venerdì 30 novembre 2018

L’umanesimo. parte II

María Zambrano


L'amore maturo significa un'uscita dalla gelosia e dalla possessività.
Alla fine dell'amore di Swann troviamo un suggerimento per la guarigione. Vediamo: "appena Swann se la poteva raffigurare senza orrore, appena rivedeva bontà nel suo sorriso... il suo amore ridiventava soprattutto un gusto delle sensazioni dategli dalla persona di Odette, del piacere che provava nell'ammirare come uno spettacolo o nell'interrogare come un fenomeno, l'alzarsi di uno sguardo, il formarsi d'un suo sorriso, l'emissione d'un tono di voce" (Proust, Dalla parte di Swann, p. 322).
Amare una persona rispettandola dunque significa osservarla senza la pretesa di cambiarla, contemplarla come si può fare con un paesaggio o un tramonto.
Una soluzione del genere si trova in La Noia di Moravia: "insomma, lei non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com'era, cioé contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l'albero attraverso i vetri della finestra"[1].
Anche il protagonista di Un Amore di Buzzati arriva alla comprensione e alla compassione per la ragazza che l'ha fatto soffrire quando gli ha rivolto contro l'intenzione che lui aveva di usarla, osservandola sine ira et studi: "dal sonno di lei così abbandonato e confidente viene a lui un senso di pietà e di pace, una specie di invisibile carezza"[2].
La Zambrano suggerisce di uscire dalla caverna del proprio io per il superamento dell'amore come invidia dell'altro. "ben presto nell'amore l'altro si trasforma in uno. L'invidia, invece, conserva ostinatamente l'alterità dell'altro, senza permettergli di raggiungere la purezza dell'uno. E mantenendo l'altro, l'avidità aumenta sino alla frenesia… la differenza tra l'invidia e l'amore sembra trovarsi nella visione: l'amore vede l'altro come uno; l'invidia vede ciò che potrebbe essere uno come l'altro… L'invidioso, che sembra vivere fuori di sé, è un individuo immerso nel proprio intimo: invidere, già nella sua composizione, dichiara il dentro che c'è in quel guardare l'altro. Guardare e vedere un altro non fuori, non dove l'altro sta realmente, ma in un dentro abissale, un dentro allucinato che si confonde con la solitudine, dove non trova il segreto che ci fa sentire noi stessi"[3].
L'invidia si supera trovando la propria identità: "se cerchiamo l'identità di essere qualcuno al di sopra e al di là di quello che ci accade e di quello che viviamo, allora non potrà nascere l'invidia. Perché l'invidia è passione dell'altro, passione dell'identità dell'altro, passione della libertà dell'altro, nella propria vacillante unità e libertà"[4].

La publica salus deve importare al re assolutamente. Nell'Edipo re il figlio di Laio dice: "ma se ho salvato questa città, non mi importa" (v. 443). Qui sta la sua grandezza e questo è il significato più vero e utile della tragedia sofoclea: l'impiego del dolore per il vantaggio, la bellezza, la salvezza propria e della comunità. Chi riesce a fare questo è un uomo, e chi assiste alla metamorfosi del pavqo" in mavqo" diventa migliore. Il poeta scrive per tale risultato che dà senso alle sue parole e alle danze del coro (cfr.v.896).
La formulazione latina di tale principio si trova in un'epistola di Seneca: "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur[5], vive chi si rende utile a molti, vive chi si adopera.
Anche in Virgilio c'è una regina, che prima di decadere a donna abbandonata esprime questo tw/' pavqei mavqo": "non ignara mali miseris succurrere disco", Eneide, I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati.
Una humanitas questa che viene echeggiata dalle prime parole del Decameron :"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti"[6].

“Per una misteriosa simpatia delle cose d'intorno, quasi che cielo e terra fossero tristi della tristezza di quei due esseri umani, il cielo d'un subito si schiarì e un'ondata di sole scese dall'alto, investì la foresta, rise sopra ogni foglia verde, colorì d'oro ogni foglia morta, accarezzò teneramente i vecchi tronchi grigi e rugosi…L'amore, sia quando nasce, sia quando risorge da un letargo che era sembrato mortale, sprigiona tanta luce che tutto il mondo d'intorno se ne accende; ma quand'anche sulla foresta si fosse disteso ancora il livido cielo di dianzi, essa sarebbe apparsa egualmente inondata di sole agli occhi di Hester e di Dimmesdale" (La lettera scarlatta[7], p. 161).

