venerdì 30 novembre 2018

L’umanesimo. parte II

María Zambrano


L'amore maturo significa un'uscita dalla gelosia e dalla possessività.
Alla fine dell'amore di Swann troviamo un suggerimento per la guarigione. Vediamo: "appena Swann se la poteva raffigurare senza orrore, appena rivedeva bontà nel suo sorriso... il suo amore ridiventava soprattutto un gusto delle sensazioni dategli dalla persona di Odette, del piacere che provava nell'ammirare come uno spettacolo o nell'interrogare come un fenomeno, l'alzarsi di uno sguardo, il formarsi d'un suo sorriso, l'emissione d'un tono di voce" (Proust, Dalla parte di Swann, p. 322).
Amare una persona rispettandola dunque significa osservarla senza la pretesa di cambiarla, contemplarla come si può fare con un paesaggio o un tramonto.
Una soluzione del genere si trova in La Noia di Moravia: "insomma, lei non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com'era, cioé contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l'albero attraverso i vetri della finestra"[1].
Anche il protagonista di Un Amore di Buzzati arriva alla comprensione e alla compassione per la ragazza che l'ha fatto soffrire quando gli ha rivolto contro l'intenzione che lui aveva di usarla, osservandola sine ira et studi: "dal sonno di lei così abbandonato e confidente viene a lui un senso di pietà e di pace, una specie di invisibile carezza"[2].
La Zambrano suggerisce di uscire dalla caverna del proprio io per il superamento dell'amore come invidia dell'altro. "ben presto nell'amore l'altro si trasforma in uno. L'invidia, invece, conserva ostinatamente l'alterità dell'altro, senza permettergli di raggiungere la purezza dell'uno. E mantenendo l'altro, l'avidità aumenta sino alla frenesia… la differenza tra l'invidia e l'amore sembra trovarsi nella visione: l'amore vede l'altro come uno; l'invidia vede ciò che potrebbe essere uno come l'altro… L'invidioso, che sembra vivere fuori di sé, è un individuo immerso nel proprio intimo: invidere, già nella sua composizione, dichiara il dentro che c'è in quel guardare l'altro. Guardare e vedere un altro non fuori, non dove l'altro sta realmente, ma in un dentro abissale, un dentro allucinato che si confonde con la solitudine, dove non trova il segreto che ci fa sentire noi stessi"[3].
L'invidia si supera trovando la propria identità: "se cerchiamo l'identità di essere qualcuno al di sopra e al di là di quello che ci accade e di quello che viviamo, allora non potrà nascere l'invidia. Perché l'invidia è passione dell'altro, passione dell'identità dell'altro, passione della libertà dell'altro, nella propria vacillante unità e libertà"[4].

La publica salus deve importare al re assolutamente. Nell'Edipo re il figlio di Laio dice: "ma se ho salvato questa città, non mi importa" (v. 443). Qui sta la sua grandezza e questo è il significato più vero e utile della tragedia sofoclea: l'impiego del dolore per il vantaggio, la bellezza, la salvezza propria e della comunità. Chi riesce a fare questo è un uomo, e chi assiste alla metamorfosi del pavqo" in mavqo" diventa migliore. Il poeta scrive per tale risultato che dà senso alle sue parole e alle danze del coro (cfr.v.896).
La formulazione latina di tale principio si trova in un'epistola di Seneca: "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur[5], vive chi si rende utile a molti, vive chi si adopera.
Anche in Virgilio c'è una regina, che prima di decadere a donna abbandonata esprime questo tw/' pavqei mavqo": "non ignara mali miseris succurrere disco", Eneide, I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati.
Una humanitas questa che viene echeggiata dalle prime parole del Decameron :"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti"[6].

