NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 6 settembre 2024

Annibale situazione politica, economica e militare di Stati, Staterelli, e città Stato.

Mommsen Politica interna

A Cartagine e successivamente a Roma, il potere si concentrava  nelle mani di poche famiglie di mercanti-senatori: viene meno la subordinazione dell’individuo allo Stato. La plebe cittadina vendeva i voti alle famiglie ricche che dominavano magistrature e senato. Era  praticata dall’alto un’opera di corruzione sistematica della plebe la quale veniva sfamata e divertita con spettacoli immondi: panem et circenses.

 

Catone il censore (nel 184)  che rappresentava l’opposizione a tale diceva che i cittadini non ascoltavano i buoni consigli poiché il ventre non ha orecchie. Erano gli appaltatori di imposte e gli usurai che succhiavano il sangue dei provinciali e compravano i campi e i voti dei contadini rovinati. Gli Scipioni gratificavano i soldati con il denaro dello Stato e si creavano un seguito personale.

Catone rappresentava il ceto medio rurale e si opponeva a questa nuova classe dirigente elleno-cosmopolita. Eletto alla censura nel 184 cercò di opporsi alle famiglie degli Scipioni e dei Flaminini che emergevano facendo politiche personali, seducendo la plebe con i cereali e contando su legioni fedeli alla loro persona prima che allo Stato. Il prezzo del grano divenne incredibilmente basso per favorire i proletari della capitale a spese dei contadini italici. A prezzi ancora più bassi era venduto il frumento africano, spagnolo e siciliano. Anzi, con l’estendersi delle conquiste, il grano italico non ebbe più mercato. La politica demagogica degli Scipioni e dei Flaminini individuava la felicità del popolo nel prezzo basso del grano. Così sparivano i contadini con la loro frugalità e moralità e subentravano gli schiavi con la loro morale rovesciata.

Acta retro cuncta: Il bene non sussiste da nessuna parte e l'ordine è stato rovesciato: nell’Oedipus  la profetessa Manto, figlia di Tiresia, afferma:" Mutatus ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta” ( vv. 366-367) , è mutato l'ordine naturale e nulla si trova al suo posto; ma tutto è invertito.

Nell'Agamennone l'ombra di Tieste, alludendo al suo rapporto incestuoso con la figlia, dice; "versa natura est retro "(v. 34) , la natura è stata rivoltata. La regressione è segno di caos e pazzia.

Nel mondo carnevalesco e capovolto degli schiavi plautini[1] al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la santa protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.

Appiano nel secondo libro delle Guerre civili (XIV, 13-17) spiega l’errore dei cesaricidi: “pensavano che il popolo romano fosse ancora quello dei tempi in cui l’antico Bruto aveva cacciato i re; e non capivano ch’era assurdo supporre la plebe desiderosa di libertà, e anche, nello stesso tempo, di largizioni. Queste, sì, potevano essere gradite alla plebe: perché il governo era da tempo corrotto…La frumentazione, che solo a Roma vien data ai poveri, attira lì gli oziosi e i mendichi e i lestofanti dell’Italia…Alla protesta contro il parassitismo della plebe romana, Appiano ha aggiunto la protesta contro l’avvicinamento, nell’aspetto esteriore, di liberi e liberti e schiavi” (Mazzarino, p. 189).

Comunque Appiano procurator Augustorum sotto Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169) racconta la lotta di classe con maggiore sensibilità di Polibio che interpreta l’avanzata delle masse come mero peggioramento della costituzione, come un fatale cambiamento verso il peggio (ejpi; to; cei'ron, VI libro).

 

Leopardi dice che Cicerone con le Filippiche voleva "persuadere i Romani a operare illusamente", ma "Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria...eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone"[2].

Oggi la violenza di moda che inferocisce le persone non è data dalla ragione ma dal pessimo esempio delle guerre.

Parlare male senza lasciarsi capire, altra violenza di moda, dipende dall’imitazione dei rumori della guerra.

