all’Oreste, le percentuali decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[143].
“La capitale richiesta al poeta drammatico è che egli debba pervenire ad una visione sommamente profonda dell’essenza dell’agire umano e del governo divino del mondo, e ad un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di questa eterna sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani” (Estetica, p. 1564). Parole generiche e inutili.
Vediamo alcune osservazioni di Hegel sulla commedia.
Il poeta deve suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre: "in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia, della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica, p. 1564).
Il commediografo in effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei Cavalieri[144], nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo Paflagone.
Negli Acarnesi dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza.
La commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno. . sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in arte" (p. 1565).
La parabasi comica è una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul costume.
Nella parabasi delle Nuvole [145] p. e. Aristofane rivendica la propria forza creativa, il coraggio, e la nobiltà del proprio animo dicendo al pubblico:
" non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/ per niente uguali tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era caduto" (vv. 546 - 550).
In effetti Aristofane come opinionista fu assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva , libertà di parola, nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415. Poi questa un poco alla volta viene limitata e con lei sparisce la parabasi. L'ultima è quella degli Uccelli del 414.
Interessanti sono alcune osservazioni sull'attore il quale deve essere"lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo era più facile perché...le maschere[146] coprivano i tratti del volto" (Estetica, p. 1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).
Il realismo invece è cosa greca.
Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni" (p. 1591). Il comico richiede contrasti che possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili: "di tale natura sono, p. e. , le Ecclesiazuse di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).
In questa commedia, del 393, le donne all’assemblea fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune" (v. 590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v. 598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle; /poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto" (v. 624).
“Il comico è la parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire” (Hegel)”[147].
Anche la commedia però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità...Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc. , questa nuda contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica" (p. 1593).
Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete" (p. 1595).
L’ultima parte dell’Orestea[148] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre - figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi. Nel Filottete[149] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv. 1420 e sgg.).
Presupposto della tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna dalla quale scaturisce l'ironia.
La tragedia è fatta di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica" (p. 1607).
Hegel ribadisce che l'Antigone di Sofocle rappresenta al meglio tale collisione: "Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi aggiunge: " Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide , nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato" (p. 1608).
L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri) piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono" (p. 1618).
L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia" (p. 1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc. ” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni... che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[150].
Potremmo aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate... Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[151].
Sul saggio di Pirandello torneremo più avanti.
Intanto sentiamo Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc.
Il popolo è comico, spiritoso... L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[152].
Introduzione alla tragedia. Parte decima
Schopenhauer, Freud, Steiner
Vediamo ora una critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer (1788 - 1860), il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti-idealista e anti-storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio (…) A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più (...) Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci (...) Ciò che dà al tragico, in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[153].
Tale rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)[154]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [155]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[156] .
“Edipo, dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di età classica)”[157].
Meglio dunque, secondo Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi: "Shakespeare è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale (...) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[158]" .
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”[159].
Più avanti, negli stessi Supplementi, Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [160], “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. (Stob. Flor. , II, 299). Alle persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[161].
Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja: “Una è identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda”[162]. Non senza grande dolore. In alcuni individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[163]; così Amleto... così ancorala
Pulcella d’Orléans[164],
la Fidanzata di Messina[165]:
tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere
è già morta... Il vero senso della tragedia è la cognizione... che l'eroe non
sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa
stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
del hombre es haber nacido [166],
come apertamente afferma Calderón...Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.
Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[167], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.
Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina.
La sventura può essere cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti... Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai caratteri degli uomini ; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi... Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[168]. Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed Ofelia; anche il Wallenstein[169] ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein”[170].
Diversi anni dopo le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[171].
Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi: "Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[172].
Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[173] - kai; qhriwvdou") innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201 - 205).
Nelle Supplici Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Teseo è lo stratego ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un comandante come Teseo che misei` uJbristh; n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul gradino più alto[174] e distrugge il vantaggio conseguito prima. E’ un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio in Beozia (424).
Concludo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud presenta un catalogo di eroi: “ I nomi più noti della serie che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[175] ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri... Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l’acqua è il liquido amniotico... Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta... Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale[176]”.
Nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica[177], Freud richiama alcune affermazioni di Totem e tabù (1912 - 1913): “La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congiuntura di Atkinson[178]. Essa dice che in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde... Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi”[179]. Gli espulsi formarono altre orde. I più piccoli restarono nella prima orda, protetti dalla madre prima, poi cercando di succedere al padre. Successivamente quelli scacciati unirono le loro forze “per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo”[180]. Al parricidio seguirono le lotte per l’eredità paterna, poi “persuasisi dei pericoli e dell’infruttuosità di queste lotte” i fratelli addivennero “a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia”.
Buona parte del potere assoluto tolto al padre passò alle donne, e “venne il tempo del matriarcato... In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto... Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza)”. In sintesi il totem in un primo tempo era venerato poi “veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme... Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli che avevano stretto un’alleanza tra loro”[181]. A questo punto interviene la religione: “Al posto degli animali subentrarono dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio... Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali”. Ma torniamo alla religione: “E’ verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un solo dio - padre, unico e illimitato signore”[182].
Freud pensa che il monoteismo fu introdotto tra gli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C. ”[183] e adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”[184] solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dal culto, dalla propria persona e da tutte le iscrizioni.
“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta... Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[185]. Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi: entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”[186]. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto”. Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia” [187]. Arriviamo infine alla religione cristiana e torniamo alla tragedia greca. “Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico”[188]. Con il monoteismo si ebbe “ la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici”, quindi “ anche altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento...Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico - religioso, fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua prima fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato... In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come un messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stata compiuta l’uccisione del padre... Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre”
Può essere, continua Freud, che il caporione primigenio non ci sia effettivamente stato; in ogni caso ciascuno della banda dei fratelli avrebbe voluto commettere il misfatto. “Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprenda a vivere con la rappresentazione della storia della Passione”[189].
Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate appena... Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta”[190].
Sentiamo G. Steiner: “ Nel politeismo, dice Nietzsche, consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità... è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”). In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria... Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio... L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici... Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio - ma chi aveva scelto chi? - era troppo visibile su di loro...
Insomma l’antico e il nuovo Testamento propongono e ordinano ideali impraticabili
Anche il marxismo ha riproposto ideali troppo difficili da praticare.
“Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura... Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quelle che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale... l’ideale continuava a bussare a insistere con forza terribile e molesta. Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi... Noi odiamo in sommo grado coloro che ci propongono un modello, un ideale, una promessa visionaria che non siamo in grado, pur tendendo i muscoli all’estremo, di raggiungere... Nella sua esasperante “estraneità”, nella sua accettazione della sofferenza come condizione di un patto con l’assoluto, l’ebreo divenne, per così dire, la “cattiva coscienza” della storia occidentale... Scagliandosi contro gli ebrei, il cristianesimo e la civiltà europea si scagliarono contro l’incarnazione - sia pur spesso indocile e inconsapevole - delle proprie speranze più alte... Nell’Olocausto vi fu sia un folle castigo, uno sferrar colpi alla cieca contro le intollerabili pressioni della visione idealistica, sia una larga componente di automutilazione. La società europea moderna, laica, materialista, bellicosa, cercava di estirpare, da sé stessa e dal proprio bagaglio ereditario, germi d’ideale arcaici, ormai ridicolmente obsoleti e tuttavia in certo qual modo inestinguibili. L’accezione nazista di “parassiti” e “disinfestazione” rivela brutalmente la natura infetta della moralità. Uccidiamo l’esattore, uccidiamo colui che ci ricorda la somma dovuta, e l’annoso debito sarà estinto. Il genocidio che si consumò in Europa e in Unione Sovietica negli anni 1936 - 45 (l’antisemitismo sovietico fu forse la manifestazione più paradossale dell’odio che la realtà nutre contro l’utopia naufragata)... fu l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale; fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto. Usando metafore teologiche... è possibile dire che l’olocausto ha rappresentato un secondo peccato originale... Con il tentativo maldestro di uccidere Dio e il tentativo quasi perfettamente riuscito di uccidere quelli che l’avevano “inventato”, la civiltà entrò, esattamente come Nietzsche aveva predetto, nella “notte sempre più notte””
”[191]
Ma torniamo a Freud
L’orda primordiale ha lasciato diverse tracce nel genere umano, anzi sopravvive ancora nella massa che è una “reviviscenza dell’orda primordiale”[192] mentre l’individuo capace di comandarla corrisponde al capo dell’orda: “I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell’orda primordiale era libero. Pur essendo egli isolato, i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Per conseguenza noi supponiamo che il suo Io fosse scarsamente legato libidicamente, che non amasse alcuno all’infuori di sé medesimo e che amasse gli altri solo se e in quanto servivano ai suoi bisogni... All’inizio della storia umana fu lui il superuomo che per Nietzsche possiamo aspettarci solo dal futuro. Gli individui appartenenti alla massa hanno bisogno tuttora dell’illusione di essere amati in uguale e giusta misura dal capo, mentre lui, il capo, non ha bisogno di amare alcuno, può avere la natura del padrone ed essere assolutamente narcisistico, eppure sicuro di sé e autosufficiente”[193]. Il capo primordiale, e pure quello recente, cattura emotivamente la massa: “non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa”[194]. Inoltre c’è il legame libidico trasferito: “il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all’astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita. Li immise per così dire con la forza nell psicologia collettiva. La sua gelosia sessuale e la sua intolleranza divennero in ultima analisi la causa della psicologia delle masse”[195].
Si leggano in Sofocle queste parole di Edipo che, entrato in scena nel prologo della tragedia, si informa sullo stato d’animo del suo popolo colpito dalla peste e dalla sterilità: “ su vecchio, racconta, poiché sei adatto/a parlare per questi: in quale modo siete disposti: /avendo concepito timore oppure amore? Poiché vorrei bastare/io ad aiutarvi in tutto: infatti sarei disumano/se non avessi compassione di tale seduta (Edipo re, vv. 9 - 13).
Il re di Tebe considera se stesso quale nodo, somma e sintesi di tutti i sentimenti di tutti i Tebani: “O figli degni di compassione, cose conosciute, e non sconosciute a me/siete venuti a domandare con desiderio; io infatti so che/state male tutti, e pur stando male, come me, /non c'è tra voi chi sta male in ugual misura. / Infatti il dolore vostro colpisce uno solo, /per sé, e nessun altro, ma la mia/mente compiange la città e me e te, tutto insieme” (Edipo re, vv. 58 - 64).
In 1984 di Orwell è descritta una situazione assimilabile alla repressione sessuale ipotizzata da Freud nell’orda primitiva. Nel romanzo c'è una ragazza, Jiulia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (. . .) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido (All this marching up and down and cheering and waving flags is simply sex gone sour). Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? (If you are happy inside yourself, why should you get excited about Big Brother and the Three –Year Plans and the Two Minutes Hate and all the rest of their bloody rot?)"[196].
Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p. 133). Il protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (…) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito? "[197].
Leggiamo qualche parola in inglese: “Their embrace had been a battle, the climax a victory. It was a brow struck against the Party. It was a political act” (p. 133), il loro amplesso era stata una battaglia, l’apice una vittoria. Era una raffica scagliata contro il Partito. Era un atto politico.
[1] Vissuto tra il 384 e il 322 a. C.
[2] 200ca - 118 ca a. C
[3] Gorgia di Leontini (490 ca - 385ca a. C.) aveva detto che la tragedia crea un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato: “ o{ te ajpathvsa" dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei; " sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto"" (in Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C.).
[4] Tucidide legiferò (" oJ d j ou\n Qoukidivdh"... ejnomoqevthse") afferma Luciano (Come si deve scrivere la storia, 42). La legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su; n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura piuttosto che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro; " to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[5] Olimpica I, 29.
[6]La Scienza Nuova , Pruove filologiche, III e
VIII.
[7]Il mestiere di vivere , 30 agosto 1938.
[8] In O. Wilde, Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222 - 224
[9] Zibaldone, pp. 3448 - 3449 e p. 3451.
[10] Zibaldone, pp. 3457 - 3460.
[11] “Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e il primo dei poeti tragici, ma sapere che si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed encomi per i buoni. Se invece accoglieraila Musa
drogata (th; n
hJdusmevnhn Mou'san),
in canti lirici ed epici, piacere e il dolore regneranno nella tua città al
posto della legge e del ragionamento che di volta in volta sembri essare il
migliore per la comunità”, Platone, Repubblica,
607a.
[12] Nietzsche, Frammenti postumi, ottobre - dicembre 1876, 19 (99)
[13] Euripides and his age, p. 243.
[14] Avezzù - Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[15] Zibaldone, 1848.
[16] Definito da Archiloco: "il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[17] Da kwvmh - h~.
[18] M. Cacciari, Hamletica, P. 14.
[19] Hamletica, p. 100.
[20] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88. Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.
[21] Lanza, Dimenticare i Greci, in I Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455, Einaudi, Torino, 2001.
[22] M. Di Marco, La tragedia greca, p. 26.
[23] Di Marco, Op. cit. , p. 41
[24] Di Marco, Op. cit. , p. 41
[25] Di Marco, Op. cit. , pp. 41 - 42.
[26] Di Marco, Op. cit. , p. 43
[27] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire (del 1849), p. 252.
[28] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023
[29] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[30] La poesia drammatica.
[31] Zibaldone, p. 4389.
[32] Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[33] T. S. Eliot, Il bosco sacro, p. 85.
[34] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 55.
[35] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[36] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.
[37] 350 a. C. ca.
[38] Etimologicamente è “il luogo da dove si guarda”.
[39] Di Marco, Op. cit. , pp. 57 - 58
[40] Il Prometeo incatenato (molto probabilmente) di Eschilo: ne parleremo estesamente più avanti . Ndr.