Innaturale è dunque l'odio tra gli uomini; innaturalissimo quello tra i maschi e le femmine umane. Il medico del Macbeth, vedendo la regina malata e udendola sussurrare parole orrende, fa la sua diagnosi: "Unnatural deeds do breed unnatural troubles" (V, 3), atti innaturali generano turbamenti innaturali.
Innaturale qui è stato il delitto generato dall'ambizione.
 Un bel frammento di Menandro ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura "niente è tanto congeniale come l'uomo e la donna, a guardarci bene". Come poeta d'amore il massimo autore della commedia nuova[8] non può trascurare o biasimare tale inclinazione reciproca.
L'inimicizia delle donne nei confronti degli uomini ha avuto, almeno in passato, la genesi che Seneca attribuisce a quella degli schiavi per i padroni: "non habemus illos hostes, sed facimus" (Epist. ad Luc., 47, 5), non li abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.
Le lacrime manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[9], interessano le situazioni che grondano pianto. Il piangere, come scarso controllo delle situazioni, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio :"come sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'" pepragovsi )/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv. 608-609).
La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere pure piacevole:"avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn)", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (vv. 125-126).
 Nell'Elena di Euripide, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che dolore"(654-655).
La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà:"- Oh, lasciami bere - io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto"[10].

"Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich" (L'uomo senza qualità, di Musil, p.210)

Certo, dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.
 Su questo possiamo sentire Proust:"Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere...Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[11].

 Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la sofferenza ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore… quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[12].

 Perrotta confuta alcune interpretazioni dell’Antigone: "lasciamo stare l'interpretazione cristiana, che è di tutte quella assolutamente falsa. Ma è anche errata l'interpretazione di chi...riassume tutta la tragedia in un conflitto tra le leggi ideali ed eterne rappresentate da Antigone e le leggi scritte rappresentate da Creonte. Chi intende a questo modo il dramma, cade ancora nella interpretazione hegeliana, anche se ritiene di essersene liberato: importa relativamente poco s'egli sostituisce, alla tesi e all'antitesi che vedeva in questa tragedia l'Hegel, un'altra tesi e un'altra antitesi non troppo differenti"[13].
Sofocle secondo Perrotta aiutato da Goethe sostiene che Sofocle non parte da un’idea cui subordini le situazioni e i caratteri in quanto gli importano molto di più le situazioni e i caratteri (p. 117). Non c’è un conflitto tra due princìpi opposti, bensì tra due persone, tra due individui omni modo determinati. Solo parzialmente vera è l’interpretazione di Goethe che definisce Antigone “la più sororale delle anime”, ed è inaccettabile l’interpretazione di Kaibel (filologo classico tedesco, 1847-1901) che vede in Antigone una violenza selvaggia senza tenerezza né amore.


CONTINUA



[1]Moravia, La Noia , Bompiani, Milano, 1984, p. 345.
[2]D. Buzzati, Un Amore , Mondadori, Milano, 1965, p. 250.
[3] L'uomo e il divino pp. 258-259.
[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino p. 264.
[5] Epist. 60, 4.
[6] Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[7] Di Nathaniel Hawthorne, del 1850.
[8] "Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri", nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore, ricorda Ovidio (Tristia , II, 369).
[9] Cfr. :" sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
[10]L'Innocente.p. 145.
[11]M. Proust, Il tempo ritrovato , pp. 239 e 242.
[12] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[13]I tragici greci , p. 117.

giovedì 29 novembre 2018

Edipo re di Sofocle. parte III

Tebe, resti della rocca cadmea
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA

vv14-17. Ajll&... barei'": "Ma, Edipo, che sei padrone della mia terra/tu vedi noi,di quale età siamo seduti/davanti ai tuoi altari, gli uni senza ancora la forza/di volare a lungo, gli altri appesantiti dalla vecchiaia".
-kratuvnwn: Edipo si è fatto padrone di Tebe usurpando la legittima signoria degli dei, soverchiando i sacerdoti e illudendo il popolo con un trionfo non legittimato da una vittoria definitiva. Di qui la successiva contrapposizione a Tiresia analizzata da D. Lanza nel volume Il tiranno e il suo pubblico.
Anche nel Filottete (v.366) kratuvnein è usato (sempre con il genitivo) per un'appropriazione indebita: quella delle armi di Achille da parte di Odisseo.
-hJlivkoi : sono indicate persone che non hanno raggiunto il culmine della vita oppure stanno scendendo per la zona bassa del declivio onde nessun risale: portatrici dunque di debolezza e bisognose di aiuto da parte della impareggiabile potenza attribuita al re.
-bwmoi'si toi'" soi'":il despota si è appropriato degli altari; ci si è messo sopra al posto degli dei. Bwmov" del resto è pure un piedistallo, un'impalcatura dove si sale, e dalla quale si può cadere male, come precipita il tiranno dai fastigi altissimi del potere nella necessità scoscesa (cfr. vv.876-877).-makra;n: sottintende oJdovn = per lunga via, ma ha assunto valore avverbiale. -ptevsqai: infinito dell'aoristo 2 ejptovmhn di pevtomai, retto da sqevnonte".
-su;n ghvra/ barei'" : il suvn, da integrarsi forse con il participio o[nte", suggerisce l'idea della compagnia, mentre nell' equivalente latino gravis aetate (in Livio, VII, 39, 1) prevale l'idea della causa efficiente. La vecchiaia è considerata un disvalore nelle società dove vivere non equivale a potenziarsi attraverso l'apprendimento e la pratica del bene. Nelle Rane di Aristofane:" govnu pavlletai gerovntwn"(v.345), il ginocchio dei vecchi balza. Infatti questi sono gli iniziati, oiJ memuhmevnoi(vvv.158 e v.318), distinti dai peccatori la cui vita è schifosa sempre e dovunque. La vecchiaia non è pesante per chi vive con purezza.