 

 

 I proprietari dei grandi fondi si salvarono con il bestiame o mutando la coltivazione. La pianura padana riforniva mezza Italia di maiali e prosciutto. La cultura della vite richiedeva molta mano d’opera e se la poteva permettere solo chi avesse avuto schiavi e capitale, anche perché per un paio di anni la vite non rende. I padroni latifondisti assenteisti lasciavano il latifondo a pascolo e molti terreni arativi non venivano più coltivati. Quelli che sfruttavano l’agro pubblico, incerti sulla durata dell’occupazione, erano restii a investire capitali in piantagioni di viti e di olivi e lo lasciavano a pascolo. I grandi ricchi sono l’argentarius, il banchiere, e il fenerator, l’usuraio. Questi prendevano in appalto la riscossione delle imposte, le forniture, le costruzioni. Alcuni schiavi ereditavano il patrimonio del padrone, per il valore o per i vizi, ne prendevano il posto e snaturavano la cultura italica. Al’aristocrazia politica segue quella della borsa rappresentata dal’ordine equestre e la lotta tra i due ceti –cavalieri- senatori- riempie il secolo successivo. La roccaforte dell’economia nazionale era il traffico del denaro. Già allora.

Catone dice che l’usuraio anticamente subiva pene doppie rispetto a quelle del ladro e Plauto nel Curculio che gli usurai (f(a)eneratōres) sono della stessa stoffa dei lenoni (lenones): parissimi estis hibus, v. 506 (ai lenoni).

Anzi sono peggiori: Hi saltem in occultis locis prostant (fanno sudici affari), vos in foro ipso (v. 507), vos faenori, hi male suadendo et lustris lacerant homines (508).  Lustrum qui significa postribolo.

Quanto agli argentarii: habent hunc morem plerique argentarii,/ut alius alium poscant, reddant nemini,/pugnis rem solvant, siquis poscat clarius” (377-379), chiedono a questo e a quello, non rendono a nessuno, e se qualcuno chiede troppo apertamente, risolvono la cosa a pugni.

Invece, secondo Catone, l’agricoltore è esente dai cattivi pensieri e che le sue ricchezze derivavano dal lavoro e dalla frugalità. La guerra annibalica aveva rovinato l’Italia meridionale, particolarmente Capua e Taranto: più che Annibale però furono i capitalisti di Roma a trasformare in peggio, cioè a indebolire, la popolazione italica. Anche la religione cambia con l’introduzione dei culti della Magna Mater (204 a. C.) e di Dioniso (186 a. C.).

Cambiava il costume: le donne dissolute e gli schiavi favoriti distoglievano dal matrimonio. Catone lamenta l’emancipazione della donna e il lusso che si diffondeva negli abiti e nelle mense.


Benefica era stata la paura dei Cartaginesi

 

Metus hostilis Sallustio e Polibio (e[xwqen koino;~ fovbo~).

Il concetto della paura opportuna all'ordine si trova nel Bellum Iugurthinum[3] di Sallustio:" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessēre" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.

“La teoria di una funzione benefica del pericolo esterno (che riassumiamo in genere sotto la formula sallustiana del metus hostilis, il “timore del nemico”: Bellum Iugurthinum 41, 2) è già presente in nuce in Polibio, benché non pienamente sviluppata, né obiettivamente così urgente (nel terzo quarto del II secolo a. C.) come sarà in Posidonio e in Sallustio, nelle tempeste civili della Roma del I secolo. Ma quando, liberatisi dai pericoli esterni, i cittadini di uno stato a costituzione mista vivono nella prosperità, insorgono dall’interno motivi di deterioramento e disgregazione, che tuttavia la costituzione mista possiede in sé i meccanismi per frenare, riportando nell’ordine costituito l’elemento che tende a prevaricare”[4].  Si può pensare all’implosione dell’Unione Sovietica e all’esplosione del capitalismo incontrollato.

 

Polibio  afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn…”(6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle.