[41] Autore della cosiddetta “commedia di mezzo” che presentava spesso parodie mitologiche, utilizzando spesso episodi di tragedia di Euripide, come testimoniano alcuni titoli di Antifane: Medea, Baccanti, Elena. Ndr.
[42] Di Marco, Op. cit. , p. 62.
[43] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera” (persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la diversità delle due forme)” . Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[44] Di Marco, Op. cit p. 85 e p. 88
[45] Cfr. U. Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, 17 marzo 1798.
[46] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, p. 133.
[47] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 51 e p. 251.
[48] C. Wolf, Medea, p. 181
[49] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[50] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco più avanti: "goccia invece del sonno davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" (kai; par j a[ - konta" h\lqe swfronei'n , Agamennone, vv. 179 - 181).
[51] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[52] Il mestiere di vivere, 2 novembre 1938.
[53] B. Snell, Poesia e società, pp. 156 - 157.
[54]Tragw/diva , p. 209.
[55] Del Grande, op. cit. p. 214.
[56] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[57]B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , p. 141.
[58] Del 1875
[59] E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.
[60] A. La Penna, Prima lezione di letteratura latina, p. 150.
[61] Sul sublime ndr.
[62] Schiller Tutto il teatro 3, Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[63] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 123.
[64]M. Proust, Il tempo ritrovato , pp 238, 239 e 242.
[65] M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[66] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde Opere, p. 653.
[67] La vita.
[68] " Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 1937). Ndr.
[69] Il fuoco (del 1900) p. 95.
[70] G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
[71] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 1937.
[72] Il mestiere di vivere, 27 ottobre 1938.
[73] Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1939.
[74]H. Hesse, Peter Camezind (del 1904), p. 117.
[75] P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. X ss.
[76] Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”... Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante tra l’anagnorisis e la cecità (o la morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis e il ragionamento, di cui ho scritto Il genio di migliorare un’invenzione, cit.
[77] Per l’importanza del pathei mathos nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie, cit. , pp. 254 - 255. I loci più importanti della tradizione soo Omero, Iliade, XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni, 218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo re, 402; Sofocle, Antigone, 1190; Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung, in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5, 1956.
[78] Eschilo, Agamennone, 160 - 180 (e si vedano anche i vv. 250 - 252). L’edizione usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[79] Piero Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. 109 - 110.
[80] Prefazione.
[81]Odissea , VIII, vv. 75 e sgg. Leopardi nota la poeticità di questa situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de' Greci da Troia, dicendo com'ella incessantemente l'affanna per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta? " Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica , p. 71.
[82] Cfr. Odissea, XIX, 386 e sgg.
[83] Il versante tragico di quella che sarà la chioma di Berenice.
[84] Composta in una anno tra il 416 e il 413.
[85] Cfr. il riconoscimento di Odisseo da parte di Euriclea il XIX canto dell’Odissea.
[86] J, Starobinski, Tre furori, p. 84. l’autore sta commentando l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa i cui abitanti non riconoscono Cristo (Marco, v, 1 - 20).
[87]S. Kierkegaard, Enten - Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 24.
[88] S. Kierkegaard, Enten - Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 30.
[89] A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[90] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione (del 1820).
[91] Opera e luogo citati sopra.
[92] Di Marco, Op. cit. , p. 137.
[93] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.
[94] Del 408 a. C.
[95] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[96] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma. Tale giudizio contro la guerra si trova anche
alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu; ~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
[97] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes (qhteuevmen, Od. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere! ... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.
[98] Di Marco, Op. cit. , p. 139.
[99] L'uomo senza qualità, I, 18, Moosbrugger.
[100] La nascita della tragedia , capitolo 5.
[101] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.
[102] Op. cit, p. 176.
[103] M Di Marco, Op. cit. , p. 90.
[104] Remedia amoris, 375 - 376.
[105]Estetica, p. 1429.
[106] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[107] Corso di letteratura drammatica - del 1809 - lezione III.
[108] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione.
[109] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[110] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[111]La nascita della tragedia , capitolo 7.
[112] G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[113] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[114] T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139.
[115] Con Euripide "Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina ... ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della tragedia , capitolo 17)
[116] "The time is out of joint" (Amleto, I, 5). , il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai cardini. Il retrocedere del sole suggerisce queste parole al quarto coro atterrito: "Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos everso/cardine mundus; /in nos aetas ultima venit. /O nos dura sorte creatos, /seu perdidimus solem miseri, /sive expulimus! " (vv. 876 - 882), noi tra tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato (ndr).
[117] La nascita della tragedia, capitolo 7
[118] La nascita della tragedia, capitolo 7
[119]La nascita della tragedia , capitolo 14.
[120]Cfr. Poetica 1456a già citato.
[121]La nascita della tragedia , capitolo 14.
[122]Euripide e i suoi tempi , Laterza, 1932. Euripides and his age (1913)
[123] Giovanni Macchia, L’angelo della notte, p. 166.
[124] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 73.
[125] Bettini utilizza questo passo di Aristotele per indicare un nesso tra enigma e incesto: "Aristotele, definendo la aijnivgmato" ijdeva, dice che il procedimento dell'enigma consiste nel "parlare di cose vere legando fra loro adynata ", cioè cose che non possono (almeno in apparenza) esser legate fra loro. L'incesto, naturalmente, verifica per l'appunto questo principio. Come si può essere contemporaneamente "padre" e "fratello" dei propri figli? " (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 145).
Nell'Oedipus di Seneca si trovano intrecci dove si mescolano e confondono entità diverse, e tali che dovrebbero rimanere divise: "Effetto della malattia è appunto quello di confondere, di identificare quello che altrimenti dovrebbe restare diviso. Non c'è più distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono contemporaneamente ai vecchi, i figli contemporaneamente ai padri. Nella descrizione della peste, Seneca sembra dunque applicare lo stesso principio codificato altrove da Aristotele per l'enigma: sunavyai ajduvnata. Come l'incesto ovviamente, come l'arcobaleno" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 148).
[126] Forse è l’Arifrade ponerov~ che viene a sua volta sbeffeggiato da Aristofane nei Cavalieri (vv. 1281 sgg. e nelle Vespe (1280 sgg,) per come ha appreso a lavorare di lingua, inquinandosela nelle voluttà nefande dei bordelli.
[127] Intelligenza in greco si dice suvnesi" una parola che tradotta radicalmente significa capacità di mettere insieme cose distanti, di vederne le somiglianze, e se è vero, come afferma il Menone di Platone, che "la natura è tutta imparentata con se stessa, " th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh"" (81d), coglierne ed evidenziarne i legami di parentela è compito del genio, del poeta. La stessa cosa afferma Dostoevskij in I fratelli Karamazov : "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certomigliore " (p. 402).
Facciamo l’esempio di una bella metafora, tratto da Eschilo, l'autore che ce ne fornisce la scelta più ampia siccome conserva la rigida grandiosità del rituale e l'enfasi ieratica del linguaggio liturgico: "dia; dev toi genu'n iJppivwn - kinuvrontai fovnon calinoiv", attraverso le mascelle dei cavalli, le briglie arpeggiano strage (I sette a Tebe , vv. 122 - 123).
[128] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[129] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[130] A. Lesky, La poesia tragica dei Greci, p. 125.
[131] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia, p. 117).
[132] Di Marco, Op. cit. , p. 259.
[133] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile 1797 ebbero uno scambio di lettere... sul "ritardare" in genere nei poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento omerico a legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici" (E. Auerbach, Mimesis , p. 5).
[134] Estetica, p. 1533 - 1534.
[135] Del 472 a. C.
[136] Del 428 a. C.
[137] Tanto che Schopenhauer scriveva: "il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua esposizione... fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli.", Parerga e Paralipomena , I, p. 206.
Si può per lo meno notare una contraddizione nell’Estetica di Hegel tra la “fase suprema” costituita dal dramma e l’”immagine totale” data dall’epica. Nota p. 19
[138] Hamletica, p. 83.
[139] “Il culto per Sofocle, retaggio dell’umanesimo classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i filosofi così come fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul ciclo di Edipo come massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi maestri e amici di Droysen , né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano immuni dalla venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò doveva destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di Eschilo, s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli condivideva il giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità dei due tragici più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto di vista storico e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane, a cura di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione.
[140]Hegel, Estetica , pp. 1612 - 1613
[141] Hegel, Estetica , p. 1555.
[142] Di Marco, Op. cit. , p. 217.
[143] Di Marco, Op. cit. , p. 218.
[144] Del 424 a. C.
[145] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo rimaneggiato successivamente dall’autore.
[146] Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si mascheravano... ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102).
Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo... Le maschere erano fatte di lino - talvolta anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione “realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit. , p. 95).
[147] M. Cacciari, Hamletica, p. 102.
[148] Del 458 a. C
[149] Del 409 a. C.
[150] Hegel, Estetica, p. 1618.
[151] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[152] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1443.
[153] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 112.
[154] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d j oujdei; " povqo" " (Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. Ndr.
[155] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.
[156] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113. .
[157] G. Guidorizzi, Op. cit. , p. XIV.
[158] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[159] Di Marco, Op. cit. , p. 129.
[160] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone: “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[161] Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[162] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.
[163] Di Goethe ovviamente ndr.
[164] Di F. Schiller, 1801 ndr.
[165] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[166] poiché il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno , I, 2.
[167] Personaggio di I masnadieri (1781) di Schiller.
[168]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.
[169] Trilogia di F. Schiller.
[170] . Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344
[171] Tentativo di autocritica (aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.
[172] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888 - 14, p. 229.
[173] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[174] Come Capanno, poi colpito dal fulmine di Zeus.
[175] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento “Nel 1909 Otto Rank - allora subiva la mia influenza - pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo Il mito della nscita dell’eroe. ”
[176] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, primo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, pp. 340 - 342. .
[177] E’ l’ultimo scritto di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi del resto incompiuto. Uscirono entrambi nel 1938. nota p. 26
[178] C. Darwin, The Descent of the Man (Londra 1871) vol. 2, pp. 362 sg. ; J. J. Atkinson, Primal Law, nel volume a cura di A. Lang, “Social Origins” (Londra 1903) pp. 220 sg.
[179] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, terzo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, p. 403.
[180] S. Freud, Op. cit. , p. 404.
[181] S. Freud, Op. cit. , p. 405.
[182] S. Freud, Op. cit. , p. 405.
[183] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 349
[184] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 350.
[185] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 353.
[186] Più avanti (Terzo saggio, p. 439) Freud ne dà un’interpretazione: “La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso”.
[187] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 355.
[188] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 408.
[189] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 409.
[190] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 410.
[191] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 39 sgg.
[192] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (del 1921) in Freud Opere, 1917 - 1923, p. 311.
[193] S. Freud, Opera e pagina citate sopra.
[194] S. Freud, , Op. cit. , p. 269.
[195] S. Freud, , Op. cit. , , p. 312.
[196]G. Orwell, 1984 , p. 142. Edizione inglese p. 139.
[197]G. Orwell, 1984, p. 134.
Sarà l’argomento della prossima conferenza che terrò nella biblioteca Ginzburg il 24 marzo 2025 dalle 17 alle 18,30.
Quando avrò il link lo metterò nei miei Post.
Chi vuole l’intera introduzione in formato PDF può chiederla alla biblioteca che la invierà gratis telefono 051-466307
Sommario
Per un’introduzione al dramma antico partiamo dalla Poetica di Aristotele. E’ un trattato di estetica che nella parte a noi giunta si occupa prevalentemente di poesia tragica. Fu scritta intorno al 335, durante la piena maturità del filosofo[1], e constava di due libri, dei quali ci è arrivato il primo. Il secondo riguardava principalmente la commedia.
Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale, la storia il particolare.
“ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi... Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
Anche Polibio[2], ma da storico, distingue la tragedia dalla storia. Questa non deve tragw/dei'n, rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga; r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie, II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro; n tou; " ajkouvonta"", II, 56, 11), mentre la storia deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veritieri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to; n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou; " filomaqou'nta""). Questo poiché nella tragedia prevale ciò che è persuasivo (hJgei'tai to; piqanovn), anche se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th; n ajpavthn[3] tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia ha la precedenza il vero, per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe; " dia; th; n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[4] presenti in Polibio.
Tucidide
Lo storiografo della guerra del Peloponneso infatti aveva scritto: “ la mancanza del favoloso di questi fatti (to; mh; mqw'de~ aujtw'n), verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente che li giudichino utili (wjfevlima krivnein aujta; ajrkouvntw~ e[xei) quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la natura umana” (Tucidide, Storie, I, 22, 4).
Introduzione alla tragedia greca. Seconda parte
La storia nasce dalla poesia
La storia è comunque intarsiata di miti, non senza le iridescenti bugie di cui scrive Pindaro[5], tant’è vero che è preceduta e anzi, in un certo senso, “nasce” dalla poesia epica e i fatti storici, come hanno rilevato studiosi di levatura ed estimazione europea, sono stati cantati, o raccontati, prima dai poeti che dagli storiografi di professione.
Giambattista Vico afferma che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra l'epica ed Ecateo,: "prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[6].
In effetti le guerre puniche vennero narrate prima da Nevio e da Ennio che da Tito Livio.
Un giudizio apprezzato anche da Pavese: "Ciò che si trova di grande in Vico - oltre il noto - è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente" vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura"[7]. Storia e poesia insomma sono intrecciate insieme,
Wilde sulla mimèsi.
Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contrario: "La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita...Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare...I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele...Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[8]
Con Aristotele dunque l'arte si risolleva dalla condanna inflittale da Platone: essa non è la copia di una copia che ci allontana di un grado dalla realtà delle idee; anzi ci fa vedere l'universale. Allora non è vero che i poeti riproducano solo la parte esterna e superficiale delle cose, né che suscitino emozioni contrarie all'uso corretto della ragione. Infatti l'altro concetto fondamentale della Poetica è quello di catarsi: "La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/)... di attori che agiscono e non attraverso un racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni" (di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th; n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).
Caatarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
Non molto diversamente l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have heard - that guilty creatures, sitting at a play, - have, by the very cunning of the scene, - been struck so to the soul that presently - they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.
Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” (Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.
Secondo Leopardi sono più educative le tragedie “di tristo fine” dove il crimine immane impunito che quelle di lieto fine quando il malvagio viene castigato poiché se il delitto resta impunito nel pubblico nasce maggiore odio verso il delinquente.
Sentiamo le parole del Recanatese: “Il fine dei drammi non è, e non dev’essere, d’insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura del codice penale che si facesse sulla scena. Il loro scopo si è d’ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono... Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual essa è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi benché felici e viceversa”[9].
Quindi Leopardi si dichiara contrario al lieto fine della tragedia, in quanto non è educativo: “Quanto all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata il poeta; l’uditore non ha a far più nulla, e nulla fa... Dunque l’uditore parte dal dramma senza né odio né ira né altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto... Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possono le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine. Perché promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perché il delitto fosse rimasto ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di tremila anni addietro, potuto ispirare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre o lasciare; per l’una e per l’altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco utili o dilettevoli... Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli immeritevoli, non viene da’ cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l’ Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue... [10] ”.
Ecco allora che la tragedia, ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[11], opera una depurazione dalle passioni e un rasserenamento.
“Aristotele ritiene che l’eccesso di compassione e di timore si scarichi mediante la tragedia, che lo spettatore torni a casa più freddo. Platone ritiene invece che lo spettatore diventi più emotivo e pauroso che mai”[12].
Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che nell'anima nostra rimane qualche cosa che sfugge a quel potere ed ha la capacità di nobilitare la vita umana. Allora il male svanisce, e, come stelle nella notte, brillano la bellezza, la giustizia e la generosità.
Sentiamolo con le parole di Bertrand Russel citato da Murray: “What was eager and grasping, what was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful and eternal shine out like stars in the night”[13], quanto c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è svanito. Le cose che erano belle ed eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere di trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.
Già Gorgia aveva indicato un nesso tra la poesia, la pietà e il terrore: nell’ Encomio di Elena il sofista dichiara di giudicare th; n poivhsin a{pasan , la poesia nel suo complesso, un discorso in versi, negli ascoltatori del quale si insinua kai; frivkh perivfobo~ kai; e[leo~ poluvdakru~ (9), un brivido pieno di terrore e una pietà grondante di lacrime.
Aristotele chiarisce meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio, non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me; n peri; to; n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to; n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[14].
Racine nella Prefazione alla sua Fedra (1677) scrive che il carattere della protagonista: “possiede tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.
Leopardi nota che “la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente né molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra... onde Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe... Da per tutto l’uomo cerca il suo simile, perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso...”[15].
L'arte dunque è mimèsi, e, all'interno di tale categoria, la tragedia, la sofoclea in particolare, si propone, come Omero, di imitare personaggi migliori di quelli reali; la commedia peggiori.
Nel prologo del film Melinda e Melinda di Woody Allen c’è una battuta azzeccata sulla differenza fra tragedia e commedia: “tragedy confronts, comedy escapes”, la tragedia istituisce confronti, la commedia è evasione. Dopo la fine (lieta) delle vicende di Melinda, il medesimo personaggio della cornice teorica, un commediagrafo, conclude: “we laugh because it masks our real terror about mortality”, noi ridiamo per mascherare il reale terrore della nostra mortalità.
Avvertenza: il blog contien 11 note e il greco non traslitterato.
Introduzione alla tragedia greca. Terza parte
Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo: "ajpo; tw'n ejxarcovntwn to; n diquvrambon”[16], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città" (Poetica , 1449a, 12).
L'origine del dramma sarebbe dunque da collegarsi al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
Per quanto riguarda la regione di origine del dramma e il popolo che l’ha inventato, Aristotele ci informa che i Dori rivendicano la tragedia e la commedia etimologizzandone i nomi: “poiouvmenoi ta; ojnovmata shmei`on “ (1447b), poiché considerano i nomi un segno. Essi infatti affermano di chiamare i sobborghi kwvma~[17], mentre gli Ateniesi li chiamano dhvmou~, e sostengono che i commedianti (kwmw/douj~) sono così chiamati oujk ajpo; tou` kwmavzein, non dal fare baldoria ajlla; th`/ kata; kwvma~ plavnh/, ma per il loro vagare per i sobborghi, in quanto disdegnati dal centro delle città. Inoltre affermano che per “fare” loro dicono dra`n, mentre gli Ateniesi pravttein. Ebbene dra`n è “il verbo tragico per eccellenza, l’agire che decide, risoluto fino alla fine, compimento felice o naufragio che sia”[18]. Ancora: il “fare” contiene la categoria della politica. Il dramma antico è dramma politico.
L’inessenza politica è una in essenzialità radicale.
Di nuovo Cacciari: “La ‘conversazione’ beckettiana, come certi dialoghi dell’Ulysses, non mette in scena una perdita, ma un’inessenzialità radicale: l’uomo non è ‘animale politico’. Allora, certamente, ogni drama diviene impossibile a priori, poiché è possibile fare soltanto per quell’esserci che è nella sua essenza inter - esse”[19].
Dioniso
I riti della fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale - dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce (...) Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore (...) In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci - e non solo per i greci - è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[20].
“Seppure possa sembrare affascinante, la ricerca delle origini... non è poi problema tanto rilevante (...) non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[21].
Le rappresentazioni ad Atene
Le rappresentazioni ad Atene avvenivano principalmente durante le Grandi Dionisie, le quali, istituite tra il 535 e il 533 da Pisistrato, si tenevano all'inizio della primavera, tra marzo e aprile, quando, per una settimana circa, si svolgevano processioni, cortei e riti in onore di Bacco, si cantavano a gara ditirambi da parte di cori maschili e femminili, si facevano banchetti e scatenate baldorie che incrementavano le nascite, e finalmente si assisteva agli agoni tragici e comici: per tre giorni, tre drammaturghi scelti dall’arconte eponimo tra i concorrenti presentavano tre tragedie nuove e un dramma satiresco, mentre il quarto giorno era quello delle cinque commedie, una per ciascuno degli autori ammessi.
“ Almeno nell’età di Eschilo, Sofocle ed Euripide, il dramma satiresco concludeva, a mo’ di appendice alle tragedie, la tetralogia che ciascun tragediografo portava in scena alle Grandi Dionisie.
Il dramma satiresco proponeva al pubblico un episodio del mito, ma riservando ad esso un trattamento in chiave burlesca. Si badi bene però: nulla che lo assimilasse alla commedia. Il dramma satiresco era piuttosto un “sottogenere” del più nobile genere tragico, come indicano i molteplici e sostanziali punti di contatto tra le due forme di spettacolo: medesimo autore, medesima occasione della performance, medesimi attori e medesimi coreuti, medesima morfologia strutturale (articolazione in prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo), introduzione sulla scena dei medesimi personaggi. Questi ultimi sono ovviamente gli eroi del mito; e tuttavia l’atmosfera in cui sono immersi, pur ricalcando il soggetto scenico le linee del racconto tradizionale, è assolutamente surreale: ché accanto ad essi imperversa regolarmente - come elemento imprescindibile del genere - un coro di satiri guidati dal loro padre - tutore, il vecchio Sileno. Esseri semiferini, cinti di una pelle di cuoio, con fallo eretto, coda e orecchie equine, maschera con barba e naso camuso... li vediamo all’opera come araldi, atleti, cuochi, nutrici di Dioniso, marinai, carpentieri, pastori ecc. Incapaci e vili, rozzi e brutali per un verso, ingenui e puerili per un altro, totalmente estranei alle istituzioni e alle convenzioni della polis e del consorzio civile, essi si trovano a cooperare (spesso contro un mostro o un “nemico” di cui sono schiavi e da cui dovranno essere liberati) con personaggi di forte tempra e di fiera dignità eroica, determinando con i loro facili entusiasmi e la loro imperizia, ostacoli, sorprese, situazioni di imprevista comicità. La magra messe di testi di cui disponiamo - appena un dramma completo, il Ciclope di Euripide, circa metà dei Cercatori di orme di Sofocle e poi frammenti più o meno estesi, tra cui si distinguono per ampiezza e vis inventiva soprattutto quelli eschilei - induce a credere che, a paragone delle tragedie, il dramma satiresco presentasse di norma un intreccio estremamente semplificato, il quale non aveva altra funzione se non quella di creare un pretesto al gioco lieve e scanzonato di Sileno e del coro: di qui anche un’estensione che, in media, doveva essere comparativamente molto più breve di quella di una tragedia. Come a compensare l’esilità della trama e lo scarso spessore psicologico dei protagonisti, un rilievo proporzionalmente assai maggiore era assegnato ad altri elementi di più facile presa spettacolare: ad esempio la danza, con frequenti sezioni liriche strofiche che dovevano assecondare l’esecuzione di movimenti orchestici particolarmente vivaci; o una gestualità fortemente connotata sotto il profilo mimico e dunque ben lontana dalla rigida compostezza cui era vincolata la scena tragica; o il ricorso al teratodes (il “meraviglioso”), con l’introduzione di creature mostruose, metamorfosi, camuffamenti animaleschi, apparizioni inattese”[22].
Una giuria di dieci membri estratti a sorte, uno per tribù, attribuiva i premi.
“Al termine delle rappresentazioni ogni giurato scriveva le proprie preferenze su una tavoletta; tra le dieci tavolette raccolte ne venivano sorteggiate cinque, ed era sulla base di queste cinque che veniva compilata la classifica finale. Ci si è chiesti se i giudici fossero davvero ligi al giuramento di imparzialità che erano obbligati a prestare. Il pubblico che sedeva a teatro partecipava agli spettacoli con grande vivacità, ed è naturale supporre che le rumorose reazioni di consenso o di riprovazione con cui accompagnava la rappresentazione delle opere incidessero sulle scelte dei giurati... Platone - ma siamo già nel IV secolo inoltrato - protesta energicamente contro i condizionamenti imposti dalle claques (Leg. 2, 659 a - b)” [23].
Leggiamone solo alcune parole: “A teatro il vero giudice non deve imparare a giudicare spaventato dallo strepito dei più e dalla propria ignoranza” (659a)
“Altrove, alludendo ancora ai fischi, agli applausi e alle urla scomposte del pubblico, il filosofo parla di “teatrocrazia” (Leg. 3, 700c)”[24].
“Ad episodi di corruzione accennano gli oratori del IV secolo, ma in generale non abbiamo motivo di dubitare dell’onestà dei giurati. Allo stesso modo occorre riconoscere alle giurie stesse (...) un’apprezzabile capacità di giudizio estetico. Lo prova il fatto che sia Eschilo che Sofocle vinsero in più della metà degli agoni cui parteciparono; per Euripide il discorso è più complesso: lo scarso numero di vittorie riportate da un lato riflette una reale difficoltà del pubblico ateniese ad accettare le novità ideologiche, se non anche drammaturgiche, del suo teatro, e dall’altro si spiega con la circostanza tutt’altro che irrilevante che sin dagli inizi della sua carriera e fino alla morte egli si trovò a rivaleggiare con un concorrente della statura di Sofocle. Non manca peraltro qualche caso in cui il verdetto dei giudici ci appare opinabile se non addirittura scandaloso: nelle Dionisie in cui fu presentato l’Edipo re, Sofocle giunse solo secondo, essendogli stato preferito un autore di non eccelsa levatura quale Filocle. Eppure l’Edipo re - non solo a giudizio della critica moderna, ma già nella valutazione di un autorevole e indiscusso conoscitore della tragedia greca come Aristotele - è un capolavoro di rilievo assoluto. Restano oscure le ragioni della scelta dei giurati. Si può solo supporre - e ciò richiama la nostra attenzione sull’ottica parziale con cui guardiamo al teatro antico - che essi abbiano tenuto conto non solo dell’intreccio, ma anche della musica, della danza, della recitazione, dei costumi, degli effetti visivi, e che il loro voto abbia riguardato, come del resto era prassi negli agoni, non le singole tragedie, ma le tetralogie nel loro insieme”[25].
Erano meno importanti i festival invernali: quello delle Lenee (gennaio - febbraio), dedicato soprattutto alla commedia, e quello delle Dionisie rurali (dicembre - gennaio), ma gli appassionati non se li lasciavano sfuggire, e, come se avessero dato a nolo le orecchie (w{sper de; ajpomemisqwkovte~ ta; w\ta), li denigra Platone, “corrono in giro ad ascoltare tutti i cori senza mancare alle Dionisie, né a quelle urbane, né alle rurali" (Repubblica , 475d).
Platone nella stessa Repubblica biasima Omero ed Eschilo poiché attribuiscono menzogne agli dèi mentre il divino è pavnth/ ajyeudev~ (382e), assolutamente incapace di mentire. Viene ricordato il sogno ingannevole inviato da Zeus ad Agamennone nel secondo canto dell’Iliade e un frammento di Eschilo dove Teti biasima l’inganno di Apollo che aveva predetto felicità alle sue nozze poi le aveva ucciso il figliolo. Dunque sentendo cose simili sugli dèi: “calepanou`mevn te kai; coro; n ouj dwvsomen” (383c), noi ci sdegneremo e non concederemo un coro.