Cfr. Cicerone, De senectute, 3: "in moribus est culpa, non in aetate", la colpa sta nei costumi, non nell'età. Del resto nella stessa opera, al capitolo 7, troviamo:"Sophocles ad summam senectutem tragoedias fecit".

Cfr. anche Leopardi, Zibaldone (3520-3521):"Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtù...allora i vecchi, come più ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili e stimati, ed anche in molte parti più utili ai loro simili e compagni ed al corpo della società, che non i giovani e quelli dell'altre età".

vv.18-21. iJereuv"... spod''''''w/''': "e sacerdote io sono di Zeus; quelli poi sono stati scelti/tra i giovani ancora celibi, e il resto del popolo incoronato/sta seduto nelle piazze, davanti ai due templi di Pallade/presso la cenere profetica dell'Ismeno".
iJereuv": accolgo la correzione del Bentley che dà maggiore spicco al sacerdote; il Pearson dà iJerh'", nominativo plurale. C'è un anapesto in prima sede. -Zhnov": la forma più comune è Diov". Il nome di Zeus ricorre nei drammi di Sofocle con una frequenza che non ha pari negli altri due tragediografi; è uno dei segni del suo essere" qeofilhv"... wJ" oujk a[llo"", come lo definisce l'anonimo autore della Vita che risale al tardo ellenismo e si trova nel Venetus Marcianus (V) con il titolo Sofoklevou" gevno".
G. Perrotta in I Tragici greci (p.120) ricorda che "la tradizione lo descrive religiosissimo e tale fu senza dubbio".
-ajgorai'si: dativo di luogo. Ancora un anapesto in prima sede. Le piazze e i templi sono plurali poiché il potere non deve concentrarsi in un solo uomo né in un unico dio.
Come la terra è tutta piena di dei, pavnta plhvrh qew'n a detta di Talete, e non c'è un'unica divinità dispotica e staccata dal mondo, così il potere terreno va eletto nelle piazze in seguito a una competizione dialettica, e deve essere distribuito tra vari organi e magistrati che si controllino a vicenda. Né anarchia dunque né dispotismo, come aveva già suggerito Eschilo nelle Eumenidi (v.696), tanto in cielo quanto in terra. -spodw/': è un vaticinio di infecondità e sciagura. Già nell'Antigone la cenere senza il lampeggiare del fuoco significa che l'offerta sacrificale non è stata accettata dagli dei: [H[faisto" oujk e[lampen , ajll& epi; spodw/' '/mudw'sa mhki;" mhrivwn ejthvketo", Efesto non brillava ma il grasso delle cosce si scioglieva trasudando sulla cenere (vv.1OO7-1008). Nell'Asino d'oro di Apuleio, dopo che Apollo ha vaticinato nozze mostruose per la povera Psiche, la luce della fiaccola nuziale si estingue in cenere di nera fuliggine ("iam taedae lumen atrae fuliginis cinere marcescit ", IV, 33).
- jIsmenou': è il fiume di Tebe(cfr. Antigone , 1124) presso il quale sorgeva un tempio di Apollo.

vv.22-24. povli"... savlou:"la città infatti, come anche tu stesso vedi,troppo/già ondeggia e di sollevare il capo /dai gorghi del fluttuare insanguinato non è più capace". -kaujto;"; è crasi di kai; aujtov". -saleuvei.