Segue la parte tradotta da Musti: quando i cittadini, liberi dai pericoli esterni, si trovano a vivere nella prosperità che deriva dai successi, e mentre godono di questo benessere, corrotti dall’adulazione e dall’ozio, si volgono alla violenza e all’arroganza, cosa che succede spesso (trevpwntai pro;~ u{brin kai; pro;~ uJperhfanivan, o{ dh; filei' givnesqai), allora soprattutto è possibile vedere come lo Stato trovi un rimedio all’interno della costituzione (Polibio, 6, 18, 5-6). 

 


 

Dunque avversione al lavoro, frequentare bettole, i matrimoni quali affari, l’amicizia negotiatio.

Nella commedia romana che imita  quella di Menandro ed è vuota di passione e poesia, il fine dei personaggi è sposarsi con un buon partito. Non va sempre così invero: non c’è sempre tale intenzione. Cfr. Megadoro nell’Aulularia.

 Il maggior difetto della commedia non è l’oscenità che Plauto aggiunge ai modelli greci ma “lo spaventoso vuoto della vita, in cui le sole oasi sono l’amoreggiare e  l’ubriacarsi” E ciò che “in qualche maniera somiglia all’entusiasmo, si trova soltanto nei ribaldi” ( Mommsen, IV, p. 233).

Una commedia che glorifica la crapula è un paradigma di demoralizzazione. Il grande corruttore fu Euripide secondo Nietzsche. Ma “la letteratura latina sta alla greca come un’aranciera della Germania sta a una selva d’aranci della Sicilia” (p. 285).  I Romani utilizzarono Euripide e Menandro perché la loro poesia ha carattere cosmopolita; lasciarono invece da parte;  Sofocle, e persino Aristofane per il carattere nazionale della poesia di questi drammaturghi (p. 290).

Fine Mommsen

 

 Nella Vita di Arato (49-50) Plutarco racconta che Filippo V aveva spinto la plebe di Messene a uccidere duecento cittadini cospicui, poi prende la rocca di Corinto e potrebbe afferrare il toro per le due corna come gli consiglia Demetrio di Faro, cioè dominare il Peloponneso attraverso le due rocche, invece poco dopo le abbandona. Polibio racconta che mentre Filippo sacrificava a Messene, Demetrio di Faro gli aveva detto: eJkatevrwn tw'n keravtwn kratw'n movnw~ a]n uJpoceivrion e[coi~ ton bou'n, aijnittovmeno~ ta; me;n kevrata to;n j Iqwmavtan kai; to;n j Akrokovrinqon, th;n de; Pelopovnnhson to;n bou'n” (7, 12, 3). Lo diceva per enigmi- aijnivttw.

Stava sacrificando sulla rocca di Messene.

Arāto invece gli consigliò la lealtà: di conquistare Messene cwriv~tou' paraspondh'sai Messhnivou~ (6) senza violare i patti con i Messeni. Filippo era portato a violare i patti, ma diede retta ad Aràto che lo sconsigliava anche di combattere i Romani. Arāto era lo stratego della lega Achea dal 245 al 212. Scrisse Memorie che arrivavano al 221.

Arato nel 243 prese Corinto, nel 239 si alleò con gli Etoli contro la Macedonia, poi tornò ad  allearsi con la Macedonia contro Cleomene III (Sellasia 222).

 Muore nel 213, fatto avvelenare da Filippo.

  Polibio dice che  Filippo V era il beniamino dei Greci finché seguì i consigli di Arato, poi divenne un tiranno odioso e crudele quando si fece consigliare dal perfido Demetrio.

Comunque Messene passò all’alleanza etolica contro Filippo.. Nel 214 Filippo assedia Apollonia (Epiro) con i suoi lembi, ma il pretore Levino intervenne e Filippo fuggì prope seminudus, militi quoque, nedum regi, vix decōro habitu. Tornò  in Macedonia (Livio, 24, 40). Gli Achei suoi alleati non lo aiutavano poiché ne temevano il potenziamento. Nel 211, dopo la caduta di Siracusa, gli Etoli si alleano con i Romani ed è la prima alleanza di Greci con Romani contro Greci. I patti non furono inconcludenti come quelli tra Filippo e Annibale. I Romani avrebbero mandato 25 navi agli Etoli che dovevano attaccare Filippo. In cambio avrebbero avuto l’Acarnania.

