lunedì 31 luglio 2023

Giri ciclistici nell’Ellade. III parte

Anti Rion
Secondo giorno 18 luglio 2023
Il traghetto è approdato a Patrasso con diverse ore di ritardo. Era troppo tardi per arrivare a Egion prima di notte. Sicché siamo giunti a Rion da dove parte il  ponte sul golfo di Corinto, lo abbiamo attraversato e abbiamo preso tre stanze in un albergo di
Anti Rion.

Ho caldeggiato questa soluzione perché la prima volta che scesi a Patrasso nel 1977, quando il ponte non c’era ma c’era Fulvio, salimmo su una barca che ci portò in quel borgo marino che ci sembrò un paradiso. Il ricordo  di Fulvio è aleggiato per tutto il percorso.
Procedendo sulla costa nord del golfo si passa per Galaxidion poi si arriva a Itea da dove si sale a Delfi, l’ombelico del mondo.
Dopo la cena con gli amici sedetti sul terrazzino della mia stanza e ricordai una notte stellata del viaggio del 1978 con Ifigenia.
 
La pedalata contro vento e la notte di Galaxidion dell’ agosto 1978
Il pomeriggio partimmo da Delfi scendendo a Itea, poi volgemmo le biciclette su S. Nicolas, il piccolo e ameno porto della baia di Crisa da dove si prende il traghetto per Egion. Il vento soffiava contro di noi. Per pedalare con efficacia contro quella forza ostile non bastano gambe e polmoni robusti; ci vogliono carattere, metodo, e anche intelligenza. E’ come trovare il modo di piacere a una donna che non sente attrazione immediata per te. Devi insegnarle a trovarti accettabile prima, poi gradevole, poi unico e meraviglioso. Non è impossibile. Pedalando contro vento è necessario trovare la posizione raccolta e il ritmo costante da opporre alle follia senza metodo delle folate. Ifigenia invece obbediva agli impulsi violenti e irregolari dei furibondi soffi contrari al nostro progresso: si lasciava deviare dalla linea diritta, rallentare, e talora, se la forza delle spinte regressive aumentava, persino fermare. Oppure sbagliava i cambi e pedalava scomposta disperdendo energie con rabbia furente anche contro di me che l’avevo portata su quella strada infernale: oscillava, sbandava, sbuffava, metteva un piede a terra, imprecava. Oppure seguiva visioni e miraggi: bramosa di porre termine alla sua folle fatica voleva imboccare ogni strada sterrata che menava sulla riva sassosa del mare, dove l’allucinata ragazza vedeva inesistenti traghetti dirigersi su immaginati villaggi. Dovevo contraddirla aspramente e sgridarla, o dissuaderla con dolci parole e dare l’esempio. Pensavo: “pedala come affronta la vita: col vento a favore procede spedita; se i soffi sono contrari perde coraggio, disperde le forze, si ferma, poi scivola indietro. Adesso ha bisogno di buoni successi. Altrimenti regredisce e si guasta”.
Provavo risentimento per quella debolezza mentale che voleva inceppare anche me e cavarmi le forze. Ma quando Ifigenia ottenne una sosta per un bagno che fece in mutande, e uscì dall’abbraccio marino con le membra perfette gocciolanti di acqua salata, e iridescenti nel sole, “me beato - pensai - per il dono che ho avuto dei tuoi anni migliori, creatura divina, venuta a illuminarmi la vita altrimenti tetra e priva del sommo conforto, Ifigenia ricordo dell’eterna bellezza celeste!”
  
Al tramonto ci fermammo in un borgo del golfo di Crisa. Galaxidion si chiama. Prendemmo una camera con letto matrimoniale e cenammo. La giornata ventosa e tormentata era finita in una notte calma, dolce e serena di ultima estate. Dopo cena andammo a sederci sulla riva del mare. Si vedevano cadere le stelle. Ifigenia temeva che il firmamento ne restasse sguarnito. Invece era sempre più ricco di fuochi. “Vedi tesoro - dissi - donando si acquista”. Anche il golfo di Crisa era pieno di luci. Sul mare si muovevano lenti i piccoli lumi delle barche uscite a pescare. Un gradino più sopra si vedevano le lampadine di Itea, più in alto quelle di Crisa, poi la luce santa di Delfi, la meta del nostro pellegrinaggio devoto. Due fari lontani, appena visibili, segnavano, forse, la duplice cima del sacro Parnaso; sopra c’era solo il cielo stellato. La via Lattea spiccava nel mezzo. Ifigenia ridendo disse che Galaxidion si chiama così per la Galassia che là si vede brillare come in nessun altro luogo. Bellina, rideva. Brillava, brillava anche lei. Pensavo ai suoi ventiquattro anni, quando la carne nitida e profumata le lievitava ancora addosso come una pasta preziosa. Eravamo contenti. Finalmente potevamo permetterci di stare in pace, di essere quasi felici. Da un locale notturno venivano le note di un valzer di Strauss, Storie del bosco viennese; dalla campagna alle spalle il tremulo verso dei grilli che perpetuo trema. Tutto questo non può essere soltanto caso e materia, dicemmo. Ci venne in mente la morte del lunatico re di Baviera amato da noi per la sua volontà di Bellezza e di Arte contro il mondo, sconciato, già allora, da industrie, commerci e cannoni. Ci sovvenne il nostro pellegrinaggio pasquale ai castelli teatrali del lunatico re sodomita sfuggito per qualche tempo al fuoco celeste.
Ricordavamo il cupo lago increspato dove un cigno segnava di bianco il punto della morte per acqua che Ludwig, prigioniero della canaglia, aveva cercato.
“In questi momenti di fuga, di memorie, di sogni, siamo due amanti felici - dissi - ma sull’arte e la vita oramai abbiamo opinioni diverse. E vogliamo vivere in modo diverso. Tu vuoi privilegiare l’istinto; io agli impulsi caotici antepongo un logos appassionato e commosso, ma anche ordinato e diretto a una meta precisa”. Ifigenia mi corresse: “Io privilegio l’intuizione geniale tesoro, non l’istinto bestiale. “Le intuizioni senza concetti sono cieche - pensai - e la bellezza senza intelligenza e volontà di bene può fare male”. Eravamo contenti che la notte stellata dopo le fatiche diurni ci avesse resi più tolleranti, più umani. A un tratto Ifigenia volle andare a dormire: la lunga lotta col vento implacabile me l’aveva stremata. Bellina.