“Per una misteriosa simpatia delle cose d'intorno, quasi che cielo e terra fossero tristi della tristezza di quei due esseri umani, il cielo d'un subito si schiarì e un'ondata di sole scese dall'alto, investì la foresta, rise sopra ogni foglia verde, colorì d'oro ogni foglia morta, accarezzò teneramente i vecchi tronchi grigi e rugosi…L'amore, sia quando nasce, sia quando risorge da un letargo che era sembrato mortale, sprigiona tanta luce che tutto il mondo d'intorno se ne accende; ma quand'anche sulla foresta si fosse disteso ancora il livido cielo di dianzi, essa sarebbe apparsa egualmente inondata di sole agli occhi di Hester e di Dimmesdale" (La lettera scarlatta[7], p. 161).

Innaturale è dunque l'odio tra gli uomini; innaturalissimo quello tra i maschi e le femmine umane. Il medico del Macbeth, vedendo la regina malata e udendola sussurrare parole orrende, fa la sua diagnosi: "Unnatural deeds do breed unnatural troubles" (V, 3), atti innaturali generano turbamenti innaturali.
Innaturale qui è stato il delitto generato dall'ambizione.
 Un bel frammento di Menandro ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura "niente è tanto congeniale come l'uomo e la donna, a guardarci bene". Come poeta d'amore il massimo autore della commedia nuova[8] non può trascurare o biasimare tale inclinazione reciproca.
L'inimicizia delle donne nei confronti degli uomini ha avuto, almeno in passato, la genesi che Seneca attribuisce a quella degli schiavi per i padroni: "non habemus illos hostes, sed facimus" (Epist. ad Luc., 47, 5), non li abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.
Le lacrime manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[9], interessano le situazioni che grondano pianto. Il piangere, come scarso controllo delle situazioni, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio :"come sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'" pepragovsi )/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv. 608-609).
La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere pure piacevole:"avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn)", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (vv. 125-126).
 Nell'Elena di Euripide, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che dolore"(654-655).
La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà:"- Oh, lasciami bere - io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto"[10].

"Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich" (L'uomo senza qualità, di Musil, p.210)

Certo, dalla donna che ci fa soffrire si impara anche.
 Su questo possiamo sentire Proust:"Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere...Facendomi perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[11].

 Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la sofferenza ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore… quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[12].

 Perrotta confuta alcune interpretazioni dell’Antigone: "lasciamo stare l'interpretazione cristiana, che è di tutte quella assolutamente falsa. Ma è anche errata l'interpretazione di chi...riassume tutta la tragedia in un conflitto tra le leggi ideali ed eterne rappresentate da Antigone e le leggi scritte rappresentate da Creonte. Chi intende a questo modo il dramma, cade ancora nella interpretazione hegeliana, anche se ritiene di essersene liberato: importa relativamente poco s'egli sostituisce, alla tesi e all'antitesi che vedeva in questa tragedia l'Hegel, un'altra tesi e un'altra antitesi non troppo differenti"[13].
Sofocle secondo Perrotta aiutato da Goethe sostiene che Sofocle non parte da un’idea cui subordini le situazioni e i caratteri in quanto gli importano molto di più le situazioni e i caratteri (p. 117). Non c’è un conflitto tra due princìpi opposti, bensì tra due persone, tra due individui omni modo determinati. Solo parzialmente vera è l’interpretazione di Goethe che definisce Antigone “la più sororale delle anime”, ed è inaccettabile l’interpretazione di Kaibel (filologo classico tedesco, 1847-1901) che vede in Antigone una violenza selvaggia senza tenerezza né amore.


CONTINUA



[1]Moravia, La Noia , Bompiani, Milano, 1984, p. 345.
[2]D. Buzzati, Un Amore , Mondadori, Milano, 1965, p. 250.
[3] L'uomo e il divino pp. 258-259.
[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino p. 264.
[5] Epist. 60, 4.
[6] Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[7] Di Nathaniel Hawthorne, del 1850.
[8] "Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri", nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore, ricorda Ovidio (Tristia , II, 369).
[9] Cfr. :" sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
[10]L'Innocente.p. 145.
[11]M. Proust, Il tempo ritrovato , pp. 239 e 242.
[12] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[13]I tragici greci , p. 117.

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