Amici degli Etoli erano Elei, Spartani e Messeni.

Amici dei Romani, il re degli Illiri Scerdilaida e Attalo I di Pergamo il quale nel 214 aveva sconfitto i Galli e aveva tolto ai Seleucidi parte dell’Asia minore. Con Attalo I (241-197) simpatizzavano i Tolomei, con Filippo i Seleucidi. I Romani conquistarono l’isola di Egina che fu data alla lega etolica, mentre si tenevano il bottino. Fecero molti schiavi. Gli Ateniesi non reagirono. Avevano perduto ogni idealità tranne quella del benessere e adulavano le varie potenze. Gli Spartani parteggiavano per i Romani: essi avversavano ogni tentativo di unità ellenica, anche peloponnesiaca da quando non potevano più costituirla a loro profitto. Nel 209 Filippo sconfisse gli Etoli a Lamia (golfo Maliaco, Termopili), quindi li sconfisse alle Termopili. Per terra egli era superiore ma il mare Egeo era dominato dalla flotta romana e da quella di Pergamo.

Un arcade, Filopemene di Mantinea nel 209 riformò l’esercito della lega achea. Polibio lo chiama l’ultimo dei Greci.

 

Gli attribuisce un discorso che invitava i soldati a curare l’armatura, non l’abbigliamento. Infatti la ricercatezza nel vestire si addice alle donne, nemmeno a quelle troppo per bene, mentre gli uomini di valore curano la magnificenza e la distinzione della propria armatura (Polibio, 11, 9, 7).

Machiavelli ricorda che Filopemene “principe delli Achei…non pensava mai se non a’ modi della guerra” (14).

In tre modi, afferma Polibio, si acquista competenza nell’arte del comando: leggendo le storie, ascoltando gli esperti, facendo esperienza (11, 8, 1).

Nel 207 Filopemene fu eletto stratego della lega Achea e riuscì a battere gli Spartani del tiranno Macanida a Mantinea. Fu l’ultima battaglia combattuta da soli Greci (Polibio, 11, 1-18). La lega Achea divenne una discreta potenza consapevole della sua forza. I Romani nel 207 si ritirarono dall’Egeo per l’imminenza della spedizione di Asdrubale che costituì lo sforzo supremo dei Barcidi. Filippo ne approfittò per cacciare gli Etoli dalla Tessaliotide e impadronirsi di Farsalo. Nel 206 ci fu la pace tra Filippo e gli Etòli che conservavano il primato sull’anfizionia delfica. Questa era la loro forza. Intanto Annibale era oramai chiuso nel Bruzio e non poteva più essere aiutato.

Si arrivò alla pace di Fenice tra Filippo e i Romani (205, Epiro). Apollonia ed Epidamno restavano a Roma. Filippo otteneva Lisso in Illiria e l’Atintania (Epiro, settentrionale, bacino del fiume Aoo). Adesso i Romani avevano piena libertà d’azione per dare ad Annibale il colpo di grazia.

Il re Filippo firmò il trattato a nome degli alleati Achei, Epiroti, Tessali, Locresi.

Alleati dei Romani erano Attalo, gli Illiri, Sparta, Elei, Messeni e Atene.

Con la pace di Fenice, Roma assumeva la tutela del particolarismo greco, come aveva fatto la Persia con la pace di Antalcida (pace del re) nel 386. L’unità greca era di nuovo inattuabile. La freddezza dei Romani verso gli Etoli toglieva agli Ateniesi ogni intralcio a una buona intesa con Roma.

Filopemene nel 183 fu fatto prigioniero e ucciso dai Messeni.

Filopemene, pur nell’alleanza con Roma, mirava a salvaguardare l’autonomia degli Stati greci, una politica di “resistenza passiva”. Polibio da ipparco seguirà questa politica e diventerà sospetto ai Romani che dopo Pidna (168) lo deporteranno.