Plutarco nella Vita di Solone racconta che il legislatore ateniese insediò l’Areopago come sovrintendente di ogni atto e custode delle leggi (ejpivskopon pavntwn kai; fuvlaka tw`n novmwn, 19, 2). Il consiglio era formato da ex arconti e venne aggiunto alla boulhv dei 400, pensando che ormeggiata a due consigli come a due ancore, la città sarebbe stata meno ondeggiante (oijovmeno~ ejpi; dusiv boulai`~ oJrmou`san h|tton ejn savlw/ th;n povlin e[sesqai).

La metafora nautica risale al noto frammento di Alceo (326 LP) riportato con il 56 D. di Archiloco e spiegati come allegorie da Eraclito , non il presocratico, ma uno stoico della prima età imperiale, autore delle Allegorie omeriche: “jArcivloco~to;n povlemon eijkavzei tw/' qalattivw/ kluvdwni”, Archiloco paragona la guerra al flutto del mare.
L'immagine, passata poi attraverso Teognide (Silloge,vv.668-682), Eschilo (I Sette a Tebe,v; 62 e sgg., 208 e sgg.), Antigone (v.163), e le Rane di Aristofane(v.361), è tovpo" letterario tra i più celebri della letteratura classica. Viene subito in mente la quattordicesima ode del primo libro di Orazio:" O navis, referent in mare te novi/ fluctus. O quid agis? fortiter occupa/portum...non tibi sunt integra lintea...Tu, nisi ventis/debes ludibrium, cave , o nave ti riporteranno in mare nuovi flutti! O che fai? raggiungi il porto senza esitare...hai le vele strappate...Tu stai attenta, se non vuoi diventare zimbello dei venti.
E' interessante la definizione che dà Quintiliano dell'allegoria e l'interpretazione di questa:"Allegoria, quam inversionem interpretantur, aut aliud verbis aliud sensu ostendit aut etiam interim contrarium. Prius fit genus plerumque continuatis translationibus, ut.... segue la citazione delle parole citate sopra fino a portum , quindi l'interpretazione:"totusque ille Horatii locus, quo navem pro re publica, fluctus et tempestates pro bellis civilibus, portum pro pace atque concordia dicit ".(Institutio oratoria , VIII, 6, 44), l'allegoria, che interpretano come inversione, o mostra una cosa con le parole, un'altra con il significato generale, o talora il contrario. Il primo genere avviene per lo più con metafore continuate...e tutto quel passo di Orazio nel quale egli intende come nave lo Stato, come flutti e tempeste le guerre civili, come porto la pace e la concordia.
Non possiamo non ricordare l'invettiva all'Italia del Purgatorio di Dante:"Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!(VI, 76-78). E. R. Curtius in Letteratura europea e Medio Evo latino (pp.147-150), fornisce un ricco elenco di metafore nautiche in poeti che vanno da Virgilio a Edmund Spenser.

Qui significa che Tebe è contaminata dall' u{bri" del tiranno Edipo, come, nel frammento di Alceo, Mitilene era insidiata dalla sommossa di Mirsilo sfociata nella tirannide. Del resto, per concludere con Sofocle, anche Elettra, minacciata dal dispotismo scellerato di Egisto, fluttua (saleuvei, v.1074), e piange come il lamentevole usignolo.
kajnakoufivsai: crasi di kai; ajnakoufivsai, infinito dell'aoristo di ajnakoufivzw che contiene l'aggettivo kou'fo"=leggero, dunque manifesta l'idea di togliere un peso. foinivou: il flutto che sommerge la città è sanguigno: c'è riferimento alle mestruazioni delle donne che non rimangono incinte, e al sangue della strage impunita (cfr.v.466: foinivaisi cersivn, con mani sporche di strage).
Vengono in mente, con associazione forse non del tutto arbitraria, gli "infecti caedibus scopuli " gli scogli sporchi di strage delle Historiae (I,2) di Tacito e La vita è sogno di Calderon laddove Stella dice a Basilio:"Vedrai il tuo regno nuotare tra onde scarlatte" (III, 6).
vv. 25-30. fqivnousa...plouvtizetai :"e si consuma nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi,si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo,e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti".
E' la descrizione del flagello. La sterilità che deriva dai delitti o dagli errori dei capi, non consente alla terra di produrre frutti, né alle femmine di partorire. Anche questo è tovpo".
Faccio un esempio tratto da Erodoto: Cambise, feritosi a morte dopo avere fatto ammazzare il fratello Smerdi agendo più con celerità che con saggezza, per l'errata interpretazione di un sogno, raccomanda agli Achemenidi di non permettere che il potere passi di nuovo ai Medi, ma se questi lo conquisteranno con la forza, dovrà essere recuperato con la forza. Se i Persiani faranno questo, augura il re ammalato:"uJmi'n gh' te karpo;n ejkfevroi kai; gunai'ke;" te kai; poi'mnai tivktoien", la terra vi produca frutti e le donne e le greggi partoriscano; altrimenti per loro ci sarebbe stata la sterilità e la schiavitù (Storie, III, 65).
Ho citato Erodoto più di una volta: le affinità tra lo storiografo e il drammaturgo sono rilevabili nella impostazione generale, siccome entrambi gli scrittori mirano alla santificazione di Delfi, e anche nei particolari, tanto che è possibile segnalare diversi echeggiamenti sofoclei. Per esempio l'Antigone ai versi 904 e sgg. ricorda Erodoto , III, 118-119; L'Edipo a Colono ai vv.337 e sgg. rammenta Erodoto, II, 35.
Secondo Perrotta "il poeta...prende a prestito da Erodoto il motivo dell'infecondità della terra"; e, più in generale:"l'atteggiamento di Erodoto è quello di Sofocle" (Sofocle, p.207).