“ Le Lenee, cioè la festa di Dioniso Leneo (da lh`nai = “menadi” piuttosto che da lhnov~= “torchio”, come si riteneva un tempo, allorché si collegava la festa ai riti della vendemmia) si celebravano nel mese di Gamelione (gennaio - febbraio) e, dato il periodo poco propizio alla navigazione, avevano una dimensione prettamente locale: vi partecipavano soltanto, o quasi, gli abitanti dell’Attica. “L’agone è quello lenaico, e siamo tra noi” fa dire Aristofane a Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, rappresentati appunto alle Lenee, per giustificare le critiche che intende muovere al demagogo Cleone (vv. 504 ss.): assenti gli stranieri e gli alleati, il poeta comico si sente legittimato a lavare i panni sporchi in famiglia... gli agoni lenaici prevedevano all’inizio esclusivamente competizioni tra poeti comici. Le tragedie vi furono introdotte solo alcuni anni più tardi, e in scala ridotta rispetto a quanto avveniva alle Dionisie: al concorso erano ammessi solo due tragediografi , ciascuno con due tragedie, senza dramma satiresco. I grandi tragici del V secolo vi fecero rappresentare di rado i loro drammi... Le Dionisie rurali erano invece feste organizzate dai demi a dicembre, nel mese di Poseidone, ma non dappertutto nella medesima data: gli appassionati di teatro ne approfittavano , come ci riferisce Patone (Resp. 5, 475d), per assistere in più demi a spettacoli diversi. La celebrazione del culto di Dioniso qui aveva il suo momento più importante nella falloforia, una processione con la quale si chiedeva al dio la fertilità dei campi”[26].
Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner: “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune... La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte”[27].
Quindi Thomas Mann: “io credo che l’aspirazione segreta, l’estrema ambizione di ogni teatro sia il rito, da cui esso è del resto derivato presso pagani e cristiani. Arte teatrale è già per se stessa arte barocca, cattolicesimo, Chiesa: e un artista che, come Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[28].
Aggiungo Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo... bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[29].
Leopardi svaluta il dramma.
Opposta è l’opinione di G. Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua... Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a sé e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote" (Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa[30] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta... Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica, spesso è perfino soggettiva perciò impoetica.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr. fiorì principalm. In Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[31].
Sulla poesia lirica in una pagina precedente si legge: “Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone, 1856).
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[32].
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari... Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto... questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri... Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica” (V. Ehrenberg), Sofocle e Pericle, p. 19.
Qualche cosa di simile scrive T. S. Eliot a proposito del teatro elisabettiano: “La struttura fornita ai drammaturghi elisabettiani non fu semplicemente il blank verse e il dramma in cinque atti e il palcoscenico elisabettiano; non fu semplicemente la trama, poiché i poeti incorporarono, rimodellarono, adattarono o inventarono, come le circostanze suggerivano. Fu anche l’u{lh per metà già formata, il “tono dell’epoca” (espressione insoddisfacente), una preparazione, un’abitudine da parte del pubblico a reagire a certi particolari stimoli”[33].
Del resto nello stesso Zibaldone, più avanti, Leopardi entra in contraddizione con quanto scritto a p. 1856.
“le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione (2362) contraria. Che vuol dir ciò? Non è dunque la sola verità dell’imitazione , né la sola bellezza e dei soggetti e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente”.
Sentiamo anche Ortega y Gasset: “Ed è interessante ricordare... che la pagliacciata, combinata a un rito religioso... è in tutti i popoli all’origine del teatro”[34].
Introduzione alla tragedia. Parte quarta
All'inizio nel dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[35], poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to; n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15 - 18).
Infatti il dramma greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[36].
Il metodo odierno tende piuttosto alla orwelliana distruzione delle parole: “it’s a beautiful thing the destruction of words” (1984, I, 5) , una cosa bella e utile per ogni regime tirannico
Ad Atene i drammi venivano rappresentati nel teatro di Dioniso situato sulle pendici dell'acropoli.
In origine era di legno, poi subì diversi sviluppi e cambiamenti, fino all'epoca dell'impero romano, quando vi si svolgevano combattimenti di gladiatori e forse anche naumachie. Meglio conservato e di struttura più unitaria è quello di Epidauro, creazione[37] di un singolo architetto: Policleto il giovane.
In ogni modo il teatro[38] era senza tetto e constava di tre parti: la prima era la càvea (koi'lon), la gradinata dove sedeva il pubblico; la seconda l'orchestra circolare, il luogo centrale sul quale danzava il coro, dove sorgeva l'altare di Dioniso e si trovava una piattaforma (logei'on), forse leggermente elevata: questa era il palcoscenico sul quale recitavano gli attori e stava nella parte dell'orchestra più lontana dagli spettatori; infine, di seguito, si trovava la scena, in origine una tenda (skhnhv) che consentiva ai personaggi di cambiarsi il costume senza essere visti dal pubblico, poi divenne l'edificio di sfondo, un palazzo reale, un tempio, con una o più entrate, e due ali sporgenti (paraskhvnia), oppure una caverna. L'attore, abbiamo detto, recitava davanti alla scena, ma in certi casi appariva sul suo culmine o, impersonando un dio, su un un tetto mobile (qeologei'on), o anche sospeso in aria da una specie di gru (mhcanhv), e in tal caso era il deus ex machina.
“Dove agivano gli attori? Era riservato loro uno spazio distinto da quello del coro? Una testimonianza di Vitruvio (V 7, 2) riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione di questa struttura, con una conseguente rigida spartizione degli spazi, è un prodotto dell’età ellenistica: essa interessò certamente anche il teatro di Dioniso, ma non prima del III sec. a. C.
Le tragedie che noi leggiamo ci documentano invece, in più di un caso, una stretta interazione tra coro e attori: le Supplici di Eschilo ci mostrano l’araldo egizio che aggredisce le Danaidi e tenta di trascinarle via con la forza da Argo; e nell’Edipo a Colono il coro cerca di contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le stesse commedie di Aristofane, del resto, e ancor più il dramma satiresco - che, non dimentichiamolo, venivano rappresentati nello stesso teatro di Dioniso - presuppongono la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che nel teatro del V sec. a. C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e logheion, o almeno non poteva esservi un proscenio così alto come quello di cui parla Vitruvio... L’ipotesi che riscuote maggiori consensi è che nel V secolo un logheion rialzato esistesse realmente, ma che la sua altezza fosse tale da consentire facilmente, qualora la dinamica scenica lo prevedesse, un avvicinamento e quasi un contatto tra coreuti e attori”[39].
“Tra le convenzioni del teatro greci rientra anche l’uso di macchine... Il più celebre di questi strumenti è senza dubbio la macchina del volo (mhcanhv o anche gevrano~= “gru”): un congegno fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra , dotato di un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui estremità doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare l’attore destinato ad essere sollevato in alto... della mhcanhv si fa uso nel Prometeo[40] , ove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato... Della mechané Euripide si avvalse spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra il fatto che l’espressione qeo; ~ ajpo; th`~ mhcanh`~ (=deus ex machina) divenne proverbiale: la prima attestazione è in Platone (Crat. 425d; Clitoph. 407a), e con ironia il comico Antifane[41] osserva che ai poeti tragici, quando essi non sanno più come sviluppare l’azione, basta alzare la gru così come si alza un dito, ed ecco che ogni loro problema è risolto (fr. 189 K. - A)”[42].
Un'altra macchina, utile a mostrare simbolicamente scene d'interno o a trasportare personaggi era l' ejkkuvklhma , un carrello basso su ruote, spinto fuori attraverso l'apertura centrale della skhnhv .
Questa , tornando ad Aristotele, fu resa più ricca e varia da Sofocle che introdusse la scenografia e il terzo attore (Poetica , 1449a, 19).
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[43]) e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.
“Il medesimo attore interpretava nelle Baccanti i personaggi di Penteo e di Agave, con un sinistro effetto di ironia tragica, se si pensa al finale del dramma e alla possibilità che nella voce della madre che celebra il suo folle trionfo gli spettatori riconoscessero, al di là delle variazioni messe in atto dall’interprete, la medesima voce del figlio da lei dilaniato (...) nelle Baccanti un attore impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora Cadmo, il servo e il primo Messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del ruolo del secondo Messaggero ”[44].
Torniamo alla Poetica di Aristotele
Per quanto riguarda la grandezza (to; mevgeqo~), da racconti brevi e un linguaggio scherzoso, per il fatto che subì una trasformazione dal satiresco, la tragedia assunse tardi una forma solenne, e il metro da tetrametro divenne giambico (1449a, 21). All’inizio si usava il tetrametro per il fatto che la poesia era satiresca e piuttosto adatta alla danza, poi, sviluppatosi il dialogo, la stessa natura del parlato trovò il metro appropriato: mavlista ga; r lektiko; n tw'n mevtrwn to; ijambei'on ejstin (1449a, 25), infatti il giambo è il verso più adatto al parlato; un segno di questo è che noi nella conversazione diciamo moltissimi giambi, mentre gli esametri li usiamo raramente e solo quando usciamo dal tono della conversazione (1449a, 31).
La tragedia consta di sei parti qualitative (mevrh ei\nai e{x, kaq j o{ poiav ti~ ejsti; n hJ tragw/diva, 1450a, 10): racconto (mu'qo~), caratteri, linguaggio, pensiero, spettacolo visivo, musica.
Introduzione alla tragedia. Parte quinta
Il dramma dunque è un'opera complessa. Wagner , nello scritto L'arte e la rivoluzione (1849), la definisce "arte complessiva dove l'elemento maschile e intellettuale, la parola, feconda quello femminile, la musica che ha la risonanza dei tempi primordiali". La tragedia greca era una forma d’arte connessa a una “religione inviscerata nelle leggi e ne’ costumi d’un popolo”[45]”, quello ateniese. Cito ancora Wagner: “L’opera d’arte è la rappresentazione vivente della religione; ma la religione non l’inventa l’artista: essa deve le sue origini al popolo”[46].
La tragedia complessa presenta peripezia e riconoscimento. Infine c’è la catastrofe.
Aristotele delle sei parti considera importantissimo il racconto, ossia l'intreccio dei fatti che è quasi l'anima della tragedia. I racconti possono essere semplici (aJploi', 1452a, 10) o complessi (peplegmevnoi). E’ semplice l’azione dove il cambiamento (hJ metavbasi~, 1452 a, 16) accade senza peripezia o riconoscimento , complessa quella dove il cambiamento avviene meta; ajnagnwrismou' h] peripeteiva~ h] ajmfoi'n (Poetica, 1452a, 17), con riconoscimento o peripezia, o entrambi. Vediamo di che si tratta.
"Peripezia (peripevteia) è il cambiamento repentino di ciò che accade nel suo opposto, cosa che deve avvenire in maniera verosimile e necessaria" (1452a, 11).
Viene fatto l'esempio dell'Edipo re di Sofocle, quando giunge un messo da Corinto per tranquillizzare il protagonista (vv. 924 e sgg.) e invece dà l'avvio alla parte dell'indagine che porta al pavqo~, l’evento doloroso e catastrofico, che, dopo la peripezia e il riconoscimento, è la terza parte del racconto (trivton de; pavqo~, 1452b, 10), pravxi~ fqartikh; h] ojdunhrav (Poetica, 1452b, 11), un’azione rovinosa o dolorosa.
Questo capovolgimento che inganna le attese ottimistiche è tipica dei drammi di Sofocle: "In quattro tragedie, e cioè Antigone, Aiace, Edipo re, Trachinie, poco prima della catastrofe, il Coro, convinto o illuso che le cose stiano cambiando in meglio, si abbandona a una danza allegra, l'iporchema. Teatralmente è una trovata geniale. Il pubblico che è, per così dire, preveggente in quanto conosce la trama della vicenda, soffre per la cecità del Coro, per la sua incapacità di prepararsi al peggio (...) La tragedia di Sofocle è il resoconto di un assedio a cui il protagonista è sottoposto, per lo più in modo terribile, e che si conclude con l'espugnazione del suo mondo. Si può individuare una linea che ora ascende e ora discende, c'è un momento in cui l'eroe sembra spuntarla sul male e sui nemici. Almeno così ritiene il Coro in quattro tragedie su sette. Il suo comportamento sottolinea l'inadeguatezza della ragione umana nel cogliere i movimenti profondi del divenire"[47]. “Forse è un decreto della provvidenza che ci colga l’euforia quando stiamo davanti all’abisso”[48].
Tw/' pavqei mavqo"
Vero è pure che il pavqo~ può essere valorizzato e redento dal mavqo~, secondo quanto afferma il coro di vecchi argivi nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw/' pavqei mavqo" (v. 177) , attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[49]. Una sentenza topica che ha avuto un lungo seguito nella letteratura europea: da Euripide, a Menandro, a Proust, a Hermann Hesse per fare solo alcuni nomi.
Vediamone alcune espressioni
Un tovpo" etico e psicologico diffuso è quello del tw/' pavqei mavqo" [50], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[51]. Voglio darne un ampio quadro.
La sofferenza che conduce alla comprensione.
Esiodo. Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij. H. Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora Hesse. Piero Boitani
Tale legge si trova in diverse espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine, supera la prepotenza e soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni, vv. 217 - 218).
Viceversa Pavese: “Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente”[52].
Nell'opera di Sofocle questa concatenazione di delitto - castigo - riconoscimento degli errori, è messa in piena evidenza alla fine dell'Antigone, quando Creonte riceve la notizia del terzo suicidio provocato da lui e dichiara la propria colpa che lo ha annichilito: "a[getev m j ejkpodwvn, - to; n oujk o[nta ma'llon h] mhdevna", portatemi via, io non sono più di un nessuno (vv. 1324 - 1325). Nel poeta di Colono questo comprendere tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine in seguito a resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti di Euripide.
Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v. 940). In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie Panfile per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione: " ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko; " ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso.
Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (...) i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc (...) Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi (...) E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[53].
E', secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[54]. Su questo episodio torneremo trattando l’intolleranza e la tolleranza (21. 1).
Sulla medesima linea si trova il Duvskolo": il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere: " e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn - aujto; " aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv. 713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più comprensivi: "non si può dire che mavqo" non ci sia stato...Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[55].
Del resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia il figliastro del misantropo: “ oJ pai`~ uJpe; r th; n hJlikivan to; n nou`n e[cwn: / proavgei ga; r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28 - 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età: /infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia; tw'n ajllotrivwn); la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa ("ajblabevsteron", Storie , I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore... la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore... quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello! "[56].
La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata". [57]
Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[58]: "il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini, - la sua raccapricciante certezza... di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (Che cosa è aristocratico, 270) .
Per non limitarci alla letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungiamo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris succurrere disco " (I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola: "E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[59].
“Virgilio insiste, com’è ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente sensibile al dolore degli altri”[60].
Friederich Schiller impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue tragedie, particolarmente nella Maria Stuarda (1802): “il personaggio della infelice regina cattolica sembra tra tutti il più adatto ad essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione euripidea (...) secondo quelle leggi drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen [61], 1793, per le quali “Se la prima legge dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda legge è rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[62]. Maria muore non solo rassegnata ma felice del proprio matirio: “La prigione si apre, /e lieta la mia anima vola/verso l’eterna libertà... ora/ benefica e dolce mi si affianca/la morte come una severa amica... Sento/di nuovo sul mio capo la corona/e l’antica dignità rivive/nell’animo lavato dal dolore” (V, 4).
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive: " io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza (...) In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio? " (p. 234 e p. 320).
Lo stariez Zossima nei Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “ Avrai molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento: nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[63].
H. Hesse, in Siddharta (p. 135) esprime con altre parole l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo": "Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.
Su questo possiamo sentire Proust: "Perché solo la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie dello spirito... Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere...Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante! "[64].
La sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure all'arte: "Spesso solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara a quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[65].
“La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”[66].
Sentiamo ancora qualche testimonianza
D'Annunzio attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore: "Ella[67] ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[68]: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito"[69].
Di nuovo il vecchio Malavoglia: “Hanno imparato presto perché hanno visti guai assai! - diceva padron jNtoni: - il giudizio viene colle disgrazie”[70].
Torniamo a C. Pavese: " la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente"[71].
“Soffrire non serve a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[72].
“Qualunque sofferenza che non sia anche conoscenza è inutile”[73].
Mi avvio alla conclusione con un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse: "mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[74].
Concludo questo argomento citando Piero Boitani, professore di Letterature comparate nell’Università di Roma “
E più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un prerequisito del riconoscimento. Se
Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome
Con cui gli è caro essere invocato,
così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente vagliando,
tranne Zeus, se veramente si deve gettar via
il vano peso dal proprio pensiero.
(... .)
Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la saggezza -
A Zeus che ha avviato i mortali
A essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza attraverso la sofferenza”.
Invece del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia memore di dolori:
anche a chi non vuole arriva saggezza.
Pathei mathos: questa è l’indicazione di Zeus per il phronein umano, la “prudenza” che è saggezza”[79].
Aggiungo i due versi dell’Agamennone opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me; n paqou' - sin maqei'n ejpirrevpei” (Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
Concludo davvero con Nietzsche: “A proposito di rose e di spine, di croce e di rose, sentiamo Così parlò Zarathustra: “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”[80]. Man muss noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können.
Non solo: questo caos va attraversato, capito e redento in cosmo. Credo che tutti gli uomini umani - quorum ego - siano saliti per questo calvario per essere crocifissi e poi risorgere.
Introduzione alla tragedia. Parte sesta
Ancora dalla Poetica di Aristotele
Ora veniamo al riconoscimento.
Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv (Aristotele, Poetica, 1452a, 30) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.
Il miglior riconoscimento
Kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32 - 33) come per esempio nell’Edipo re.
Un altro tipo di riconoscimento avviene attraverso la memoria (hJ trivth dia; mnhvmh~, 1454b, 37) come nella narrazione di Alcinoo. Si tratta dell’Odissea quando Odisseo si ricordò e pianse commuove sentendo Demodoco che alla corte dei Feaci canta la lite tra Achille Pelide e lo stesso Laerziade[81]. Quindi venne riconosciuto. .
Varie sono le forme del riconoscimento (ei[dh de; ajnagnwrivsew~, 1454b, 20) dunque. La più usata e più estranea all’arte (hJ ajtecnotavth) avviene attraverso segni (dia; tw'n shmeivwn, 1454b, 21) che possono essere congeniti (suvmfuta) o acquisiti (ejpivkthta 1454b, 23). Esempio di segno congenito è la lancia che portavano sulla pelle i Ghgenei'~, i figli della terra progenitori dei Tebani, mentre i segni acquisiti possono essere ferite (oujlaiv, 1454b, 24) impresse sul corpo, come la cicatrice di Odisseo[82], oppure oggetti esterni al corpo, come collane, o la culla a forma di barca attraverso la quale nella Tiro di Sofocle la madre riconosce i figli Pelio e Neleo che vi erano stati esposti. Ci sono poi i riconoscimenti di secondo tipo, quelli fatti dal poeta, e nemmeno questi sono artistici.
Nell’Ifigenia fra i Tauri, la protagonista si rivela attraverso la lettera (dia; th'~ ejpistolh'~, 1454b, 34)
C’è un quarto tipo di riconoscimento: quelli che avviene ejk sullogismou' (1455a, 4), attraverso un sillogismo, come nelle Coefore di Eschilo, dove Elettra deduce che il fratello è arrivato, con un ragionamento fatto dopo avere trovato sulla tomba del padre "un ricciolo tagliato" (oJrw' tomai'on tovnde bovstrucon tavfw/, Coefore, v. 168)[83], una ciocca di capelli simili ai propri: qualcuno che mi assomiglia è stato qui, ma solo Oreste mi somiglia, dunque quello era Oreste. Quindi Elettra trova un secondo indizio: tracce di piedi simili alle sue: ” kai; mh; n stivboi ge, deuvteron tekmhvrion, - podw'n, oJmoi'oi, toi'~ t j ejmoi'sin” (Coefore, vv. 205 - 206).
Nemmeno questo è il riconoscimento ottimo, ma quello che deriva dagli stessi fatti (pasw'n de; beltivsth ajnagnwvrisi~ hJ ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn1455a, 16), come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia poiché era verosimile voler mandare una lettera (eijko; ~ ga; r bouvlesqai ejpiqei'nai gravmmata, 1455a, 19).
Il riconoscimento delle Coefore viene criticato più duramente da Euripide nell'Elettra[84] dove la stessa figlia di Agamennone polemizza con il sillogismo di Eschilo proposto dal vecchio che l’ha allevata, in quanto, dice, i capelli di Oreste non possono essere simili ai miei, siccome egli è un uomo cresciuto nelle palestre; io invece sono una donna che usa il pettine; del resto molti hanno riccioli simili senza essere parenti (Elettra , vv. 527 - 531). Altrettanto aspramente viene confutato l'indizio delle orme che il prevsbu~, quasi echeggiando Eschilo, le fa notare (i[cno~... ajrbuvlh~, v. 532, l’impronta dello stivale), dopo i "riccioli recisi dalla testa bionda" (Elettra, v. 515). Le impronte infatti sulla roccia, replica Elettra, non restano neppure, e anche se rimanessero, quelle del fratello non sarebbero uguali a quelle della sorella, ma più grandi (Elettra, vv. 534 - 537). Il riconoscimento avviene comunque poco più avanti attraverso il segno convincente di una cicatrice sul sopracciglio (oulh; [85] par j ojfruvn) che Oreste si procurò da bambino inseguendo con la sorella un cerbiatto nel palazzo del padre (Elettra, vv. 573 - 574).
Ho riferito questi versi euripidei per dare un saggio di come la tendenza al ragionare si sviluppa dal poeta più antico a quello più recente in un crescendo che, secondo i detrattori di Euripide, Aristofane e Nietzsche, giunge ad uccidere lo spirito dionisiaco e la pietà tragica.
Il riconoscimento è cruciale per l’avvio alla catarsi. Il non riconoscimento, nella tragedia greca quello tra Edipo e Laio, per esempio come nel Nuovo Testamento è qualche cosa di negativo. “Il non - riconoscimento sostituisce, nel mondo degli uomini, la lucida opposizione delle potenze demoniache nel mondo spirituale (il disconoscimento, il non riconoscimento potrebbe quindi essere la figura umana dell’ostilità del demone)”[86].
Tornando ancora alla Poetica che mi sembra la propedeutica più seria, seppure meno brillante di altre, alla tragedia greca, Aristotele sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta1450b, 5), e questo applicato all’eloquenza è il compito della politica e della retorica: infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (1450b, 7 - 8).
Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti politicamente.
Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale: "benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[87].
Allora l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”[88]. La categoria della bellezza è sempre presente nei classici greci “intendentissimi del bello” come ha scritto bene Leopardi.
Quanto alle cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o di eccederne di poco" (1449b, 13). Come si vede non si tratta di una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[89] approvandolo, della " semplice notizia di un fatto"[90]; eppure i critici del Rinascimento ne dedussero la regola dell'unità di tempo. Più prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia - afferma - è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza" (1450b, 24 - 25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4).
Quanto all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni: “è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[91].
Vediamo invece quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16).
“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere rivelato dai proponimenti (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare)”[92].
Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto).
I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).
“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[93].
La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh; n ei\nai, 1454a, 23).
Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta
Tremenda del resto è anche l’Elettra di Sofocle con la madre, Antigone con la sorella Ismene e la Clitennestra di Eschilo con il marito.
La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi.
O magari la somiglianza co se stesso.
Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).
Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[94] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[95] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[96], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene.
Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (Poetica, 1454a, 32).
Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[97], poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille si innamora (gennaiva ga; r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo; n jEllavdi”, v. 1397.
“In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[98].
In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi vari. Ma Aristotele pretende che l'irrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come nell'Edipo di Sofocle.
Questo mi sembra poco chiaro. Trovo piuttosto che Sofocle in questa tragedia tenda a smontare la presunzione di Edipo riguardo alle proprie capacità mentali. L’irrazionale è sottovalutato da Edipo e Giocasta per gran parte della tragedia. Per esempio nel rifiuto degli oracoli e dei segni mandati dagli dèi.
Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.
Interessante è anche la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso (to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".
Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos: "se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[99] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.
Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23), ossia il poeta deve mettersi nei panni dello spettatore, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[100].
Stanislavskij che studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[101].
E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e vi distraggono dall’arte”[102].
Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava diverse parti e psarti diverse in un sol dramma
“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, molto sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[103].
Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit”[104], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Anche il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le parti cantate non sono più connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.
Introduzione alla tragedia. Parte settima
Funzioni del coro tragico. Senofonte, Demostene, Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray
Voglio riferire alcune interpretazioni sulla funzione del coro nella tragedia
Senofonte nei Memorabili (del 370 circa) fa dire a Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non vedi - dice il filosofo a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi - come nei cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli istruttori? ” (3, 5, 18).
Un analogo elogio dei cori si trova nella I Filippica (349) di Demostene il quale contrappone la serietà dell’organizzazione delle feste Dionisie e Panatenee al disordine, alla confusione e all’improvvisazione delle spedizioni militari. Le feste infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla in queste viene trascuratamente lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde; n ajnexevtaston oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai (36).
Secondo Hegel il Coro della tragedia "non agisce ed ha dinanzi a sé solo l'universale"[105].
Il coro è la "coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione (...) è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio suolo" (Estetica, p. 1604).
Il coro può anche "essere paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la statua del dio, che qui diviene l'eroe in azione" (p. 1605).
Leopardi nello Zibaldone afferma che l'uso del coro è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua poetica del vago e dell’indefinito o dell’infinitudine.
Manzoni nella Prefazione a Il conte di Carmagnola (1820) sostiene che dei "Cori dei greci" si possa rinnovare lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti dall'azione, possono avere "uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i propri sentimenti".
In La nascita della tragedia Nietzsche ricorda la tradizione la quale "ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene l’obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario, senza in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche correnti - che esso era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena...dato che da quelle origini puramente religiose rimane esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere qualsiasi sfera politico - sociale "[106].
L'idea di identificare il coro come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[107] e deve avere fatto epoca, poiché la ricorda anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un espressione lirica e armonica e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori”[108].
Così siamo tornati e ci colleghiamo di nuovo a Nietzsche il quale invece rifiuta, quasi con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda allo spettatore ideale: “un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto ideale, e dal nostro stupore momentaneo"[109].
La formula non regge siccome lo spettatore e il coro sono entità differenti.
Il pubblico ha la consapevolezza di assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre il "coro tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente davanti a sé il titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto il dio della scena"[110].
![]() |
prefiche |
Maggiore credito viene data dal filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina (1803) da Schiller, che considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica (...) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale dei mortali...La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà... Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto ...il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia - lo dico fin d’ora - per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi "[111].
Da una parte è vero che l'uomo moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[112].
Non è è falso quanto afferma Bernardin De Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[113].
D’altra parte la componente istintiva, prima repressa poi scatenata alla distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti: " Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira acciecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra"[114].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[115], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel
Ma torniamo alle pagine e alla consolazione metafisica della stesura del 1871.
“Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita (...) In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini [116]. La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione"[117].
L'arte però ci salva dalla negazione della volontà: "Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[118].