 

Pesaro 6 settembre 2024 ore 17, 12 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.

[2]Zibaldone , 22-23.

[3] Del 40 ca.

[4] D. Musti (a cura di) Polibio, Storie, vol. primo, p. 51

giovedì 8 marzo 2012

Lo sviluppo e la civiltà  antiumana - di Giovanni Ghiselli



Al presidente della
Repubblica sta a cuore “garantire lo sviluppo” e, ossimorica-mente, eliminare
la violenza. Credo che sia invece necessario opporsi al feroce Leviatano dello
sviluppo industriale che violenta la natura, reagire alla fede maligna nella crescita
ipertrofica, tumorale dei consumi, contrastare l’imperialismo guerrafondaio e
nemico dell’uomo.









A questi mali dobbiamo
contrapporrre l’intelligenza e la volontà del progresso, ossia di una crescita
in termini morali e umani, mettendo davanti a ogni altra cosa la felicità di
tutti gli uomini. Infatti gli interessi dei banchieri, dei finanzieri, delle
multinazionali non coincidono con quelli  degli uomini umani.


I poveri dell’Africa,
dell’Asia e ora anche dell’Europa e della nostra Italia, forse la parte
migliore, certo la maggiore dell’umanità.


 Posso fornire molte testimonianze nobili,
antiche e moderne, a sostegno di questo mio credo.


Partiamo dalle moderne, da
quella assai nota di Pasolini che ha pagato con la propria vita le denunce
rivolte alle mafie del potere.


" E' in corso
nel nostro paese…una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno
avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la
televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi:
sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso
culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di
spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio
culturale per due terzi almeno degli italiani"[1].


Questa nostra
epoca di regresso culturale e di odio diffuso tra gli uomini, ricorda l’età del
ferro di Esiodo, l’era della compiuta peccaminosità, quando nel mondo regnava
la violenza.


“Abbiamo
bisogno di un concetto più ricco e complesso dello sviluppo, che sia nello
stesso tempo materiale, intellettuale, affettivo, morale…Il XX secolo non è
uscito dall’età del ferro planetaria, vi è sprofondato”
[2].


Durante
l’età del ferro non c’era niente di buono e bello: nemmeno la giovinezza: i
bambini nascevano con le tempie bianche, e, appena potevano, picchiavano i
genitori. “Essi disprezzeranno i genitori, appena cominceranno a
invecchiare..,usando il diritto del più forte”
[3].  


“L’umanesimo non dovrebbe più essere portavoce
dell’orgogliosa volontà di dominare l’Universo. Diviene essenzialmente quello
della solidarietà fra umani”
[4]. Umanesimo è, infatti,
amore per l’umanità.


Il Galileo di Brecht, nell'ultima scena del
dramma, afferma il dovere morale di rendere il sapere funzionale al bene
dell'umanità:"Che scopo si prefigge il nostro lavoro? Non credo che la
scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare le fatiche
dell'esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione
dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza
può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di
nuovi triboli per l'uomo".


Ma torniamo alle fonti della nostra cultura
e della nostra civiltà.


Il quinto canto dell’Odissea è quello della zattera di Ulisse ( jOdussevw~ scediva). 
L’eroe omerico, l’eroe della curiosità e della conoscenza, costruisce
con le proprie mani, e i pochi attrezzi fornitigli da Calipso, una larga
zattera con tanto di timone e vela: “e lui fabbricò bene anche quella” (v. 259).


I versi di Omero indugiano nella
descrizione degli strumenti e dell’uso che sanno farne le abili mani
dell’Itacese. Gli oggetti sono maneggiati con perizia per tre giorni, fino al
compimento dell’opera.  