L’accompagnai, ma davanti alla camera le chiesi il permesso di girare da solo nella notte odorosa. Volevo guardare ancora le luci sacre e annusare la brezza, che, profumata di mare e di pini, mi dava carezze quasi lascive sul corpo già beneficato dal sole.
“ Sì - mi dicevo - c’è piacere, bellezza e giustizia nel cosmo. C’è un creatore. Il re popolare e demente nella fredda, piovosa Baviera, nella sua reclusione dal mondo reale, dentro quei castelli pacchiani, circondato da servi avidi e perfidi, aveva perduto di vista il bene del cosmo. Non voglio forzare questa giovane donna a diventare diversa da quello che è, chiunque ella sia. Né posso impedirle di fare i suoi sbagli, se proprio ci tiene. Però mi piacerebbe vederla felice. Che diventasse se stessa. Adesso lei, eliminato il tanghero e presto anche me, vuole cercare da sola la strada che la conduca al successo. Spero che riesca a percorrerla tutta, senza fermarsi né deviare, anche se dovesse incontrarvi un fiero vento contrario”. Tornai alla camera. Entrai senza fare rumore. Ma Ifigenia era sveglia: mi aspettava con il volto illuminato dagli occhi ridenti. Un’espressione che non le vedevo da tempo. Facemmo l’amore più volte. Eravamo felici.  
 
Pesaro 31 luglio 2023 ore 17, 56

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Giri clistici nell’Ellade. II parte

Nel traghetto non abbiamo trovato una cabina libera e ci siamo adattati a dormire stesi per terra dentro un sacco a pelo per difenderci dal freddo mefitico dell’aria condizionata.
 Dopo la notte passata con tanta pietà, la mattina del 18 luglio le membra erano dolenti e il cervello mal riposato.
 

Seguito la contaminatio con il viaggio del 1978
Il sogno sul traghetto

La notte tra il 19 e il 20 agosto del 1978, mentre dormivamo nell’angusta cabina che solcava le onde dell’abisso salato, feci un sogno angoscioso.
Io e Ifigenia ci amavamo con passione impetuosa. A un tratto, dalla mia bocca uscirono schizzi di calce viva che in breve tempo corrosero gli occhi della ragazza lasciandole due buchi profondi fin dentro la testa. Ifigenia mi rimproverava con un singhiozzo; poi, senza ascoltare le mie invocazioni, indossato un mantello, si allontanava incamminandosi per una via deserta, sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano con fragore cattivo, si agitavano rabbiosamente e sembravano volere qualche cosa con furibonda violenza: infatti, a un tratto, si lanciarono addosso alla fanciulla già orbata e presero a beccarla sulla testa, nel volto, sulle piccole mani protese in un tentativo di vana difesa; altri si diedero a duellare squarciandosi i petti a vicenda, altri si laceravano il corpo da soli con il becco aguzzo, oppure scagliandosi contro pezzi acuminati di ferro. Dopo qualche minuto Ifigenia, non potendo difendersi dai colpi di quei rostri furenti, si mise a scappare con tutte le forze che le rimanevano; allora il mantello le cadde di dosso, e il suo splendidissimo corpo apparve più luminoso che mai sotto la testa sconciata da quelle bestie pazze e crudeli. La vedevo correre nuda, veloce, lontana dagli uccelli assassini e speravo che, perduta la testa, potesse salvare almeno il corpo splendente; ma ecco che, invece, la carne delle braccia tornite, del collo liscio, del florido seno, delle cosce morbide, profumate e lucenti, cominciò a liquefarsi, a gocciolare, non come un sudore acquoso, bensì come un grasso opaco, denso, biancastro che scivolava copiosamente nel suolo impregnandolo e fertilizzandolo. In poco tempo la polpa del corpo si ridusse a una povera buccia grinzosa, quindi venne annientata da quello struggimento crudele: dalle gocce cadute a terra però spuntarono piccole rose rosse, socchiuse da foglie lucenti, sorrette da gambi diritti e sottili, umide di fresca rugiada, illuminate da un sole mattutino e primaverile: nitide di verginale bellezza. Cercai di coglierne una per tenderla a Ifigenia e dirle: “Tu per me sei ancora simile a questa”. Ma il gambo era di ferro e non riuscivo a spezzarlo. Intanto la mia  
amante, ridotta allo scheletro solo, si era fermata in mezzo al giardino nato dalla sua carne versatasi completamente nel suolo. Finalmente rivolse la testa dalla mia parte e mi fissò con le occhiaie, manifestando immenso rimpianto delle sue membra liquefatte e del nostro amore sconciato. Io volevo avvicinarmi alla miseranda figura per consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare il povero teschio, con la sinistra indicavo il variopinto giardino nato dal suo struggimento; ma Ifigenia, prima che potessi toccarla, disse con un filo di voce: “Lascia perdere, amore. Non vedi che sono già morta?”

Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il Signore di Delfi, che, devoti, andavamo a pregare, mi aveva mandato una visione notturna dal contenuto latente facile da svelare: volevo la morte della mia compagna o per lo meno un suo rinnovamento. Così com’era non potevo più tollerarla. Mi posi gli occhiali sul volto e cominciai a scrivere il sogno mentre l’odiata-amata compagna dormiva ancora. Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi le lenti a contatto: a lei con gli occhiali non piacevo punto, e a me non piacerle sembrava il peccato più deprecabile: peggiore della stupidità, della volgarità e del crimine stesso. Infatti quando si svegliò e mi vide con gli occhi invetriati, intuì che non stavo annotando pensieri propizi. Mi guardò un momento, poi disse a bruciapelo che non avrebbe più fatto l’amore con me poiché le confondeva la mente.

 
Pesaro 31 luglio 2023 ore 17, 09 
giovanni ghiselli

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Giri clistici nell’Ellade. I parte

Che cosa ho imparato? Che siffatte fatiche vanno affrontate pure in vecchiaia finché si può. Tenersi sempre ben preparati a tali prove della volontà e della capacità di vivere. Ero con due amici, Maddalena e Alessandro, che sono stati anche miei allievi. Ora sono due adulti e l’insegnamento è più che mai reciproco. Abbiamo parlato e ascoltato a turni e a vicenda. Ho gareggiato con Alessandro in salita: fino alla sfida precedente  per tanti anni l’ho battuto, ma questa volta ha vinto lui. Onore al merito. Non mi sono avvilito. Quando perdo una gara non solo penso alla rivincita, ma anche a come controbilanciare l’insuccesso in un campo dove non funziono più del tutto bene, con un successo in un altro agone ancora davvero olimpico e adatto a me.
Mi cimenterò con la mia narrativa, non senza ottime speranze. So che non devo cedere come mi ha insegnato l’eroe - cedere nescius - il fatato Pelìde.
Ora scrivo un poco di diario di questa impresa della quale sono comunque fiero, dato che in novembre compirò 79 anni.
Gli dèi mi proteggono ancora.

I giorno
Il primo giorno abbiamo fatto i 63 km che separano Pesaro da Ancona per prendere il traghetto. Già durante questo percorso mi sono stancato perché Alessandro durante i suoi turni di apri-vento alternati con i miei “tirava” con grande forza. A Bologna, poi qui a Pesaro,  avevo fatto l’errore di allenarmi solo in salita pedalando con scarso impegno in pianura. Errore da non ripetere. L’ho pagato caro. Il fatto è che soltanto le salite, impervie per giunta, mi stimolano.
 
Mentre pedalavo contro vento mi venne il mente lo stesso tragitto verso il traghetto diretto a Patrasso percorso nell’agosto del 1981 con la giovane bella collega Ifigenia. Ne ricordavo i particolari.
Partimmo da Pesaro il 19 agosto alle sei di mattina, poiché dovevamo arrivare al porto di Ancona e iniziare le operazioni di imbarco per Patrasso non dopo le nove. Avevamo con noi, due piccoli zaini oltre le biciclette. Anche Ifigenia la bella si era adattata a girare come una zingara. Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però le condizioni emotive non erano sane né equilibrate tra loro. Pedalavamo sulla strada statale n. 16 tra Pesaro e Fano, io avanti lei dietro. A sinistra osservavo la costa adriatica, a destra il colle Ardizio, poi la terra del Montefeltro: la dolce e serena campagna raffigurata alle spalle di femmine umane, serene e armoniose anche loro, da quel grande amante del classico e delle donne che fu Raffaello urbinate. Dopo qualche chilometro, a fosso Sejore, mentre guardavo il sole che cercava di uscire dal mare, mi sembrò non ne avesse la forza: anzi, quando il suo svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, sembrò dovesse fermarsi così dimezzato: al posto dell’emisfero inferiore imprigionato nella distesa marina si vedeva riflessa nell’acqua l’immagine rossa della metà superiore. Mi fece l’impressione sinistra di un paralitico che passa il  tempo seduto in una poltrona tenendo sulle gambe coperte e insensibili un grande specchio per vedervi riflessa la faccia ancora bella e la testa fulvida di ricci lucenti, ultima testimonianza di tempi migliori, quando le gambe snelle e veloci al pari di ali, lo portavano dove voleva. Erano quasi le sette, quantunque legali. L’estate declinava pur troppo. Il sole finalmente riuscì a liberarsi dal mare fremente, colore del vino, ma la morte cupa e dolente della bella stagione era vicina. Non avevamo ancora parlato: era tempo di avviare almeno uno scambio di qualche battuta; lei procedeva alquanto immusonita: poteva essere solo assonnata, ma forse era anche scontenta di pedalare verso l’Ellade antica con uno che non le rivolgeva parole né sguardi. “Ifigenia - dissi con tono amichevole e volontà di farla partecipare alle mie osservazioni - guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco; non sembra un’atomica appena scoppiata, l’inizio forse della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge e tutto rinnova?”. Volevo significarle che speravo in una salutare rigenerazione tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita dall’idea apocalittica, mi guardò con rancore, fece un gesto di scongiuro triviale e disse: “Le tue fantasie catastrofiche copiate da Seneca, filosofo da strapazzo, d’ora in avanti tielle per te!”.
Zittito in malo modo, meditavo sul nostro fallimento attraversando Fano ancora un po’ addormentata. Superato l’arco di Augusto, pensavo alla sua bellezza ancora fulgida e trionfante.  

