sabato 25 febbraio 2012

Celentano il falso sciocco - di Giovanni Ghiselli



Ho visto e ascoltato Adriano Celentano nella trasmissione di Santoro. Ha parlato in maniera rozza, un modo efficace per organizzare il consenso nei confronti dell’ignoranza. Leggere costa fatica, studiare ancora di più, e chi trasmette il messaggio: “ignorante è bello”, è il falso idiota utile a chi vuole che la gente non pensi, non si attrezzi con lo spirito critico necessario a giudicare (crinein) le malefatte del potere che gratifica largamente tali divulgatori del non pensiero.


Per diventare come lui è davvero inutile leggere Famiglia Cristiana e Avvenire, come è inutile leggere qualsiasi altro giornale scritto bene. Leggere libri buoni, di autori che fanno pensare, poi sarebbe addirittura dannoso per chi aspira a tale livello di non logos.

In effetti molti, pur troppi, vorrebbero essere come lui che si è proclamato uno degli uomini più pagati d’Europa. Un santodal punto di vista di Mammona. Tanti infatti, ahimé soprattutto tra i giovani, pensano: se quell’uomo che parla con  semplicità, quasi stenta a connettere le parole tra loro, è così ben pagato, mentre un professore di liceo o un medico,se pure trova lavoro,  non arriva a  2000 euro al mese, chi me lo fa fare distudiare? Chi devo imitare: il povero laureato capace di sofisticherie e
disoccupato o sottopagato, oppure il cantante famoso che dice quello che gli viene in bocca, senza nessun artificio, nessuna preparazione? Il ragazzo non ha dubbi.

Celentano  si presenta come uomo straricco e pure generoso, in quanto l’enorme quantità di denaro, dovuta all’eccelsa professionalità dimostrata a Sanremo, l’ha data in beneficenza. Ricchissimo e
buonissimo dunque, oltre che bellissimo come si proclamava una volta, e per nulla interessato al successo, in quanto una partita a bocce con quattro amici, vale  più di tutto. Lo chieda ai cassaintegrati da 900 euro al mese, e pure meno!  Loro sì che sono felici, con tutto il tempo che hanno per il gioco delle bocce con altri disoccupati!

Celentano ha ricordato di essere stato definito un “cretino di talento”. Ebbene, io lo faccio entrare piuttosto nella categoria antica, storica e letteraria, dei falsi sciocchi  o dei falsi pazzi. Tra questi segnalo Bruto, l’accorto politico che cacciò Tarquinio, Amleto, il tenebroso principe di Danimarca, e
un personaggio buffo di Aristofane. Si possono chiamare anche ossimori viventi.

L’ossimoro è una figura retorica consistente nell’accostare due termini che esprimono concetti opposti.
Oxýs in greco significa “acuto” e mōros “ottuso”. Non pochi dei nostri personaggi pubblici sono, al pari di Celentano, degli ossimori viventi, nel senso che sfoggiano la loro totale rozzezza, e si atteggiano a ingenui, per attirare le simpatie delle persone mentalmente e culturalmente poco attrezzate, ma di fatto portano avanti il loro interesse e impinguano i propri proventi con astuzie da consumate volpi.

Tali incarnazioni non mancano nella storia e nella letteratura.
Bruto Maggiore, per salvarsi da Tarquinio il Superbo,che si fece vedere dal messo del figlio mentre simbolicamente decapitava ipapaveri più alti per significare la necessità di eliminare le teste pensanti, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, tanto che, fingendosi stolto apposta, non rifiutò neppure il soprannome di Brutus (Livio, I, 56, 8). Ma quella che sembrava stoltezza agli stupidi, era invece genio. Infatti, quando l'oracolo delfico preconizzò a lui e ai principi suoi cugini che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo
capito l’arcano responso, finse di cadere per una scivolata, e diede un bacio alla terra, evidentemente
poiché quella era la madre comune di tutti i mortali (I, 56, 12). Come sappiamo, poi Bruto fu tra gli artefici della cacciata dei Tarquini da Roma. E diventò console.


Poi c’è il finto pazzo: Amleto. Nella sua follia c'è un metodo (Shakespeare, Amleto, II, 2) tanto che il re suo zio, l’assassino del re suo padre, sentenzia che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (III, 1). L’usurpatore aveva capito il trucco ma questo non bastò a salvargli la vita.

Concludo con un falso sciocco della commedia greca antica: costui è Demo (Popolo) nei Cavalieri
di Aristofane. Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto, irritabile, sordastro, risponde: “non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca; io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi
portare da bere”. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone-Cleone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori quello che gli hanno rubato. Demo userà l’urna elettorale per provocare il vomito. In questo caso l’ossimoro vivente è il popolo di Atene.


In questa categoria di lupi e iene rapaci travestiti da miti e ingenui agnelli, o da pii bovi, rientrano quanti, messi nella luce della ribalta, politici, istrioni. sportivi, personaggi ricchi, potenti e famosi in genere, sbandierano amore per l’interesse pubblico o addirittura per l’umanità, mentre praticano il culto idolatra del denaro, della roba e del dominio sugli altri uomini, una massa amorfa da ingannare e da sottomettere, costituita da poveri idioti secondo loro, idioti non simulati ma autentici. Ma accade sempre, prima o poi, che la maschera di tali attori cada e la folla, presunta informe, prenda coscienza dell’inganno vedendo l’istrione nudo nella sua reale miseria umana. 
"Eripitur persona, manet res".

gianni ghiselli g.ghiselli@tin.it 

giovedì 16 febbraio 2012

Filellenismo necessario (sulla crisi in Grecia) - di Giovanni Ghiselli



E’ un filelleno chi scrive e fortemente filellenico è questo discorso.