Tolstoj “notò che, nei poemi omerici, perfino la
minuta descrizione di un vaso di bronzo o di un particolare tipo di zattera
irradia una vitalità che non ha eguali nella letteratura moderna…Hegel si chiedeva se il modo di produzione
semi-industriale e industriale non avesse reso gli uomini estranei agli
attrezzi, agli strumenti e alle altre suppellettili della loro vita. E'
un'ipotesi molto acuta, su cui insiste Lukács. Ma quale che sia la ragione
storica, Tolstoj torna a misurare la realtà esterna con una sorta di immediata
consanguineità. Nel suo mondo, come in quello di Omero, i berretti degli uomini
devono il loro senso, e la loro inclusione in un'opera d'arte, al fatto di
ricoprire le teste dei medesimi"[5].


Leggiamo alcune parole dell'Estetica  di Hegel:" Ciò
di cui l'uomo ha bisogno per la vita esterna-casa e corte, una tenda, una
seggiola, un letto, la spada, la lancia, la nave su cui attraversa il mare, il
carro che lo porta in battaglia, il cuocere e arrostire i cibi, l'abbattere la
preda, il mangiare e bere-niente di tutto ciò deve essere divenuto per lui
soltanto uno strumento morto, ma egli vi si deve sentire vivo con tutta la sua
sensibilità, con tutto se stesso, e quindi deve dare a quel che è in sé esterno
un'impronta individuale animata umanamente, collegandolo strettamente con
l'individuo umano"[6].


E’ la cosa dunque deve avere l’impronta dell’uomo,  non viceversa.


Dopo la zattera, altro oggetto dell’Odissea fatto a mano, dalle mani di un
principe, è il letto. In alcune tragedie di Euripide il letto è il mobile più
importante della casa: Alcesti in punto di morte gli parla e lo bacia prima di
morire[7]. Nel poema di Virgilio, Didone, prima di uccidersi
preme le labbra sul letto che conserva l’impronta sua e quella di Enea[8].


Nell’Odissea
il letto, quello che Penelope chiama “il nostro letto”[9], è il segno certo di riconoscimento tra i due sposi,
dopo venti anni che non si vedevano.


“Il letto racchiude tutti gli aspetti dell’esistenza
di Ulisse: il rapporto religioso con Atena, perché egli l’ha lavorato
nell’ulivo: l’identità, l’ostinata irremovibilità del carattere: ricorda il
matrimonio con Penelope, la fecondità della moglie, la casa cresciutagli
intorno, il suo potere di re; fonda natura e cultura, le radici ancora vive e
l’opera delle sue mani artigiane. Il letto è il “grande segno” segreto, che
soltanto lui, Penelope e un’ancella conoscono. Forse è sfuggito persino agli
dèi mascherati che spiano le sue vicende. Ulisse aveva conosciuto un altro
centro: Ogigia, l’ombelico del mare, il centro del mondo mitico. Il letto di
ulivo è l’ombelico della realtà: lui aveva preferito una volta per sempre il
mondo reale, dove si soffre e si muore, a quello mitico dove non si soffre e
non si muore…Ora, mentre marito e moglie stanno finalmente per abbracciarsi, Ulisse
descrive con un piacere minuzioso come, più di vent’anni prima, aveva costruito
il letto. Anche qui, la tensione narrativa viene rallentata. Ulisse descrive,
in primo luogo a se stesso, l’oggetto fondamentale della sua vita-che teme
perduto per sempre. Mentre lo descrive, il furore si quieta. Con quale piacere
racconta il suo capolavoro di artigianato: come costruì la stanza da letto
attorno a un ulivo rigoglioso: la coprì con un tetto, vi appose una porta,
recise i rami dell’ulivo, sgrossò il tronco, lo piallò, lo fece diritto col
filo, traforò il legno col trapano, piallò il letto, lo placcò d’oro, d’argento
e d’avorio, vi tese le cinghie del bue…Con questo letto così amorosamente
lavorato, ha inizio la corona di oggetti privilegiati attorno ai quali si
svolge la cultura occidentale: la ciotola di Robinson, il profumo di
Baudelaire, le marmellate di Tolstoj, la madeleine
di Proust, la seggiola di van Gogh; oggetti stabili, “solidamente fissati nel
suolo”, ai quali abbiamo donato il nostro cuore. Appena Ulisse rivela il
“grande segno”, le ginocchia e il cuore di Penelope si sciolgono, come accade
nell’amore, nel sonno e nella morte. Il letto costruito nell’ulivo è il segno
sicuro, del quale può fidarsi”[10].