Il coro "può essere inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in genere"[119].
Sofocle però comincia a ridurre questa funzione: "Già in Sofocle appare quella perplessità riguardo al coro - un segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a sgretolarsi. Egli non osa più affidare al coro la parte principale e più efficace, e ne limita invece a tal punto il dominio, che esso appare ora quasi coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall'orchestra e portato in scena: con ciò certo la sua essenza è totalmente distrutta, per quanto Aristotele[120] dia la sua approvazione proprio a questa concezione del coro. Quello spostamento della posizione del coro, che comunque Sofocle ha raccomandato con la sua prassi e, secondo la tradizione, addirittura con uno scritto, è il primo passo verso la distruzione del coro, le cui fasi si susseguono con spaventosa rapidità in Euripide, in Agatone e nella commedia nuova. La dialettica ottimistica scaccia la musica dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge l'essenza della tragedia, che si può interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione della musica, come il mondo di sogno di un'ebbrezza dionisiaca"[121].
Certo è che dal ditirambo originario, a Eschilo a Euripide, così come pure nella commedia, dal primo all’ultimo Aristofane, il coro perde progressivamente importanza, a mano a mano che ne acquista l'individuo. sganciandosi sempre più dalla città, dalla religione, dalla stirpe.
Il coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore lirico. Esso, sostiene Gilbert Murray[122] traduce il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le sofferenze vengono redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza.
I coreuti talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi , talora umani invasati o attraversati da grandi emozioni, come le Baccanti .
Il canto di queste creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla stessa trama del dramma. Murray fa l'esempio del quinto Stasimo della Medea , il canto successivo all'infanticidio. Nella seconda antistrofe (vv. 1282 - 1292) le donne di Corinto, che più volte hanno espresso solidarietà a Medea, cantano:
"Di una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che scagliò le mani contro i figli: /Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di Zeus la cacciò da casa di corsa. /Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia strage dei figli, /e avere teso il piede oltre la riva marina, /e muore una morte comune con le sue creature. /Quale altra atrocità potrebbe accadere? /oh letto delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai mortali! ".
Il coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non viene dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei secoli. La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo, la quale, fatta impazzire da Era, uccise i propri figli.
La Memoria, madre delle Muse ha compiuto la sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria svanisce, e, come stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.
Tale potenza di trasfigurazione dunque si ottiene per mezzo del coro che canta non solo la sofferenza ma anche la felicità dell'uomo. Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che rimane nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre al loro potere e ha la forza di rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura la realtà tragica in poesia.
Così i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori, possono assumere una valenza educativa: “ Proust ricordava che nessun altare fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più profonda venerazione e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[123].
"La realizzazione delle parti corali della tragedia greca costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno. Il teatro borghese da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la capacità di ascoltare, e incarnare in un coro, le voci provenienti dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo due eccezioni: la banda di straccioni e mendicanti della brechtiana Opera da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S. Eliot. [124]" .
Introduzione alla tragedia greca. Parte ottava
Chiudo questa parte con altre due parole sul film Itaca il ritorno
Torniamo alla Poetica di Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh; n ei\nai” (1458a, 18). Pregio del linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta è libero di variare rispetto all’usuale, cioè al dozzinale.
Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine: “xeniko; n de; levgw glw'ttan kai; metafora; n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale.
Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4).
Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). Allungata (ejpektetamevnon, 1457, 35) è la parola adoperata con una vocale più lunga dell’ordinario o con l’aggiunta di una sillaba; accorciata (ajfh/rhmevnon) quando si toglie qualche cosa (1458a, 1). Non si devono impiegare tutti insieme questi elementi inusuali, altrimenti si produce l’enigma o il barbarismo. Dalle glosse si producono i barbarismi, dalle metafore l’enigma, la cui caratteristica è combinare insieme l’impossibile dicendo cose vere. (1458 a, 26)[125]. Per avere insieme elevatezza e chiarezza dunque bisogna fare in un certo modo una mescolanza di queste forme: “dei' a[ra kekra'sqai pw~ touvtoi~” (1458a, 31). Arifrade canzonava[126] i tragediografi poiché fanno uso di espressioni che nessuno impiega parlando, come le anastrofi (oi|on to; dwmavtwn a[po ajlla; mh; ajpo; dwmavtwn, 1458a, 33, come per esempio da casa via e non via da casa), e ignorava che sono proprio le espressioni inusuali a produrre nel linguaggio to; mh; ijdiwtikovn (1459a, 3) il non triviale.
E’dunque molto importante sapere usare queste forme di abbellimento, e soprattutto le metafore
Questo fatto creativo non può essere preso in prestito da altri: “ eujfui? a~ te shmei'ovn ejsti: to; ga; r eu\ metafevrein to; to; o{moion qewrei'n ejstin” (1459a, 6 - 7), ed è segno di talento: infatti trovare buone metafore significa osservare ciò che è somigliante[127].
“E’ in questo senso che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose”[128].
“Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale”[129].
Nella Retorica, Aristotele dà questo suggerimento: "bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th; n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).
Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone di Leopardi dove leggiamo: "le parole lontano , antico , e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse" (1789). E, più avanti (4426): "il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago".
La metafora del resto possiede in massimo grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica , III, 1405a).
Diamo l’esempio di una bella sequenza polimetaforica dei Persiani di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta all' a[th: " u{bri" ga; r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun - - a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/ qevro"" (vv. 821 - 822) la prepotenza infatti fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una messe tutta di lacrime.
“I Persiani sono un dramma storico, ma trascendono questo livello grazie all’interpretazione che in essi riceve l’evento: la vittoria dei Greci è opera loro come degli dei che puniscono l’eccesso con l’empietà... Il dramma resta naturalmente anche un documento storico e non si dovrà dimenticare che il grande resoconto della battaglia fu scritto da un uomo che vi prese personalmente parte”[130].
Tornando alla Poetica, Aristotele ribadisce che il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth; ~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei; zwgravfo~) o un altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli uomini come devono essere, Euripide come sono" (1460b, 34).
Questa famosa affermazione attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea della differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide che comincia a degradare l’eroe[131].
Insomma: se il poeta è un imitatore al pari di ogni altro artista, e si accusa il drammaturgo perché ha ritratto cose non vere, allora può darsi che egli le abbia rifatte come vorrebbe che fossero.
Riporto anche una divisione della tragedia in parti quantitative (kata; de; to; posovn, Poetica, 1452b, 15) che può essere utile a uno studente di liceo. Il Prologo è la parte (recitata) che precede l'ingresso del coro; la Parodo è il primo canto del coro (quello di ingresso), i successivi si chiamano Stasimi (canti sul posto); Aristotele definisce lo stasimo “canto del coro privo di anapesti e trochei” (Poetica, 1452b, 24), che dovrebbe essere un canto moderato, simile al recitativo; gli Episodi sono gli atti recitati, compresi tra un coro e l'altro; l'Esodo è la parte finale, cui non segue un canto corale; il Commo è un lamento comune cantato (a voci alterne) dal coro e dalla scena: kommo; ~ de; qrh'no~ koino; ~ corou' kai; ajpo; skhnh'~ (Aristotele, Poetica, 1452b 24
“Come sinonimo di amebeo lirico viene spesso usato il termine kommov~. In realtà il kommov~ (da kovptomai = “percuotersi” il petto o il capo in segno di lutto) è propriamente un canto antifonale di carattere funebre, un qrh`no~ che riprende forma e motivi dal lamento rituale tradizionale, in cui un solista intona il lamento e un coro risponde. Kommoiv di questo tipo sono ben attestati nella tragedia. Essi si pongono su una linea di sostanziale continuità con le descrizioni di pianto rituale già testimoniateci dai poemi omerici (ad esempio Il. 24, 719 - 776 e Od. 24, 35 - 94), con il ricorrere di elementi topici quali l’allocuzione al morto, l’autocommiserazione, l’elogio dello scomparso, il ricordo nostalgico del passato, il riferimento alla condizione del defunto e dei sopravvissuti, la promessa di adeguate onoranze funebri... L’esempio più antico di kommov~ tragico è quello dell’esodo dei Persiani di Eschilo tra Serse, che intona e guida il lamento, e il Coro, la cui funzione è di rispondere e di amplificare l’espressione di cordoglio. Oggetto del compianto è la sorte dei soldati che il re ha portato alla disfatta nella sciagurata spedizione contro la Grecia (vv. 1038 ss.)”[132].
Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato tra epica e dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa contiene tutti gli elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la musica. Inoltre il dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce più gradito anche perché è meno diluito: l'Edipo re consta di un numero di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da
Invero la densità di uno scritto non si deve giudicare contando il numero delle pagine ma dalla significazione di ogni singola parola
Sappiamo che "il ritardare è epico"[133], mentre il tragico si affretta alla conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo a un impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.
A proposito del ritardare epico si può fare l’esempio del racconto particolareggiato della cicatrice di Ulisse. Nel XIX dell’Odissea leggiamo che Ulisse quando era ospite del nonno materno Autolico venne ferito sul Parnaso da un cinghiale dalla candida zanna su`~ leukw`/ ojdovnti (393). La nutrice Euriclea riconosce da questa oujlhv il suo pupillo partito venti anni prima e Omero procede per 72 versi raccontando come il fanciullo durante una caccia ricevette questo colpo che gli strappò un bel lembo di carne sopra il ginocchio.
Solo al verso 467 il racconto torna al presente con il riconoscimento di Euriclea che ravvisa la sua cara creatura - fivlon tevko~ - (v. 474) nel falso mendico.
Omero mette tutto in primo piano e in piena luce. Tutto viene mostrato, chiarito e spiegato.
Mi sono fermato un poco su questo episodio perché, come ho scritto nel Post di questa mattina, Il film Itaca il ritorno ha di pregevole solo questo momento di emozione della vecchia nutrice e mamma vicaria di Odisseo.
Il resto ha poco o niente del poema omerico.
Un film “liberamente tratto da un libro” è un tradimento e un’usurpazione del libro come una traduzione che non rispetta le scelte dell’autore.
Ma torniamo alla tragedia. Nell’introdurre i tre grandi tragici, non avendo abbastanza posto per rendere conto di ogni aspetto della loro poesia né dei loro contenuti, darò uno spazio prevalente al rapporto tra l’uomo e la donna, e alla condizione femminile.
Introduzione alla tragedia greca. Parte nona.
L’Estetica di Hegel
Prima di passare ai singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica di Hegel sul dramma antico. Si tratta di uno scritto uscito nel 1838, dopo la morte del filosofo, e ricavato da appunti e lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli anni tra il 1817 e il 1829.
Il dramma dunque costituisce “la fase suprema della poesia e dell'arte”, siccome “riunisce in sé l'oggettività dell'epos con il principio soggettivo della lirica”[134].
Per chiarire il significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade , si può dire che esso rappresenta spesso lo spirito originario di una nazione che mette alla prova se stessa attraverso una guerra. Hegel nella parte dedicata all'epica sostiene che"la poesia drammatica degli indiani o le tragedie di Sofocle non ci danno un'immagine così totale come il Ramayana ed il Mahabharata oppure l'Iliade e l'Odissea " (p. 1383).
L'epos dunque costituisce il fondamento della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione con un altro popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al suo centro il più delle volte vediamo un individuo che lotta con un antagonista, o con delle situazioni, o con il destino.
In vero Eschilo nei Persiani rappresenta una guerra tra due popoli, due regimi diversi e due culture differenti; nelle Eumenidi fa prevalere il patriarcato sul matriarcato.
Sofocle nei suoi drammi contrasta da sofistica di moda con l’uomo misura di tutte le cose asserito da Protagora.
Euripide che pure dà maggiore spazio ai contrasti famigliari e tra i sessi, non manca di mostrare lotte politiche e pure militari prendendo e motivando anche posizioni sue.
Nei Persiani [135] di Eschilo chiarisco assistiamo ad una guerra tra due civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano rispettivamente la libertà e il dispotismo, l'ordine civile e il caos barbarico. La tragedia greca è sempre politica.
Il conflitto del resto può essere anche interiorizzato; allora il protagonista ha l'avversario dentro se stesso, e vive in una contraddizione che lo dilania. Medea soffre con piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando afferma il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv. 1078 - 1080).
"Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme all'interno dell'individuo. . costituisce il principio propriamente lirico della poesia drammatica" (Hegel Estetica , p. 1538).
Nell'Ippolito di Euripide [136], Fedra, la matrigna innamorata del figliastro, è dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo, /ma non lo costruiamo nella fatica - oujk ejkponou`men d j - alcuni per infingardaggine, /alcuni anteponendogli qualche altro piacere. / E sono molti i piaceri della vita: /lunghe conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza" (vv. 380 - 385).
La luce di queste citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[137] .
Sentiamo anche Cacciari: “Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il confronto con l’ethos. La conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune, lo xynón, diviene problematica già nel corso della tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[138].
Caratteristica del dramma dunque è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta dovrebbero arrivare ad una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p. 1540).
L'ampia e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la soluzione delle unilateralità: “ Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è giusto o è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo spingono ad agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino solo oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di quel che è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve accontentarsi di una visione meramente indeterminata di quel che si agita nella profondità dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi esclusivo stato d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di vedere il mondo, ma ha necessità della più grande apertura e della più comprensiva vastità di spirito. Infatti le potenze spirituali... nel dramma si presentano, secondo il loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente opposte come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione dell’unilateralità di queste potenze che divengono autonome negli individui " (p. 1541).
La collisione tra le unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.
"Nella tragedia gli individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si oppongono in modo sostanziale" (p. 1589).
L'Antigone viene considerata " l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente" (Hegel, Estetica, p. 1613) [139].
Questa tragedia sopprime le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di Creonte.
" Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza.
Antigone subisce la morte prima di avere gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l'altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno - li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli - l'Antigone mi pare per quest'aspetto come l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente.
L'esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[140].
Hegel menziona le unità aristoteliche, notando che nella Poetica non c'è traccia di quella di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia" (Estetica, p. 1543).
Nella prima tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero, lo spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel campo greco sulla riva dell'Ellesponto.
Secondo Hegel "la legge veramente inviolabile è l’unità di azione" (p. 1545) poiché essa si basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel movimento totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni.
Un’ altra regola ineliminabile è che la progressione della tragedia sia più veloce di quella epica: "Il corso propriamente drammatico è dato dal progredire continuo verso la catastrofe finale" (p. 1548).
Le scene episodiche, tipiche dell'epos, che "senza portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare lo svolgimento, sono contrarie al carattere del dramma" (p. 1549).
Ho ricordato le decine di versi dedicati da Omero alla genesi della cicatrice di Ulisse nel XIX canto dell’Odissea.
Il poeta non deve dare spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda più che non infiammi” (p. 1554).
Si può ricordare il to; teratw'de~ il mostruoso della Poetica (1453b, 9). Questo è presente soprattutto nelle tragedie di Seneca.
“E non giova niente al poeta descrivere le passioni in modo così commovente; il cuore si sente soltanto lacerato, e ci si volge altrove. Infatti vi manca il positivo, la conciliazione, che non deve mai essere assente nell'arte. Gli antichi, invece, nelle loro tragedie, operavano soprattutto attraverso il lato oggettivo del pathos, a cui al contempo non manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo richiede, l’individualità umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo pathos di un animo grande, un pathos che penetra profondamente ed ovunque si mostra e si esprime come base dell’azione. " (p. 1555).
Questo mi sembra un arzigogolo.
Per quanto riguarda la metrica, Hegel riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del giambo: “Al metro drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme scorrere dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della lirica. A questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[141].
In effetti il trimetro giambico si confà all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo con il quale viene letto.
“Se si prescinde dalle melodie e dai kommoí che erano composti in metro lirico e dunque implicavano una resa affidata al canto, gli attori interpretavano le parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai più raramente in tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse resi in parakataloghé (recitativo) nelle scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di ionico. E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate da una lieve coloritura dorica”[142].
Il trimetro giambico “sembra evolvere , nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di composizione più recente - il che sembra avvalorato, in linea generale, dall’evidenza delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di rappresentazione - vari studiosi hanno tentato di fissare la cronologia relativa dei drammi euripidei. E’ evidente tuttavia che il criterio non può essere applicato in modo meccanico: vero è, ad esempio, che, secondo le statistiche di Ceadel, nell’Andromaca (rappresentata nei primi anni della guerra del Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di soluzioni è dell’11%, nelle Troiane (416 a. C.) è del 21, 2% e nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4% ”; ma nelle Baccanti e nell’Ifigenia in Aulide , che pure sono posteriori all’Oreste, le percentuali decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[143].
“La capitale richiesta al poeta drammatico è che egli debba pervenire ad una visione sommamente profonda dell’essenza dell’agire umano e del governo divino del mondo, e ad un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di questa eterna sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani” (Estetica, p. 1564). Parole generiche e inutili.
Vediamo alcune osservazioni di Hegel sulla commedia.
Il poeta deve suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre: "in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia, della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica, p. 1564).
Il commediografo in effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei Cavalieri[144], nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo Paflagone.
Negli Acarnesi dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza.
La commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno. . sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in arte" (p. 1565).
La parabasi comica è una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul costume.
Nella parabasi delle Nuvole [145] p. e. Aristofane rivendica la propria forza creativa, il coraggio, e la nobiltà del proprio animo dicendo al pubblico:
" non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/ per niente uguali tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era caduto" (vv. 546 - 550).
In effetti Aristofane come opinionista fu assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva , libertà di parola, nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415. Poi questa un poco alla volta viene limitata e con lei sparisce la parabasi. L'ultima è quella degli Uccelli del 414.
Interessanti sono alcune osservazioni sull'attore il quale deve essere"lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo era più facile perché...le maschere[146] coprivano i tratti del volto" (Estetica, p. 1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).
Il realismo invece è cosa greca.
Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni" (p. 1591). Il comico richiede contrasti che possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili: "di tale natura sono, p. e. , le Ecclesiazuse di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).
In questa commedia, del 393, le donne all’assemblea fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune" (v. 590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v. 598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle; /poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto" (v. 624).
“Il comico è la parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire” (Hegel)”[147].
Anche la commedia però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità...Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc. , questa nuda contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica" (p. 1593).
Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete" (p. 1595).
L’ultima parte dell’Orestea[148] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre - figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi. Nel Filottete[149] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv. 1420 e sgg.).
Presupposto della tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna dalla quale scaturisce l'ironia.
La tragedia è fatta di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica" (p. 1607).
Hegel ribadisce che l'Antigone di Sofocle rappresenta al meglio tale collisione: "Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi aggiunge: " Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide , nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato" (p. 1608).
L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri) piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono" (p. 1618).
L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia" (p. 1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc. ” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni... che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[150].
Potremmo aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate... Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[151].
Sul saggio di Pirandello torneremo più avanti.
Intanto sentiamo Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc.
Il popolo è comico, spiritoso... L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[152].
Introduzione alla tragedia. Parte decima
Schopenhauer, Freud, Steiner
Vediamo ora una critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer (1788 - 1860), il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti-idealista e anti-storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio (…) A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più (...) Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci (...) Ciò che dà al tragico, in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[153].
Tale rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)[154]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [155]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[156] .
“Edipo, dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di età classica)”[157].
Meglio dunque, secondo Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi: "Shakespeare è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale (...) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[158]" .
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”[159].
Più avanti, negli stessi Supplementi, Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [160], “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. (Stob. Flor. , II, 299). Alle persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[161].
Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja: “Una è identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda”[162]. Non senza grande dolore. In alcuni individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[163]; così Amleto... così ancora
Pues el delito mayor
del hombre es haber nacido [166],
come apertamente afferma Calderón...Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.
Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[167], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.
Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina.
La sventura può essere cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti... Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai caratteri degli uomini ; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi... Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[168]. Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed Ofelia; anche il Wallenstein[169] ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein”[170].
Diversi anni dopo le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[171].
Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi: "Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[172].
Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[173] - kai; qhriwvdou") innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201 - 205).
Nelle Supplici Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Teseo è lo stratego ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un comandante come Teseo che misei` uJbristh; n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul gradino più alto[174] e distrugge il vantaggio conseguito prima. E’ un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio in Beozia (424).
Concludo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud presenta un catalogo di eroi: “ I nomi più noti della serie che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[175] ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri... Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l’acqua è il liquido amniotico... Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta... Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale[176]”.
Nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica[177], Freud richiama alcune affermazioni di Totem e tabù (1912 - 1913): “La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congiuntura di Atkinson[178]. Essa dice che in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde... Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi”[179]. Gli espulsi formarono altre orde. I più piccoli restarono nella prima orda, protetti dalla madre prima, poi cercando di succedere al padre. Successivamente quelli scacciati unirono le loro forze “per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo”[180]. Al parricidio seguirono le lotte per l’eredità paterna, poi “persuasisi dei pericoli e dell’infruttuosità di queste lotte” i fratelli addivennero “a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia”.
Buona parte del potere assoluto tolto al padre passò alle donne, e “venne il tempo del matriarcato... In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto... Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza)”. In sintesi il totem in un primo tempo era venerato poi “veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme... Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli che avevano stretto un’alleanza tra loro”[181]. A questo punto interviene la religione: “Al posto degli animali subentrarono dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio... Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali”. Ma torniamo alla religione: “E’ verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un solo dio - padre, unico e illimitato signore”[182].
Freud pensa che il monoteismo fu introdotto tra gli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C. ”[183] e adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”[184] solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dal culto, dalla propria persona e da tutte le iscrizioni.
“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta... Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[185]. Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi: entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”[186]. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto”. Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia” [187]. Arriviamo infine alla religione cristiana e torniamo alla tragedia greca. “Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico”[188]. Con il monoteismo si ebbe “ la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici”, quindi “ anche altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento...Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico - religioso, fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua prima fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato... In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come un messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stata compiuta l’uccisione del padre... Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre”
Può essere, continua Freud, che il caporione primigenio non ci sia effettivamente stato; in ogni caso ciascuno della banda dei fratelli avrebbe voluto commettere il misfatto. “Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprenda a vivere con la rappresentazione della storia della Passione”[189].
Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate appena... Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta”[190].
Sentiamo G. Steiner: “ Nel politeismo, dice Nietzsche, consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità... è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”). In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria... Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio... L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici... Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio - ma chi aveva scelto chi? - era troppo visibile su di loro...
Insomma l’antico e il nuovo Testamento propongono e ordinano ideali impraticabili
Anche il marxismo ha riproposto ideali troppo difficili da praticare.
“Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura... Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quelle che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale... l’ideale continuava a bussare a insistere con forza terribile e molesta. Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi... Noi odiamo in sommo grado coloro che ci propongono un modello, un ideale, una promessa visionaria che non siamo in grado, pur tendendo i muscoli all’estremo, di raggiungere... Nella sua esasperante “estraneità”, nella sua accettazione della sofferenza come condizione di un patto con l’assoluto, l’ebreo divenne, per così dire, la “cattiva coscienza” della storia occidentale... Scagliandosi contro gli ebrei, il cristianesimo e la civiltà europea si scagliarono contro l’incarnazione - sia pur spesso indocile e inconsapevole - delle proprie speranze più alte... Nell’Olocausto vi fu sia un folle castigo, uno sferrar colpi alla cieca contro le intollerabili pressioni della visione idealistica, sia una larga componente di automutilazione. La società europea moderna, laica, materialista, bellicosa, cercava di estirpare, da sé stessa e dal proprio bagaglio ereditario, germi d’ideale arcaici, ormai ridicolmente obsoleti e tuttavia in certo qual modo inestinguibili. L’accezione nazista di “parassiti” e “disinfestazione” rivela brutalmente la natura infetta della moralità. Uccidiamo l’esattore, uccidiamo colui che ci ricorda la somma dovuta, e l’annoso debito sarà estinto. Il genocidio che si consumò in Europa e in Unione Sovietica negli anni 1936 - 45 (l’antisemitismo sovietico fu forse la manifestazione più paradossale dell’odio che la realtà nutre contro l’utopia naufragata)... fu l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale; fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto. Usando metafore teologiche... è possibile dire che l’olocausto ha rappresentato un secondo peccato originale... Con il tentativo maldestro di uccidere Dio e il tentativo quasi perfettamente riuscito di uccidere quelli che l’avevano “inventato”, la civiltà entrò, esattamente come Nietzsche aveva predetto, nella “notte sempre più notte””
”[191]
Ma torniamo a Freud
L’orda primordiale ha lasciato diverse tracce nel genere umano, anzi sopravvive ancora nella massa che è una “reviviscenza dell’orda primordiale”[192] mentre l’individuo capace di comandarla corrisponde al capo dell’orda: “I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell’orda primordiale era libero. Pur essendo egli isolato, i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Per conseguenza noi supponiamo che il suo Io fosse scarsamente legato libidicamente, che non amasse alcuno all’infuori di sé medesimo e che amasse gli altri solo se e in quanto servivano ai suoi bisogni... All’inizio della storia umana fu lui il superuomo che per Nietzsche possiamo aspettarci solo dal futuro. Gli individui appartenenti alla massa hanno bisogno tuttora dell’illusione di essere amati in uguale e giusta misura dal capo, mentre lui, il capo, non ha bisogno di amare alcuno, può avere la natura del padrone ed essere assolutamente narcisistico, eppure sicuro di sé e autosufficiente”[193]. Il capo primordiale, e pure quello recente, cattura emotivamente la massa: “non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa”[194]. Inoltre c’è il legame libidico trasferito: “il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all’astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita. Li immise per così dire con la forza nell psicologia collettiva. La sua gelosia sessuale e la sua intolleranza divennero in ultima analisi la causa della psicologia delle masse”[195].
![]() |
Edipo Rey. Teatro del Noctámbulo |
Si leggano in Sofocle queste parole di Edipo che, entrato in scena nel prologo della tragedia, si informa sullo stato d’animo del suo popolo colpito dalla peste e dalla sterilità: “ su vecchio, racconta, poiché sei adatto/a parlare per questi: in quale modo siete disposti: /avendo concepito timore oppure amore? Poiché vorrei bastare/io ad aiutarvi in tutto: infatti sarei disumano/se non avessi compassione di tale seduta (Edipo re, vv. 9 - 13).
Il re di Tebe considera se stesso quale nodo, somma e sintesi di tutti i sentimenti di tutti i Tebani: “O figli degni di compassione, cose conosciute, e non sconosciute a me/siete venuti a domandare con desiderio; io infatti so che/state male tutti, e pur stando male, come me, /non c'è tra voi chi sta male in ugual misura. / Infatti il dolore vostro colpisce uno solo, /per sé, e nessun altro, ma la mia/mente compiange la città e me e te, tutto insieme” (Edipo re, vv. 58 - 64).
In 1984 di Orwell è descritta una situazione assimilabile alla repressione sessuale ipotizzata da Freud nell’orda primitiva. Nel romanzo c'è una ragazza, Jiulia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (. . .) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido (All this marching up and down and cheering and waving flags is simply sex gone sour). Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? (If you are happy inside yourself, why should you get excited about Big Brother and the Three –Year Plans and the Two Minutes Hate and all the rest of their bloody rot?)"[196].
Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p. 133). Il protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (…) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito? "[197].
Leggiamo qualche parola in inglese: “Their embrace had been a battle, the climax a victory. It was a brow struck against the Party. It was a political act” (p. 133), il loro amplesso era stata una battaglia, l’apice una vittoria. Era una raffica scagliata contro il Partito. Era un atto politico.
[1] Vissuto tra il 384 e il 322 a. C.
[2] 200ca - 118 ca a. C
[3] Gorgia di Leontini (490 ca - 385ca a. C.) aveva detto che la tragedia crea un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato: “ o{ te ajpathvsa" dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei; " sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto"" (in Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C.).
[4] Tucidide legiferò (" oJ d j ou\n Qoukidivdh"... ejnomoqevthse") afferma Luciano (Come si deve scrivere la storia, 42). La legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su; n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura piuttosto che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro; " to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[5] Olimpica I, 29.
[6]
[7]Il mestiere di vivere , 30 agosto 1938.
[8] In O. Wilde, Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222 - 224
[9] Zibaldone, pp. 3448 - 3449 e p. 3451.
[10] Zibaldone, pp. 3457 - 3460.
[11] “Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e il primo dei poeti tragici, ma sapere che si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed encomi per i buoni. Se invece accoglierai
[12] Nietzsche, Frammenti postumi, ottobre - dicembre 1876, 19 (99)
[13] Euripides and his age, p. 243.
[14] Avezzù - Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[15] Zibaldone, 1848.
[16] Definito da Archiloco: "il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[17] Da kwvmh - h~.
[18] M. Cacciari, Hamletica, P. 14.
[19] Hamletica, p. 100.
[20] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88. Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.
[21] Lanza, Dimenticare i Greci, in I Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455, Einaudi, Torino, 2001.
[22] M. Di Marco, La tragedia greca, p. 26.
[23] Di Marco, Op. cit. , p. 41
[24] Di Marco, Op. cit. , p. 41
[25] Di Marco, Op. cit. , pp. 41 - 42.
[26] Di Marco, Op. cit. , p. 43
[27] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire (del 1849), p. 252.
[28] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023
[29] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[30] La poesia drammatica.
[31] Zibaldone, p. 4389.
[32] Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[33] T. S. Eliot, Il bosco sacro, p. 85.
[34] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 55.
[35] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[36] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.
[37] 350 a. C. ca.
[38] Etimologicamente è “il luogo da dove si guarda”.
[39] Di Marco, Op. cit. , pp. 57 - 58
[40] Il Prometeo incatenato (molto probabilmente) di Eschilo: ne parleremo estesamente più avanti . Ndr.
[41] Autore della cosiddetta “commedia di mezzo” che presentava spesso parodie mitologiche, utilizzando spesso episodi di tragedia di Euripide, come testimoniano alcuni titoli di Antifane: Medea, Baccanti, Elena. Ndr.
[42] Di Marco, Op. cit. , p. 62.
[43] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera” (persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la diversità delle due forme)” . Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[44] Di Marco, Op. cit p. 85 e p. 88
[45] Cfr. U. Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, 17 marzo 1798.
[46] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, p. 133.
[47] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 51 e p. 251.
[48] C. Wolf, Medea, p. 181
[49] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[50] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco più avanti: "goccia invece del sonno davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" (kai; par j a[ - konta" h\lqe swfronei'n , Agamennone, vv. 179 - 181).
[51] Si veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[52] Il mestiere di vivere, 2 novembre 1938.
[53] B. Snell, Poesia e società, pp. 156 - 157.
[54]Tragw/diva , p. 209.
[55] Del Grande, op. cit. p. 214.
[56] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[57]B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , p. 141.
[58] Del 1875
[59] E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.
[60] A. La Penna, Prima lezione di letteratura latina, p. 150.
[61] Sul sublime ndr.
[62] Schiller Tutto il teatro 3, Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[63] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 123.
[64]M. Proust, Il tempo ritrovato , pp 238, 239 e 242.
[65] M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[66] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde Opere, p. 653.
[67] La vita.
[68] " Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 1937). Ndr.
[69] Il fuoco (del 1900) p. 95.
[70] G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
[71] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 1937.
[72] Il mestiere di vivere, 27 ottobre 1938.
[73] Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1939.
[74]H. Hesse, Peter Camezind (del 1904), p. 117.
[75] P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. X ss.
[76] Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”... Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante tra l’anagnorisis e la cecità (o la morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis e il ragionamento, di cui ho scritto Il genio di migliorare un’invenzione, cit.
[77] Per l’importanza del pathei mathos nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie, cit. , pp. 254 - 255. I loci più importanti della tradizione soo Omero, Iliade, XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni, 218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo re, 402; Sofocle, Antigone, 1190; Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung, in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5, 1956.
[78] Eschilo, Agamennone, 160 - 180 (e si vedano anche i vv. 250 - 252). L’edizione usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[79] Piero Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. 109 - 110.
[80] Prefazione.
[81]Odissea , VIII, vv. 75 e sgg. Leopardi nota la poeticità di questa situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de' Greci da Troia, dicendo com'ella incessantemente l'affanna per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta? " Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica , p. 71.
[82] Cfr. Odissea, XIX, 386 e sgg.
[83] Il versante tragico di quella che sarà la chioma di Berenice.
[84] Composta in una anno tra il 416 e il 413.
[85] Cfr. il riconoscimento di Odisseo da parte di Euriclea il XIX canto dell’Odissea.
[86] J, Starobinski, Tre furori, p. 84. l’autore sta commentando l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa i cui abitanti non riconoscono Cristo (Marco, v, 1 - 20).
[87]S. Kierkegaard, Enten - Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 24.
[88] S. Kierkegaard, Enten - Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 30.
[89] A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[90] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione (del 1820).
[91] Opera e luogo citati sopra.
[92] Di Marco, Op. cit. , p. 137.
[93] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.
[94] Del 408 a. C.
[95] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[96] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma. Tale giudizio contro la guerra si trova anche
alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu; ~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
[97] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes (qhteuevmen, Od. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere! ... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.
[98] Di Marco, Op. cit. , p. 139.
[99] L'uomo senza qualità, I, 18, Moosbrugger.
[100] La nascita della tragedia , capitolo 5.
[101] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.
[102] Op. cit, p. 176.
[103] M Di Marco, Op. cit. , p. 90.
[104] Remedia amoris, 375 - 376.
[105]Estetica, p. 1429.
[106] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[107] Corso di letteratura drammatica - del 1809 - lezione III.
[108] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione.
[109] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[110] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 7.
[111]La nascita della tragedia , capitolo 7.
[112] G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[113] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[114] T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139.
[115] Con Euripide "Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina ... ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della tragedia , capitolo 17)
[116] "The time is out of joint" (Amleto, I, 5). , il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai cardini. Il retrocedere del sole suggerisce queste parole al quarto coro atterrito: "Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos everso/cardine mundus; /in nos aetas ultima venit. /O nos dura sorte creatos, /seu perdidimus solem miseri, /sive expulimus! " (vv. 876 - 882), noi tra tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato (ndr).
[117] La nascita della tragedia, capitolo 7
[118] La nascita della tragedia, capitolo 7
[119]La nascita della tragedia , capitolo 14.
[120]Cfr. Poetica 1456a già citato.
[121]La nascita della tragedia , capitolo 14.
[122]Euripide e i suoi tempi , Laterza, 1932. Euripides and his age (1913)
[123] Giovanni Macchia, L’angelo della notte, p. 166.
[124] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 73.
[125] Bettini utilizza questo passo di Aristotele per indicare un nesso tra enigma e incesto: "Aristotele, definendo la aijnivgmato" ijdeva, dice che il procedimento dell'enigma consiste nel "parlare di cose vere legando fra loro adynata ", cioè cose che non possono (almeno in apparenza) esser legate fra loro. L'incesto, naturalmente, verifica per l'appunto questo principio. Come si può essere contemporaneamente "padre" e "fratello" dei propri figli? " (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 145).
Nell'Oedipus di Seneca si trovano intrecci dove si mescolano e confondono entità diverse, e tali che dovrebbero rimanere divise: "Effetto della malattia è appunto quello di confondere, di identificare quello che altrimenti dovrebbe restare diviso. Non c'è più distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono contemporaneamente ai vecchi, i figli contemporaneamente ai padri. Nella descrizione della peste, Seneca sembra dunque applicare lo stesso principio codificato altrove da Aristotele per l'enigma: sunavyai ajduvnata. Come l'incesto ovviamente, come l'arcobaleno" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 148).
[126] Forse è l’Arifrade ponerov~ che viene a sua volta sbeffeggiato da Aristofane nei Cavalieri (vv. 1281 sgg. e nelle Vespe (1280 sgg,) per come ha appreso a lavorare di lingua, inquinandosela nelle voluttà nefande dei bordelli.
[127] Intelligenza in greco si dice suvnesi" una parola che tradotta radicalmente significa capacità di mettere insieme cose distanti, di vederne le somiglianze, e se è vero, come afferma il Menone di Platone, che "la natura è tutta imparentata con se stessa, " th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh"" (81d), coglierne ed evidenziarne i legami di parentela è compito del genio, del poeta. La stessa cosa afferma Dostoevskij in I fratelli Karamazov : "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certomigliore " (p. 402).
Facciamo l’esempio di una bella metafora, tratto da Eschilo, l'autore che ce ne fornisce la scelta più ampia siccome conserva la rigida grandiosità del rituale e l'enfasi ieratica del linguaggio liturgico: "dia; dev toi genu'n iJppivwn - kinuvrontai fovnon calinoiv", attraverso le mascelle dei cavalli, le briglie arpeggiano strage (I sette a Tebe , vv. 122 - 123).
[128] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[129] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[130] A. Lesky, La poesia tragica dei Greci, p. 125.
[131] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia, p. 117).
[132] Di Marco, Op. cit. , p. 259.
[133] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile 1797 ebbero uno scambio di lettere... sul "ritardare" in genere nei poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento omerico a legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici" (E. Auerbach, Mimesis , p. 5).
[134] Estetica, p. 1533 - 1534.
[135] Del 472 a. C.
[136] Del 428 a. C.
[137] Tanto che Schopenhauer scriveva: "il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua esposizione... fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli.", Parerga e Paralipomena , I, p. 206.
Si può per lo meno notare una contraddizione nell’Estetica di Hegel tra la “fase suprema” costituita dal dramma e l’”immagine totale” data dall’epica. Nota p. 19
[138] Hamletica, p. 83.
[139] “Il culto per Sofocle, retaggio dell’umanesimo classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i filosofi così come fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul ciclo di Edipo come massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi maestri e amici di Droysen , né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano immuni dalla venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò doveva destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di Eschilo, s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli condivideva il giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità dei due tragici più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto di vista storico e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane, a cura di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione.
[140]Hegel, Estetica , pp. 1612 - 1613
[141] Hegel, Estetica , p. 1555.
[142] Di Marco, Op. cit. , p. 217.
[143] Di Marco, Op. cit. , p. 218.
[144] Del 424 a. C.
[145] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo rimaneggiato successivamente dall’autore.
[146] Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si mascheravano... ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102).
Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo... Le maschere erano fatte di lino - talvolta anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione “realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit. , p. 95).
[147] M. Cacciari, Hamletica, p. 102.
[148] Del 458 a. C
[149] Del 409 a. C.
[150] Hegel, Estetica, p. 1618.
[151] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[152] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1443.
[153] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 112.
[154] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d j oujdei; " povqo" " (Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. Ndr.
[155] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.
[156] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113. .
[157] G. Guidorizzi, Op. cit. , p. XIV.
[158] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[159] Di Marco, Op. cit. , p. 129.
[160] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone: “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[161] Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[162] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.
[163] Di Goethe ovviamente ndr.
[164] Di F. Schiller, 1801 ndr.
[165] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[166] poiché il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno , I, 2.
[167] Personaggio di I masnadieri (1781) di Schiller.
[168]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.
[169] Trilogia di F. Schiller.
[170] . Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344
[171] Tentativo di autocritica (aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.
[172] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888 - 14, p. 229.
[173] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[174] Come Capanno, poi colpito dal fulmine di Zeus.
[175] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento “Nel 1909 Otto Rank - allora subiva la mia influenza - pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo Il mito della nscita dell’eroe. ”
[176] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, primo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, pp. 340 - 342. .
[177] E’ l’ultimo scritto di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi del resto incompiuto. Uscirono entrambi nel 1938. nota p. 26
[178] C. Darwin, The Descent of the Man (Londra 1871) vol. 2, pp. 362 sg. ; J. J. Atkinson, Primal Law, nel volume a cura di A. Lang, “Social Origins” (Londra 1903) pp. 220 sg.
[179] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, terzo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, p. 403.
[180] S. Freud, Op. cit. , p. 404.
[181] S. Freud, Op. cit. , p. 405.
[182] S. Freud, Op. cit. , p. 405.
[183] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 349
[184] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 350.
[185] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 353.
[186] Più avanti (Terzo saggio, p. 439) Freud ne dà un’interpretazione: “La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso”.
[187] S. Freud, Op. cit. , secondo saggio, p. 355.
[188] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 408.
[189] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 409.
[190] S. Freud, Op. cit. , terzo saggio, p. 410.
[191] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 39 sgg.
[192] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (del 1921) in Freud Opere, 1917 - 1923, p. 311.
[193] S. Freud, Opera e pagina citate sopra.
[194] S. Freud, , Op. cit. , p. 269.
[195] S. Freud, , Op. cit. , , p. 312.
[196]G. Orwell, 1984 , p. 142. Edizione inglese p. 139.
[197]G. Orwell, 1984, p. 134.
Nessun commento:
Posta un commento