Il motivo della sterilità è presente, in forma personalizzata, anche nell'Andromaca di Euripide dove Ermione accusa la vedova di Ettore della propria infecondità foriera di morte (v.158):"nhdu;" d& ajkuvmwn dia; sev moi diovllutai", il grembo sterile per causa tua mi si distrugge.

Nel Medio Evo troviamo qualche cosa di simile in alcuni episodi del ciclo del Graal. E. R. Curtius (Op. cit. p.129) ricorda che"il giovane eroe della leggenda arriva in un paese brullo, dove sono inaridite tutte le sorgenti e le vegetazioni, e dove il sovrano, il re pescatore, è ammalato, ferito, mantenuto in vita solo grazie alla coppa miracolosa del Graal. Di quale malattia si tratta? Alcune edizioni ricorrono ad eufemistiche perifrasi, altre dicono chiaramente che è l'impotenza virile-la stessa minorazione, dunque, che è simbolizzata nella mutilazione del frigio Attis e nella ferita mortale di Adone".
Nel paese del Re Pescatore ferito dunque c'è la sterilità minacciata dal Cambise ferito di Erodoto e presente nell'Edipo re di Sofocle.
Facendo un salto nel Novecento, secondo l'idea per la quale"tutta la letteratura europea da Omero in avanti ha un'esistenza simultanea", è utile il confronto con La terra desolata (1922) dove T. S. Eliot descrive la sterilità, la paralisi, l'impotenza provocate dai delitti e dall'empietà. Polvere e mancanza di pioggia, o la presenza di acqua inquinata, sono simboli ricorrenti, "correlativi oggettivi" dell'aridità spirituale, mentre il canto già sacro dell'usignolo suona come "Jug Jug to dirty ears"(v.103), giag giag a orecchie sporche, e Tiresia l'indovino che ebbe sede presso Tebe, sotto le mura (v.245), assiste alla seduzione di una dattilografa annoiata, da parte di un giovanotto foruncoloso (v.231).
Lo stesso Eliot dedicò il suo poemetto a Ezra Pound, "il miglior fabbro", il quale scrisse:"
Go, my songs, seek your praise from the young and from the intolerant/
Move among the lovers of perfection alone.
Seek ever to stand in the hard Sophoclean light
And take your wounds from it gladly, andate mie canzoni, cercate la vostra lode dai giovani e gli insofferenti, frequentate solo gli amanti della perfezione, cercate di stare sempre nella dura luce sofoclea e ricavatene la vostre ferite con animo lieto "(Ité da Lustra, 1916 in Opere scelte , p. 99).