Allora il signore si rapportava  direttamente alla cosa, non ancora “in guisa
mediata, attraverso il servo”[11]. Il letto di Odisseo è suvmbolon,
segno di riconoscimento con-diviso da 
due sposi; oggi le cose freneticamente consumate, nella mente dei più
devono simboleggiare e significare ricchezza del consumatore, spesso devono
nascondere la povertà della quale il consumista si vergogna.  


Insomma, nell’Odissea
è la forma umana che si imprime sugli oggetti i quali vengono così umanizzati;
nella civiltà industriale, e postindustriale viceversa viene reificato e
mercificato l’uomo.  “La forma di merce è
la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni
della vita”, chiarisce György Lukács in Storia
e coscienza di classe
[12]. Tale  sviluppo
metastatico condannato dal filosofo ungherese piace invece molto ai “nostri”
politici, a partire dall’autorevole presidente della Repubblica.  Del resto non manca una certa coerenza: Lukács
fu ministro dell’istruzione nel governo di Imre Nagy che nel 1956, venne fatto
cadere dall’intervento sovietico approvato da Napolitano. Più tardi, caduto il
regime sovietico, il futuro presidente si scusò, ma intanto  Nagy e tanti altri ribelli repressi erano
stati soppressi, per lo più impiccati.


Adesso però torniamo agli antichi, ché è meglio.


Prometeo, il presunto benefattore tecnologico, è un
personaggio negativo in quasi tutti gli autori. Il biasimo dipende proprio dal
fatto che il Titano è un latore di sviluppo, lo sviluppo tanto caro al signor
Napolitano, di sviluppo dunque senza progresso.


Nel
Protagora di Platone, il sofista racconta che Prometeo donò all’umanità
il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica.
Allora i mortali commettevano ingiustizie reciproche (
hjdivkoun
ajllhvlou"
) in quanto non possedevano l'arte politica (a{te oujk
e[conte" th;n politikh;n tevcnhn
, 322b). Senza questa, che deve essere fondata
sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano: quindi
Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie, mandò Ermes a portare tra
gli uomini rispetto e giustizia affinché questi valori costituissero gli ordini
delle città: "
JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai;
divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi
" (322c). Chi non li avesse accettati,
doveva essere ucciso come malattia della polis
(322d).


Il personaggio Socrate, nel Gorgia  di Platone, afferma che Pericle e prima di lui
Temistocle e Cimone, non hanno reso grande la città, come si dice, in quanto essa è diventata piuttosto  gonfia
e purulenta (oijdei`
kai; u{poulo~ ejstin
, 518e) poiché l’
hanno riempito di porti, di arsenali, di mura, 
di contributi e di altre sciocchezze del genere, senza preoccuparsi  dell’equilibrio e della giustizia" (a[neu ga;r swfrosuvnh~ kai;
dikaiosuvnh~,
519a).


Quando il bubbone esploderà,
gli Ateniesi se la prenderanno con gli ultimi politici, come  Alcibiade o lo stesso Callicle, i quali non
sono responsabili dei mali, ma semmai corresponsabili (519b).


Sarebbe stato Pericle infatti
a rendere gli Ateniesi pigri (ajrgouv~),  vili (deilouv~)  ciarlieri (lavlou~),
amanti del denaro (filarguvrou~), avendo introdotto la misqoforiva
(515e)[13].





Il capo della povli~ insomma dovrebbe prendersi cura non solo
del benessere materiale ma anche e soprattutto di quello morale e mentale dei
governati.





Nel
Politico, Platone fa dire allo
straniero di Elea che l’arte politica  consiste nell’ avere cura dell’intera comunità
umana (
ejpimevleia
dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~,
276b). Il guidare gli uomini come fanno i
pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla
qreptikh;n  tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai;
politikhvn tevcnhn
(276c), non arte regia e arte politica. Infatti il re e l’uomo
politico è quello che si prende cura (
ejpimevleian
di uomini bipedi che liberamente l’accettano (
eJkousivwn dipovdwn, 276d ).