Pensavo un poco da pedante rimuginando i maestri della Stoà: “la magnificenza corporea scompagnata dal logos e dalla virtù sfiorisce presto e lascia solo vani rimpianti a chi, mentre la possedeva, sperava contro ragione di conquistare il mondo brandendola quale invincibile arma: Ifigenia, da quando, cambiati i modelli, rinnega con odio i miei insegnamenti, e ripiega sui tangheri, commette l’errore di attribuire alla sua venustà superba un valore eterno, assoluto e capace di farle raggiungere qualsiasi meta. Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo di mandorlo che il vento di aprile disfiora; è come il fiammeggiante papavero che il caldo di giugno scolora; è come il grano nitido che brilla nell’aria odorosa di un’umida sera di prima estate, finché la falce spietata lo miete e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la foglia che il primo temporale di luglio strapazza, stacca dal ramo e trascina in una fangosa pozzanghera. L’eterna devastazione del tempo risparmia soltanto i frutti dell’anima: il Bene che fai, l’Amore che dai, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che cerchi. Questa coscienza preziosa dei beni spirituali l’ho trovata attraverso la gioia e il dolore dei quasi tre anni vissuti con lei. Per me è stata la conquista più grande, eppure non riesco a comunicargliela. La prenderebbe come un giudizio teso a oscurare il suo splendore corporeo che invece io venero perché mi ha dato la prima spinta verso il ricordo della bellezza eterna”.

La feci passare davanti. Volevo esaminare il suo corpo in movimento per coglierne l’essenziale, l’universale, l’esemplarmente umano, e sottrarlo alla rovina del tempo irremeabile, all’annientamento dell’inesorabile morte, alle offese degli uomini ottusi, delle malattie voraci, dei dispiaceri crudeli.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le membra nel pedalare la bicicletta. Consideravo una per una le parti del corpo dove nel primo anno del nostro amore avevo visto qualcosa di sovrumano: un somatizzarsi dell’adorata luce solare. Poi quello splendore celeste si era offuscato, anche per colpa mia, e le belle membra erano diventate meno vibranti di gioia spirituale e divina; tuttavia umanamente erano ancora perfette. La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava soavemente sulle spalle forti e rotonde; gli occhi a mandorla, violacei, grandi e profondi nel volto dagli zigomi in luminoso rilievo, ogni tanto si volgevano indietro per controllare la mia tenuta al ritmo frequente delle sue gambe che spingevano i pedali con forza; quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli neri, sembravano laghi montani cinti da foreste ombrose, densi di misteri inquietanti. I seni sodi e cospicui sotto la maglietta leggera fendevano l’aria seguendo i movimenti dell’agile busto senza perdere nulla della loro compattezza rotonda; avrei voluto succhiargleli per trarne la forza di parlare alla creatura già mia con il suo stesso linguaggio che non comprendevo più, da quando nuovi crucci e dolori antichi le avevano torto la mente con la favella. La vita sottile connettendo con la sua cavità le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche belle appoggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né subivano deformazione alcuna, tanto erano sode e compatte: quando la giovane donna si alzava sui pedali per superare qualche breve salita o per contrastare le folate del vento contrario, la carne dei glutei, divinamente compatta dal vincolo dell’armonia, parzialmente visibile sotto i calzoncini azzurri e succinti, non faceva una piega. Quando tornava a pedalare seduta, usava soprattutto le cosce per imprimere energiche spinte al veicolo; allora la carne fiorente, in splendida copia sopra le ossa sottili, si tendeva con sano vigore abbronzandosi al sole alzatosi intanto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia armonizzava la tensione della coscia carnosa con il turgore del sodo polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa e concorde ai piccoli piedi calzati di rosse scarpette. La osservavo e con il pensiero le rivolgevo mute ma accorate parole: “Bella sei bella, sei l’idea stessa della Bellezza incarnata che voglio raffigurare prima che la tua carne si perda per sempre inghiottita dal tempo edace che tutto divora. Eppure tu non sei davvero Ifigenia, la fanciulla eroica che crea con forza valori morali e sociali. Piuttosto sei Elena di Troia che spinge i poeti a cantare la Bellezza della forma femminile perfetta. Non è nemesi soffrire tanti dolori per una donna del genere. Ma tu vuoi drammatizzarti da sola. Ora non parli con me perché temi che io disapprovi le parti non buone che vuoi comunque provare sul tuo palcoscenico. Forse hai ragione: in ogni caso faresti bene a indagare te stessa profondamente. Nei baratri cupi e limacciosi del tuo carattere però non dimenticare la luce, non affogare; dopo averli osservati, cerca di risalire. Facilis descensus Averno (…) sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/hoc opus, hic labor est
Voglio vederti riemergere trionfalmente quando avrai decifrato il codice arcano del tuo destino non comune. Ti voglio vedere felice”. Così arrivammo ad Ancona. Mangiammo un frutto dell’ultima estate, e, sempre senza parlare, salimmo sul traghetto greco.