-fqivnousa in anafora. La città si consuma e declina poiché svaniscono gli oracoli (cfr.v.907) e vanno a male gli dei (v.910). La decadenza della vita consegue al tramonto del sacro. Il dramma di Sofocle tende a risollevare il divino; se gli Ateniesi lo comprenderanno, vedranno la città risorgere e raddrizzarsi, altrimenti ci sarà la morte della tragedia, della povli" e della sua cultura permeata di religione: cfr. i vv.897-902 del secondo stasimo:"Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a dito/ non andranno bene a tutti i mortali".
-kavluxin ejgkavrpoi": dativo di luogo con l'aggettivo che propriamente significa fruttifero riferendosi alla situazione precedente la peste.
Al verso 26 c'è un tribraco in seconda sede.
-ajgovnoi": anapesto in prima sede. Sono i parti senza prole (aj-govno").
Ancora una volta viene in mente un passo di Erodoto :"ou[te gh' karpo;n e[fere ou[te gunai'kev" te kai; poi'mnai oJmoivw" e[tikton kai; pro; tou' (VI,139), né la terra produceva frutti né le donne e le greggi partorivano come prima (ai Pelasgi che avevano ucciso mogli e figli).
La vita offesa si vendica.- ejn è avverbio=intanto.
-oJ purfovro" qeov" : è Ares, il dio delle stragi belliche, quello che Eschilo chiama "il cambiavalute dei corpi"(oJ crusamoibo;" swmavtwn, Agamennone, 437).
Secondo Sofocle, conflitti e peste sono conseguenza dell'ateismo, mentre il razionalista Tucidide, abolita l'intelaiatura teologica, sostiene che fu la guerra a causare la peste, e fu questo morbo a determinare l'incuria del divino (II,52).
skhvya"=participio dell'aoristo di skhvptw=mi scaglio.
-loimo;" e[cqisto": ha pure un significato morale di perdita o inquinamento dei valori religiosi e dei sentimenti umani; e[cqistoi (superlativo di ejcqrov") nell'Antigone (vvvvvvv.137) sono i venti di guerra spirati dalla furia blasfema di Capaneo nel folle assalto a Tebe.
-kenou'tai. Lo svuotamento temuto da Sofocle è quello delle vite umane , in termini sia biologici, sia intellettuali e morali. Se accettiamo la datazione di C. Diano, il 411, e quella di G. Perrotta che annovera la tragedia fra le ultime del poeta, nella descrizione della peste possiamo trovare riferimenti alla seconda fase della guerra del Peloponneso, e, in particolare, alla sciagurata spedizione in Sicilia, voluta da Alcibiade, lo spregiatore degli dei e dell'etica tradizionale, il profanatore dei riti sacri, colui che nell'espandersi del conflitto panellenico cercava occasioni di potenziamento personale (cfr.Tucidide,VI,15,4). Nella sua ambizione smodata del resto si riconosceva e identificava l'egoismo etnico di molti Ateniesi.-
mevla" dj j: l'elisione in fine di verso è caratteristica di Sofocle e pertanto si definisce sch'ma Sofovkleion.
Un'altra efficace denuncia delle guerre scatenate dall'avidità di un popolo e dei suoi capi che la mascherano in vari modi, la troviamo nel discorso appassionato di Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli , contro i Romani predoni del mondo: "Auferre,trucidare, rapere,falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant ".(Tacito, Agricola, 30).


-ploutivzetai. L'arricchimento che proviene dalla guerra è tale solo in termini di morte,dolori e pianti. Forse questo verbo è usato anche per associazione con Plou'ton, un altro modo di chiamare Ades. Aristofane nel Plou'to" confonde i due nomi al v.727 dove usa il dativo tw/' Plouvtwni da Plouvtwn. Qui il gioco di parole è giustificato dal fatto che durante i conflitti, al dolore di molti uomini corrisponde l'arricchimento di pochi.

FINE

mercoledì 28 novembre 2018

Twitter, CCCXXXII sunto. La Compassione

Il furto mancato e l'uccisione approvata. Non in mio nome
è stato ammazzato un ladro. Un essere umano comunque, un ragazzo. Esultanza generale. Nessuna parola di compassione per questo povero morto. La dico io. pregherò per lui.

Il sangue versato a terra
Manzoni nelle Osservazioni sulla morale cattolica  (cap. VII) scrive:" Il sangue di un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra". Si vergognino quanti esultano per l'uccisione di un uomo, chiunque egli sia.
La pena di morte non c'è e non deve esserci per nessuna ragione.

La compassione
Sono le 4 di notte. Mi sono svegliato al pensiero che in Italia ritorna strisciando come un verme patogeno o un serpente velenoso la pena di morte, per giunta non comminata dai tribunali ma da privati che sarebbero comunque giustificati da un'opinione pubblica descolarizzata, ignorante, manipolata verso la disumanità.
La morte di un essere umano che subisce violenza, sia un rapinato o un derubato, sia un rapinatore disarmato o un ladro che fugge presi alle spalle da revolverate o da fucilate, dovrebbe far provare a tutti un senso di sconfitta.
Io provo anche un sentimento di ribellione.
Ricordo queste parole di John Donne:"la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana (for whom the bell tolls); suona per te". ( Devotion upon Emergent Occasion , Devozioni per occasioni di emergenza, del 1624)
Concludo con Foscolo: "tu o Compassione, sei la sola virtù! Tutte le altre sono virtù usuraie" (Ultime lettere di Iacopo Ortis, Ventimiglia 19 e 20 febbraio 1799). 

Rinnovo la mia compassione per tutti quanti subiscono violenza. Donne e uomini
Adesso posso tornare a dormire. Bologna 29 novembre 2018 ore 4, 21. 