 Questa idea  di humanitas
  è stata e sarà ripresa nei secoli dei
secoli, perfino da alcuni capi di Stato.


Marco
Aurelio, imperatore (161-180 d. C.)  e
filosofo, scrive: “noi siamo nati per darci aiuto reciproco (
pro;" sunergivan), come i piedi, le
mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura (
to; ou\n
ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin
)[14].


Chi
agisce contro il prossimo, chi uccide, danneggia, umilia, calunnia gli uomini,
opera contro natura.


Napolitano
di recente ha approvato i bombardamenti inflitti al popolo libico. Questo forse
per lui era sviluppo e non era violenza.


Sarebbe
invece violenza quella dei Valsusini che si oppongono allo sconcio
squarciamento della loro valle. Comunque il “nostro” presidente ha dato un’altra
prova di coerenza: quella di stare sempre dalla parte del più forte, dato che,
come nell’età del ferro, oggi vige il diritto del più forte. Non in mio nome.


In Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne[15] 
leggiamo:" Nessun uomo è
un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del
tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse
stato spazzato via un promontorio..la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce,
perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi
suona la campana (for whom the bell tolls
[16] ); suona per te”. Questo dovremmo pensare
tutti, quando si progettano e propugnano bombardamenti, quando gli
automobilisti ammazzano pedoni e ciclisti gratis, cioè senza pagarne il fio,  poiché le automobili devono essere vendute ed
è più facile venderle, se chi le guida ha licenza di uccidere. Tanti mentecatti
e criminali impotenti si sentono potenti quando ammazzano pedoni e ciclisti.


Chiudo l’anello
tornando a Pasolini il quale si chiede
“Chi vuole lo sviluppo?”[17].  La risposta è
che “a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli
industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli
industriali che producono beni superflui…I consumatori di beni superflui, sono
da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo
“sviluppo” (questo “sviluppo”). Per
essi significa promozione sociale…Chi vuole, invece, il “progresso”?...lo vogliono
gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e
chi è dunque sfruttato…Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e
politica) : là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico” [18].  L’economia
adesso regna sovrana e chi la controlla è il burattinaio della pupazzata
pseudopolitica, ma  “per quanto parli di economia, il nostro tempo è un
dissipatore: sperpera la cosa più preziosa, lo spirito”[19].


Provate a leggere qualche
libro, qualche volta, signori pupazzi della 
grande baracca televisiva!





Giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it














[1]
Scritti corsari, p. 286.




[2]
E. Morin, I sette saperi, p. 70.




[3]
Opere e giorni, v. 185 e v. 189.




[4]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 101.




[5]G.
Steiner, Tolstoj o Dostoevskij , p.
56.




[6]
Hegel, Estetica, pp. 1392- 1393




[7]
Euripide, Alcesti, vv. 177-183).




[8]
Virgilio, Eneide, IV, 659.




[9]
Odissea, XXIII, 226.




[10]
P. Citati, La mente colorata, p. 272.




[11]
In questo caso cito Hegel  (dalla
Fenomenologia dello spirito) in maniera mediata, attraverso Remo Bodei  in Hegel e la dialettica, p. 47.




[12]
P.. 109.




[13]
Si tratta di una modesta retribuzione delle cariche introdotta verso il 457:
due oboli al giorno (la paga di un operaio) per gli eliasti (hJliastikovn), e 5 oboli per i buleuti (misqov~). Un
compenso da burla rispetto a quelli che ricevono palesemente e sottobanco gran
parte dei nostri parlamentari.







[14]
Ricordi , II, 1




[15]
1572-1631




[16]
E', notoriamente, il titolo di un romanzo di 
Hemingway, 1940




[17]
Scritti corsari, p. 219




[18]
Scritti corsari, p. 220




[19]
Nietzsche, Aurora, p. 130.