Pesaro 31 luglio 2023 ore 11, 47

giovanni ghiselli

domenica 30 luglio 2023

Il mio libro III parte della presentazione.

 


 Dicevo la salute. Questa va mantenuta il più possibile,  più a lungo che si può. Invecchiare imparando sempre molte cose, come faceva Solone e praticando l’esercizio fisico.

 Del resto senza lesinarsi il tempo libero la scolhv, l’otium cum dignitate per dedicarsi alla riflessione di quanto si è fatto e si è imparato.

La razionalità è anche imitazione della natura: Cicerone:"quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus " (De Officiis , I, 1OO).

Seneca scrive a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.

Infatti:"Sequitur ratio naturam. Quid est ergo ratio? Naturae imitatio. Quod est summum hominis bonum? Ex naturae voluntate se gerere " .( Epistole a Lucilio , 66), la ragione allora segue la natura. Che cosa è la ragione? Imitazione della natura. Qual è il sommo bene dell'uomo? Comportarsi secondo la volontà della natura.

E’ dunque necessario anche il tempo del riposo, degli intervalli dai negotia  che occupano gran parte della nostre vita lavorativa.

Dobbiamo impegnarci molto in quello che facciamo, ma questo impegno  ha bisogno di intervalli : “:"Danda est tamen omnibus aliqua remissio"[1].

La ratio non deve mai essere essere spietata: non può annullare il sentimento che è comunque un elemento della nostra natura umana e un aspetto della stessa ragione. Ogni forma di u{bri~, di  prepotenza, di sconsiderata o demenziale dismisura, porta alla zoppia della nostra umanità.

La prepotenza fa crescere il tiranno- (u{bri~ futeuvei tuvrannon), la prepotenza/se è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede (Sofocle, Edipo re, vv.  873-878)

Il tiranno che si azzoppa menzionato sopra ci fa  venire in mente che il potere-kravto~- non è potenza- duvnami~ .

Nelle Baccanti di Euripide, Tiresia profetizza a Penteo, re di Tebe, il fatto che Dioniso verrà cooptato e accolto nell’ombelico del mondo, l’oracolo delfico su cui svettano le due cime del Parnaso

“Un giorno lo vedrai anche sulle rupi Delfiche                                            

saltare con le fiaccole sull’altopiano a due cime

agitando e scagliando il bacchico ramo,

grande per l’Ellade. Via Penteo, da’ retta a me:

non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini”. (vv. 306-  310).

Il potere non è potenza dunque -mh; to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein- come il sapere non è sapienza - to; sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti, 395).

Umanesimo è passare dal sapere, la congerie di date, dati e nomi, alla sapienza che potenzia la nostra natura umana.

La potenza e la sapienza accrescono e rendono più viva la vita, mentre il potere del tiranno e il sapere dell’erudito, dell’umbraticus doctor, possono mortificarla.

Le mie storie d’amore insegnano l’amore per le donne come umanesimo, quale amore per la vita. Umanesimo è sapere di essere umano, è amore per l’umanità che significa vivere creando sinergia con altri umani e aiutare chi ha bisogno di aiuto. Umanesimo è diventare davvero ciò che siamo, cioè uomini umani.

L’ espressione di umanesimo più efficace e sintetica è quella che il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo che  nell'Edipo a Colono dice al vecchio vagabondo cieco, incestuoso e parricida "e[xoid j ajnh;r w[n"(v.567), so di essere un uomo, per questo sono umano con te. La coscienza della propria umanità lo spinge ad aiutare l’uomo decaduto.

 Lo stesso Edipo prima della caduta, e ancora in auge, aveva detto che sarebbe spietato e disumano se non provasse compassione per i propri concittadini afflitti dal morbo (Sofocle, Edipo re, 12. -13).  

 

La principessa dei Feaci, la fanciulla Nausicaa, nel VI canto dell’Odissea (207-208) vuole  aiutare Odisseo giunto naufrago nell’isola di Scheria e  dice queste parole alle sue ancelle in fuga spaventate dall’aspetto dell’uomo sconciato dalla tempesta  : “  to;n nu`n crh; komevein: pro;~ ga;r Dio;~ eijsin a[pante~-xei`noiv te ptwcoiv te, dovsi~ d j ojlivgh te fivlh te”, dobbiamo prenderci cura di questo: da Zeus infatti vengono tutti gli stranieri e i poveri, e un dono pur piccolo è caro.

Le stesse parole dice Eumeo, il guardiano dei porci di Itaca, quando Odisseo gli si presenta travestito da mendicante irriconoscibile e il porcaio lo accoglie ospitalmente spiegandogli che non è suo costume maltrattare lo straniero (xei`non ajtimh`sai), nemmeno quando ne arriva uno kakivwn più malconcio di lui (Odissea, XIV, 57-59)  .

Nell’Antigone di Sofocle la pietosa sorella dice a Creonte che ha proibito la sepoltura di Polinice " ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore.