Potrebbe rasentare la faziosità,  poiché l’umiliazione inflitta ai deboli provoca nelle persone per bene una forma di reazione istintiva e di insurrezione morale  contro la tracotanza dei prepotenti.

Gli errori dei governi greci, come l’assunzione di migliaia di impiegati inutili, o le spese colossali per le Olimpiadi, non possono giustificare l’umiliazione e la mortificazione inflitte a una nazione intera, al popolo che di fatto ha inventato il nostro modo di vedere le cose e di pensarle. E’ ai maestri della Grecia classica che dobbiamo la visione estetica, logica, etica e politica che abbiamo del mondo. Senza Euripide mediato da Seneca, e senza Plutarco, avremmo uno Shakespeare ridotto assai, quasi dimidiato; senza Erodoto e il suo dibattito costituzionale sviluppato in seguito da Platone, Aristotele e Polibio,  le teorie politiche moderne avrebbero meno spessore; senza  Empedocle e Sofocle, ai quali Freud riconosce i suoi debiti, la psicanalisi sarebbe più povera; senza il logos epitafios di Tucidide, dove Pericle afferma che la costituzione ateniese non pone alcun ostacolo al progredire di ogni cittadino, per quanto povero e oscuro, del resto capace, altra cosa sarebbe la nostra bella costituzione. Non ci sarebbe, o sarebbe diverso, il mirabile articolo 3. E così
via. Ai Greci antichi dobbiamo molto, molto più dei miseri quattrini che loro devono alle banche e alla finanza internazionale. Scendo nel particolare, nell’aneddotico, per  mostrare come la conoscenza della lingua ellenica e degli autori greci, sia fonte di salvezza.

Nella Vita di Nicia, Plutarco narra che alcuni Ateniesi finiti nelle Latomie di Siracusa, si salvarono grazie a Euripide. Infatti i Greci di Sicilia amavano il tragediografo e desideravano citarlo. Lo amano ancora: tutti gli anni vanno a vederlo rappresentato nello splendido, sempre vivo teatro siracusano. Alcuni dei superstiti dalla catastrofe del 413 a. C. dunque, tornati a casa, andarono ad
abbracciare affettuosamente il drammaturgo e gli raccontarono che erano stati affrancati dalla loro prigionia e schiavitù, poiché avevano insegnato ai vincitori  quanto ricordavano a memoria delle sue tragedie.

In effetti lo studio di Euripide, e di altri autori che accrescono la forza dei sentimenti e del pensiero critico, può avviare tante persone sulla strada dell'emancipazione dal servaggio alla pubblicità, alla propaganda, ai luoghi comuni. Un esempio: Euripide scrive contro la guerra: “E' stolto tra i mortali chi distrugge le città”[1]. I Greci dei nostri giorni devono spendere un cinque per cento del loro P.I.L. per comprare armi fabbricate dagli Europei più ricchi e guerrafondai. Armi micidiali e pure armi difettose. Ebbene, gli Elleni, che sono riluttanti a tale sperpero deleterio, devono essere affamati e umiliati. La classe dirigente italiana è ancora fatta di reduci dal Liceo classico e continua a  mandare i figli alla stessa scuola la cui materia caratterizzante è il greco antico. Questo idioma, tutt’altro che sepolcrale, ci è servito, con il latino, se non altro a conoscere e comprendere meglio la
nostra lingua madre. Un vantaggio che potenzia la vita.

Riporto un secondo aneddoto sul beneficio della conoscenza linguistica, a partire dal greco.
Elias Canetti in La lingua salvata, racconta che il nonno di sua madre una volta, mentre era in
un battello sul Danubio "aveva udito due uomini che, parlottando tra loro, in greco, stavano progettando un omicidio". Ebbene, grazie alla conoscenza di questa lingua, l'uomo poté denunciare la trama assassina "e quando i due delinquenti arrivarono per compiere la loro impresa, subito furono agguantati". Sicché l'autore comprese quanto fosse importante padroneggiare gli idiomi: "Con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui".

Non il greco dunque è una cultura morta, da morti di fame, bensì la ciancia di quanti echeggiano il linguaggio della propaganda. Una volta, con réclame pustolose e farneticanti, si calunniavano gli Ebrei, preparando il loro sterminio. Ora è il turno dei Greci, cicale neghittose, fannulloni e sperperatori. Infatti: gran parte di loro è una massa di scialacquatori da seicento euro al mese, o perfino meno. Speriamo che nessuno voglia vederli morire di fame. Non dimentichiamo che i loro autori hanno nutrito lo spirito di molti Italiani ed Europei per tante generazioni.

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it 

[1] mw'ro~ de; qnhtw'n osti~ ejkporqei' povlei~, Troiane, v. 95. E’ il dio Poseidone che parla deplorando la distruzione di Troia e l’eccidio dei Troiani. 

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