Licenza di uccidere. Non in mio nome
Se passa il verbo di certi profeti (profeti di chi? Non certo di Dio) per i quali si può ammazzare chiunque si avvicini troppo a casa mia non invitato, allora potrò uccidere il postino con le raccomandate, il prete che vuole benedire il talamo dei miei tanti peccati, l'amante che ha le chiavi e arriva senza preavviso. Potrò farlo secondo questa legge, ma io non lo farò.

All'armi siam leghisti! 
Salvini consegue successo politico diffondendo la paura e gridando: "All'armi! (alle armi!!!)". E' felicior del già Felix Sulla (Silla) che tra l'82 e il 79 instaurò una dittatura dopo avere massacrato i nemici democratici con una guerra civile. Nell'Italia del tempo nostro i democratici si sono massacrati da soli.


Oggi, 30 novembre 2018, sposo la povertà. Fatemi gli auguri
Quando salii a Dodona da Igoumenitza in bicicletta una volta con Fulvio e Carlotta, un'altra volta con Fulvio, Alessandro e Maddalena, per interrogare le profetiche querce di Zeus e i sacerdoti Selli, quegli uomini di Dio che dormono per terra e non si lavano i piedi (cfr. Iliade XVI, 235, e Trachinie di Sofocle 1166) fecero sussurrare alle querce un presagio che ogni inverno, al mio ritorno a Bologna,  si avvera: "tu sarai come noi: nella stagione più dolente: la tua povertà priva di ogni risorsa non ti consentirà riscaldamento né lavacri di sorta nè alcun giaciglio per le membra affaticate, piagate e smagrite". Ringraziai quei santi e, come Cristo poi Francesco di Assisi e ora papa Bergoglio, divenni amante della povertà. Oggi la sposo.

gianni, il poverello di Pesaro

La nostra Costituzione all’esame di maturità


PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA

La nostra Costituzione all’esame di maturità.
Porrò in questo blog, a puntate, un lungo percorso: ESSERE CITTADINO.
La nostra costituzione risente del logos epitafios attribuito da Tucidide a Pericle (Storie, II, 35-47)

Intanto il Sommario
Essere cittadino (polivth~) significa avere una cultura politica, vuole dire essere educato alla vita democratica della polis.
La democrazia antica presuppone la libertà, innanzitutto la parrhsiva (libertà di parola)
per tutti i cittadini, e la possibilità per gli elettori di controllare gli
eletti. Il tiranno viceversa non tollera e non subisce controlli.
La tirannide è associata alla prepotenza e all’ignoranza del bene comune. Il tiranno teme le persone eccellenti e le elimina.
Il despota infatti non deve rendere conto ai suoi sudditi dei propri atti spesso criminosi.
Il dibattito costituzionale nelle Storie di Erodoto. I nobili persiani, ricordando i successi di Ciro, preferiscono e scelgono la monarchia piuttosto che l’oligarchia e la democrazia. Il regime democratico adatto ai Greci dunque non si confà ai Persiani: le tradizioni e le abitudini sono diverse per ciascun popolo e sono sovrane. La logica di Erodoto e di altri autori ellenici è aperta al contrasto ( cfr. i dissoi; lovgoi, i discorsi contrapposti)-
Il tuvranno~ nella storiografia greca, in quella latina, nella tragedia greca e in Platone.
Critiche alla dhmokrativa. Anche il popolo può gestire il potere con prepotenza, ossia non sottostando alle leggi ( il “Vecchio oligarca”, Senofonte, Polibio, Platone, Aristotele).
I discorsi di Pericle nelle Storie di Tucidide.
La politeiva ateniese e la costituzione della repubblica italiana presentano diverse analogie: la libertà di pensiero e di parola, la rimozione degli ostacoli che impediscono a chi nasce povero il pieno sviluppo culturale, sociale politico della propria persona, l’accoglienza dei perseguitati dai regimi totalitari.
La nostra ottima Costituzione è ancora inattuata, anzi è sempre meno attuata.