 

Che cosa c’entra tutto questo con il mio romanzo?

Ne cito solo alcune parole  per farlo comprendere

“Elena Si alzò dal letto e si diresse verso la porta. Allora capii. Capii di essere stato stupido, volgare e crudele; capii che quella creatura in attesa di un’altra creatura, non doveva subire ingiustizia, umiliazioni e dolori. Non da me. Avevo capito e sentivo che non vi è felicità grande senza morale profonda[2].

L’azione cattiva è pessima per chi l’ ha progettata e la compie[3].

Chi prepara il male a un altro, lo apparecchia a se stesso[4].

Ne avrei avuto rimorso per tutta la vita, forse anche oltre. E non solo per questo: io l’amavo, lei mi aveva reso migliore, e siccome in sua presenza mi vergognavo di essere ingiusto, mi avrebbe reso ancora migliore. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci sei tu amore mio. Mi alzai, le afferrai la mano sinistra e dissi: “Scusa, Elena, aspetta.  Ora devo parlare io a te. Ne ho bisogno. Ti prego”.

Ero andato vicino a infliggere ingiustizia a una donna che amavo ed era stata generosa con me. Mi fermai in tempo e le chiesi perdono.

 

Ho voluto significare che ho cercato di dare l’impronta dell’universale a diversi miei casi personali. Credo di esserci riuscito.

 Per oggi mi fermo qui.

Pesaro 31 luglio 2023 ore 17, 23 giovanni ghiselli

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[1] Quintiliano, Inst., I, 3, 8.

[2] Cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità. Verso il regno millenario.  “E sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda”.

[3] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v.266.

[4] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v. 265.  Seneca ribadisce questa legge nell’ Hercules furens:" quod quisque fecit, patitur: auctorem scelus repetit " (vv. 735-736), ciò che ciascuno ha fatto lo patisce: il delitto ricade sull'autore.

 

 

Il mio libro II parte della presentazione.


Si possono individuare parole chiave dentro il mio libro, epifaniche come certe giornate e alcni fatti della nostra vita: sofferenza e comprensione-pathos e mathos-per esempio, interdipendenti tra loro come sentimento e intelligenza. Me lo hanno insegnato i tragici greci (Eschilo, Agamennone 177 in primis)  e pure diversi altri autori da Menandro a Proust.

 

Il mio monumentum sarà un anche un tempio della cultura europea, poiché le esperienze più significatice sono state fiancheggiate dallo studio di ottimi autori. Gli atti avulsi dalla cultura sono insignificanti o criminali, più rozzi e cattivi del necessario, la cultura senza i fatti e atti di bellezza e di forza è più fiacca del necessario.

 

La bellezza è un’altra parola chiave: bellezza di donne e della natura prima di tutte le altre. Bellezza con semplicità come mi ha insegnato Tucidide. Semplicità quale complessità risolta.

 

Una parola chiave che può conternere la altre, verbum summum   è Eros, infatti omnia vincit amor [1].

Questo peraltro deve essere controllato dal Nou`~  che mette ordine nel caos.

 

Quindi la parola problema, in greco povblhma che significa ostacolo, impedimento gettato nel nostro cammino: dobbiamo superarlo per non essere fuorviati dalla nostra strada- ojdov~- deviando dal metodo che ciascuno deve trovare e percorrere metodicamente appunto.

 

 Le parole greche e latine vengono sempre tradotte e non sono sfoggi né segni di erudizione, bensì supporti della riflessioni su fatti della vita che compresi, conducono a una forma non mediocre di sapienza, la sofiva  che sa di vita appunto e produce e potenzia la vita. Questa viene umiliata, abbassata dai fallimenti e, viceversa, rallegrata, elevata dai successi.

Dai successi dobbiamo imparare il metodo per conseguirne altri, dagli insuccessi individuare le vie da evitare perché non si ripetano. In tutti i campi, a partire dai due più importanti: l’amore e il lavoro. Il metodo buono contiene intelligenza, creatività e disciplina.

Contano molto anche la salute e la fortuna.

 

 

Pesaro 30 luglio 2023 ore 10, 53- giovanni ghiselli

continua

 

 

 



[1]Virgilio, Bucolica X ,  69.

sabato 29 luglio 2023

Exegi monumentum.


 

Sono tornato a Persaro questa sera dopo 550 kilometri in bcicletta nel Peloponneso con discese e  salite pedalate persino nei 52, 2 gradi nella tappa Epidauro- Nauplion senza un lamento.

Ne racconterò le luci e le ombre.

Ora però devo occuparmi del mio romanzo prossino a uscire. Racconta un apprendistato avvenuto attraverso lo studio, l’amicizia e l’amore, in particolare l’amore dei classici e di tre donne dotate di spirito e di corpo. Invero hanno contribuito all’educazione dell’io narrante anche diversi amici. Ho scritto questa storia che non è solo quella di una persona ma può costituire un corso i filosofia morale la quale insegna come sia bene vivere secondo ragione e sentimento, logos e pathos e non senza mythos, associando apollineo e dionisiaco, introversione con estroversione, disciplina e sacrificio con stravaganza e fantasia.

Per questa sera mi fermo assai contento di avere ripreso i contatti con voi lettori. Domani continuerò a presentarvi il mio monumentum aere perennius. Ora devo fermami perché mi sono stancato molto e ho bisogno di riposo: due passi al mare, poi a letto.

Saluti e baci

Bologna 29 luglio 2030, ore 109, 45 giovanni ghiselli.

domenica 16 luglio 2023

Il debutto nell’Ellade. Mito e poesia.


Subito dopo il 20 agosto del 1976 tornai in Italia e ripresi a studiare dalla mattina alla sera i miei classici. In ottobre fui sistemato nel liceo Minghetti di Bologna dove il preside gentiluomo Piero Cazzani mi aiutò a imparare l’arte dell’educatore. Nei ritagli di tempo nei quali mi permettevo di non studiare, scampoli davvero esigui poiché volevo conquistare anche gli allievi di questo istituto dopo quelli del Rambaldi di Imola, cercavo una donna dotata di mente, dopo quella insoddisfacente con la pur carina Nefertiti palermitana,  e siccome a un’azione sbagliata ne succede spesso un’altra errata dalla parte opposta, entra in contatto con una collega che non mi attraeva abbastanza fisicamente.

Non potevo trasmetterle il desiderio che non sentivo. Su questo le donne non si sbagliano: del resto simulare il pathos erotico è quasi impossibile, del tutto impossibile, come fingere l’erezione benedetta da Priapo.

Un dialogo c’era tra noi, ma questo non toccava mai la sostanza dei problemi né arrivava al fondo degli argomenti, come succede quando si parlano due giovani in cerca di quell’amore che tra loro non c’è. Così in primavera smettemmo di frequentarci, e io nel dolore compresi che l’attrazione dei corpi non è meno importante di quella spirituale.

Ci sono due tipi di imbecilli: l’uno dice che la bellezza è tutto, l’altra che è niente. Io dico che non è poco, anzi è molto ma non è tutto. 

 

Nel Simposio di Platone, Diotima, insegna a Socrate che Amore  è la tendenza a possedere il bene per sempre (206 a) e vuole la procreazione nel bello secondo l'anima e secondo il corpo:"tovko" ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th;n yuchvn" ( 206 b).

 

Nel luglio del 1977  venne a trovarmi a Bologna Nefertiti. Facemmo l’amore, poi ripartì lasciandomi senza alcun rimpianto. Mi piaceva ma avevamo ben poco da dirci “Io a questo punto mi imbarco”, mi dissi.

Sicché salìi in bicicletta e mi diressi verso il porto di Ancona per imbarcarmi verso la Grecia. Era la prima volta che andavo nell’Ellade amata.

Ero con Fulvio, diventato il mio migliore amico, lo spirito dei viaggi che facevamo insieme, l’occhio della via che ora mi manca-poqevw ojfqalmo;n  th`" oJdou`.  

Quel debutto nell’Ellade invero non andò benissimo: a San Benedetto del Tronto caddi dalla bicicletta urtando con la ruota anteriore quella posteriore di Fulvio. Caddi, sbattei il  petto sul duro selciato e mi ruppi una costola. Proseguìi tra dolori rabbrividenti fino a Termoli dove andai in ospedale, dove i medici mi diedero dell’invasato e mi convinsero a lasciare la bici. Proseguìi con mezzi pubblici. Vedevo Fulvio la sera

Invalido com’ero,  guardavo con invidia e ammirazione i balestrucci sfrecciare nel cielo e l’amico che arrivava in albergo dopo ore e ore di bicicletta, beato lui.

Nell’agosto del 1978 dopo l’esame di maturità ripartìì in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio delle famiglie borghesi emiliane: gente civile, per carità, ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Il mio reperto doveva essere   quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle persone ma è molto più forte e significativa di quanto è visibile ai più.

 

Il 9 agosto  salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali non avevo argomenti comuni: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen ricordati più volte. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.

Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti  solcati dal veicolo marino.  Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua al vento sonoro.

Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.

Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto ad Andros di presentarmi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo. Come facevano i consumisti di Debrecen la sera che corsi via per andare  a trovare Elena santa.

Dopo due giorni passati con tanta noia volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni, pieni di luce, promesse e speranze.

Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  i raggi del sole danzare tripudi  vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano gli innumerevoli  cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di  moltiplicare i sorrisi del dio che nutre la vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso.

Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel  paradiso così ben fatto dall’artista divino.

 Assaporavo  gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.

Il mondo era bello, variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.

Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, maturata precocemente dal calore che favorisce la vita.

Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente santa. 

Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano alla Mente dell’universo; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.

 

Bologna 16  luglio 2023  giovanni ghiselli

p. s.

ho riveduto questo racconto come viatico per il viaggio che intraprenderò domani con Maddalena e Alessandro

 

 

 La Grecia in bicicletta estate 1978 II parte

Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. I tre ceffi feroci. Agamennone e Ifigenia.

La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide  e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo fondo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre zolle nere a imbiancarsi di luce.

Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del  destino, quello che solo era, ed è,  il mio.

 

Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai suoni rumorosi e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali osceni per dare sfogo alle loro mal protese passioni. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della volgare bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.

 

Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era possibile trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della dea casta:  Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzare le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo e pur seduttore seriale di femmine umane, alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente inferocire dalla fame e da un addestramento omicida  sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di  carne e di sangue. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano denti lunghi e forti da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato. Giunto sul crinale della morte  correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe vive costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.