giovanni ghiselli

Debrecen. Capitolo 5


L’Aranybika, il Grand Hotel di Debrecen

Sopra il portone dell’ingresso formicolante, nereggiava un’insegna fatta di pezzi disposti a formare un cerchio. Mi avvicinai. La semicirconferenza superiore era costituita dalle lettere H O T E L, l’nferiore da quelle più piccole e fitte di una parola lunga e illeggibile. Mentre cercavo di chiarirmi la scritta, questa si accese con un’esplosione di luce. La parola strana era Aranybika, la figura interna al cerchio quella di un un toro. Significa “toro d’oro” come seppi più avanti. Mi venne in mente la maxima victima di Virgilio[1].
Entrai nell’atrio che brulicava di gente diretta al ristorante con pista da ballo.
Andai dall’altra parte dove c’era il portiere, un uomo d’aspetto civile. Gli domandai se parlasse italiano. Con mia sorpresa rispose di sì. Contento di tale successo, gli chiesi dove fosse l’università. Io era uno studente borsista, dell’Università di Bologna.
Non sapevo ancora, ma lo speravo, che le vere borse di studio sarebbero state le donne che avrei conosciuto, meravigliosamente[2] a Debrecen e altrove altre ancora[3].
Il portiere mi rispose che di notte il collegio era chiuso: potevo andarci la mattina seguente; lui mi avrebbe indicato la strada. Intanto potevo dormire nell’hotel, per venti dollari.
“Con quell’ambiguo sorriso da prosseneta[4], tira a fregare” pensai. “Un collegio universitario dove gli studenti mangiano e dormono, non può essere chiuso alle otto e mezzo. Però non ho scelta: in questo paese da solo, di notte, non me la cavo”.
“Va bene”, dissi, “prendo una camera”.
Gli diedi il passaporto e il denaro. Poi gli chiesi di spiegarmi, comunque subito, dove fosse l’Università. Mi allungò la chiave, e, con riluttanza, disse che dovevo prendere il tram numero uno nella direzione del grande tempio. Cercai la camera per posarvi il bagaglio ma non la trovavo. Mi sentivo incluso in un labirinto di nuovo genere[5].
Dovetti tornare indietro per farmi indicare la stanza una seconda volta, Dopo l’estorsione dei dollari, quel portiere di notte mi era diventato antipatico. Anzi, tutto l’ambiente di quell’hotel pretenzioso e pitocco mi era poco simpatico.

Pensai di verificare subito l’informazione di cui diffidavo,
Salii sul tram numero uno in direzione dell’Università, ma, superato il grande Tempio, le rotaie si allungavano in una strada disperatamente nera e deserta. Scesi alla prima fermata e tornai indietro di corsa, per quanto me lo consentiva la pancia.
Non avevo la forza di saltare la cena ma non volevo mangiare all’Aranybika.
Preferii tornare all’Hungaria dove il cameriere era più rozzo del necessario, e sgarbato, ma non truffaldino e ricattatorio. Così al primo impatto il toro d’oro, mi diede un piccolo dispiacere. Provengo da gente parsimoniosa e lo sono anche io, ma più che per i venti dollari ero dispiaciuto per la truffa e il ricatto di quel portiere truffatore.
Eppure non ero del tutto scontento: intanto avevo trovato una camera e un letto dove passare la notte. Tornato sulla strada principale anzi mi sentivo quasi contento. Probabilmente antivedevo e pregustavo il futuro.
Stavo smaltendo la sbornia della paura.
Infatti con il passare del tempo, anni di tempo, e nel lungo progresso della mia persona, proprio lì, nel grande hotel della città della puszta, avrei vissuto diverse ore piacevoli e importanti per la mia crescita, in compagnia di alcune delle donne belle e fini che dovevano stimolarmi a maturare, diventando quello che sono: una persona non infelice, non brutta, non cattiva. Adesso il grande albergo di Debrecen è un monumento duraturo più delle sue mura, un tempio edificato dentro l’anima mia. In un tabernacolo contiene la memoria di alcune tra le ore più intense della mia gioventù, un ricordo che nei momenti difficili in quanto deserti di affetti, mi incoraggia a procedere verso tempi migliori che, come quelli meno buoni del resto, ricorrono sempre. Rebus cunctis inest quidam velut orbis[6]

giovanni ghiselli

CONTINUA

p. s. il blog è arrivato a 690524 visite

Queste sono le letture di oggi 28 novembre ore 10
Italia
171
Stati Uniti
42
Spagna
9
Ucraina
7
Irlanda
4
Portogallo
4
Regione sconosciuta
3
Germania
2
Francia
2
India
2





[1] Georgiche, II,146-147:"et maxima taurus/victima " .
[2] Cfr. D’Annunzio, Maia, Laus Vitae (II) : “E vi furono altre ancora;/e meravigliosamente/io le conobbi.
[3] Cfr. Tess of the D'Ubervilles di T. Hardy, dove Angel Clare si rivolge a Tess dicendole: " darling, the great prize of my life-my Fellowship" (XXXII), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio.
[4] Cfr. D’Annunzio: “riso ambiguo di prossenèti/ e frode (…) in agguato” (Laus Vitae, V)
[5] Cfr il timore di Encolpio:"quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperant votum esse? " ( Satyricon, 73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo?
[6] E’ l’idea del ciclo che Tacito applica ai costumi :"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur "(Annales , III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgono le vicende alterne dei costumi.

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...