 Pedalavo con tutta la forza coltivata  fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino, sullo Stelvio da Bormio e da Prato, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imparato  che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque. Pedavavo sulla mia sorte  come sul filo di un rasoio.

 Finalmente mi trassi in salvo dai morsi  dei tre maledetti ceffi bestiali, i maledetti cani infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte.

Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliorava il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano la partenza dall’Aulide. Ricordavo con memoria incorrotta, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo aveva chiesto al capo supremo, il gran duce dei Greci.

Quindi mi identificavo con Agamennone cercando di cambiare il destino: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi padre. In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire alla parte assegnata dal fato2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata.

 

Bologna 16 luglio  2023 ore 17, 10. giovanni ghiselli

 

Note

[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).

2 Cfr. Eschilo,  Prometeo incatenato, 518

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[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).

2Cfr. Eschilo,  Prometeo incatenato, 518

 

T. Mann. I Buddenbrook. 3. Affari e matrimoni

T. Mann I Buddenbrook.
 Parte II capitolo 1. Affari e matrimoni
 
Siamo verso la metà di aprile del 1838 con una primavera precoce. Una   domenica mattina alle nove, c’era un sole brillante e alcune vocine di uccelli si davano risposte argute nell’aria pregna di aromi freschi. Insomma c’è un’atmosfera edenica. Il console scriveva che alle 6 di mattina la moglie Elisabeth nata Kröger aveva dato alla luce una bambina cui al santo battesimo sarà imposto il nome di Clara. Era nata lievemente prematura tra forti dolori della madre. Il console scriveva parole piene di pietas e devozione . “Sì, o Signore, voglio cantare le tue lodi in eterno!.
Pensava di essere stato protetto diverse volte quando da ragazzo aveva rischiato di morire per un incidente o una malattia.
Ma l’autore nota una crepa in questa soddisfazione: “Per essere sinceri, quell’unione non era stata proprio quello che si dice un matrimonio d’amore. Suo padre gli aveva battuto una mano sulla spalla e aveva richiamato la sua attenzione sulla figlia del ricco Kröger la quale portava alla Ditta una dote cospicua; lui era stato cordialmente d’accordo e, da allora, aveva venerato sua moglie come la compagna affidatagli da Dio”.
 Affari e religione si conciliano nell’etica protestante.
Il console leggeva delle pagine manoscritte con la storia della famiglia. Suo padre, Johann, aveva amato la prima moglie Josephine per un anno dopo il quale lei era morta di parto mettendo al mondo Gotthold. E il padre aveva visto in questo primo figlio l’infame distruttore della sua felicità. Si vede subito che in questo gevno~ ci sono dei tarli. In seguito il vecchio patriarca aveva sposato Antoinette  Duchamps figlia di amburghesi ricchi e cospicui. I due erano vissuti con pieno rispetto e reciproche attenzioni.
Il padre dell’attuale patriarca e nonno del console era venuto a Lubecca e aveva fondato il loro commercio di granaglie.
Tra le esortazioni lasciate ai discendenti emergevano queste parole in grosse lettere gotiche accuratamente miniate e incorniciate: “ Figlio mio, dedicati con ardore agli affari durante il giorno, ma combina soltanto quelli che ti consentano di dormire tranquillamente la notte” p. 35.
A parer mio qui c’è una contraddizione insolubile: se si combinano affari puliti, difficilmente questi saranno affari vantaggiosi poiché per avere successo nel mondo non limpido degli affari è necessario il cinismo; se si ricava grande profitto dagli affari, questi non possono essere puliti.
 Le contraddizioni  non consentono sonni tranquilli.
Nella cartella di cuoio c’era tanto altro: da polizze a poesie a lettere d’affari. Si bene calculum ponas, negotium ubique est.
 Quindi il console andò nella stanza della moglie con la bambina. Il nonno della piccola disse che assomigliava alla nonna che si schermì “modestamente” dicendo che era prematuro parlare di somiglianze. Eppure è probabile che una bambina assomigli al padre e che questo assomigli alla propria madre, quindi la bambina alla nonna paterna. Antoinette quindi ricorda al figlio l’ora della chiesa e questo dice che aspettava i ragazzi i quali entrarono in punta di piedi per riguardo alla sorellina e perché prima di entrare in chiesa ci vuole un poco di raccoglimento. Quindi baciarono la mamma  e si avviarono alla chiesa con il babbo che aveva preso il libro delle preghiere.
Questa è una borghesia dal modus vivendi permeato di buona educazione e rispetto almeno all’interno del gevno~, tra i membri della famiglia.
Tuttavia  ciascuno di loro non sente di dovere rispetto a se stesso: il padre, il nonno, poi i figli obbedienti, Tony in primis, mettono l’interesse della ditta davanti al proprio e sposano, si ammogliano o maritano con persone che non amano,  però sono da sposare in quanto ricche o credute tali. La considerazione del conveniunt mores ,i caratteri si confanno, combaciano, è posposta alla vera o presunta convenienza affaristica. Del resto il matrimonio è anche un contratto e non dovrebbe essere svantaggioso. A quello che ho visto non poche volte lo è, almeno nei termini della felicità.
Fine del capitolo II, 1.

capitolo seguente: Giovanni Ghiselli: T. Mann. I Buddenbrook. 4
 
Bologna 16 luglio 2023 
giovanni ghiselli

p. s.
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La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...