venerdì 31 luglio 2020

Introduzione a Lucano. Sesta parte del poema "Pharsalia"


Argomenti
Il poema di Lucano e il Bellum civile del Satyricon. Prima parte

Come diversi storiografi antichi per la storia, così Hegel per l'epica legifera che l'argomento deve essere la guerra. Con una limitazione però: "Infatti di natura autenticamente epica sono solo le guerre fra nazioni straniere , mentre lotte dinastiche, guerre intestine, turbamenti civili sono più adatti alla rappresentazione drammatica (...) Da un punto di vista di un'azione epica di tal genere e quindi insufficiente, voglio ricordare solo la Farsaglia di Lucano"[1].

Giulio Cesare aveva capito l'importanza dell'annona (i prezzi del mercato) per attirare il favore della plebe: “ gnarus et irarum causas et summa favoris/annona momenta trahi”(Pharsalia, III, 55 - 56), consapevole che le cause delle ire e i movimenti estremi del favore popolare sono trascinati dai prezzi.

Lucano aveva irritato Nerone celebrando Catone presentato nella Pharsalia come incarnazione della virtus, mentre Giulio Cesare era considerato il distruttore della libertà. L’eroismo tragico di Catone si legge nel verso: “victrix causa deis placuit sed victa Catoni” (I, 128).
Nella Pharsalia l’ eiJmarmevnh non è provnoia benigna ma un fatum avverso, una invida fatorum series (I, 70). Il caso cieco con la vittoria di Cesare suggella la rovina di Roma: “sunt nobis nulla profecto - numina: cum caeco rapiantur saecula casu, - mentīmur regnare Iovem” (VII, 445 - 448), dei non li abbiamo di certo, le generazioni sono in balia del caso cieco, e affermiamo mentendo che regna Giove.

Lucano partecipò alla congiura e cercò di salvarsi denunciando la madre Acilia (cfr. Tacito, Ann. XV, 56, 58, 70). Invano.

La requisitoria pronunziata da Eumolpo in via per Crotone contro il nuovo indirizzo anti - virgiliano dell'epica, che sacrifica il mito alla storia, si può forse, secondo alcuni, anche a Lucano.
Nel Satyricon il poeta Eumolpo afferma la necessità di una cultura letteraria assai ampia e profonda per il raggiungimento di risultati significativi: "ceterum neque generosior spiritus vanitatem amat, neque concipere aut edere partum mens potest nisi ingenti flumine litterarum inundāta" (118, 3), del resto uno spirito di razza non ama il vuoto, né una mente può concepire o produrre un'opera se non è inondata dall'ampio fiume della letteratura. La polemica verte contro le velleità dei dilettanti pressocché improvvisatori. E' questo un discorso specifico sulla poesia che richiede comunque grande disciplina: i modelli sono Omero, i lirici, Virgilio e la curiosa felicitas (118, 5) l'accurata fecondità di Orazio. Chiunque vorrà comporre un'opera impegnativa come le guerre civili "nisi plenus litteris, sub onere labetur " (118, 6), se non sarà colmo di cultura letteraria, cadrà sotto il peso. Perciò non si devono presentare i fatti della storia con veste metrica, ma ci vuole ispirazione e capacità trasfigurativa.
I gusti di Petronio "in letteratura sia latina che greca sono classici: la sua critica a Lucano e al Bellum civile stesso indicano che è un ammiratore ortodosso della pratica poetica di Virgilio"[2].
Eumolpo in questo capitolo in effetti indica come modelli Omero e i lirici, Virgilio e Orazio e prescrive:"curandum est ne sententiae emineant extra corpus orationis expressae" (118, 5), bisogna evitare che le sentenze risaltino staccate dall'insieme della composizione.
Segue una tempesta che costa la vita a Lica. Quindi i nostri tre si avvicinano a Crotone..
 Eumolpo, per riempire il tempo del viaggio, recita un lungo carme di 295 esametri sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo. Questo Bellum civile che Eumolpo scriveva sulla nave (115, 2) tratta l'argomento della Pharsalia di Lucano cercando di ripristinare del resto i modi virgiliani. Diamogli una rapida scorsa.

La prima parte sostituisce alla prospettiva storica del poema lucaneo quella moralistica: i Romani avevano già occupato (globalizzato diremmo ora) il mondo e ancora non bastava:"orbem iam totum victor Romanus habebat,/qua mare, qua terrae, qua sidus currit utrumque./nec satiatus erat" (119, vv. 1 - 3), il Romano vincitore possedeva già l'universo mondo, per dove il mare, per dove le terre, per dove corrono l'una e l'altra costellazione. E non era ancor sazio.
Tale impianto del resto non è estraneo alla storiografia: si può pensare a Sallustio: "primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere " (De coniuratione Catilinae , 10) prima crebbe la brama del denaro, poi quella dell'impero, ed esse furono per così dire l'esca di tutti i mali.
Si può anche ricordare il discorso di Calgaco nell'Agricola di Tacito:"Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit" (30).

Torniamo a Eumolpo:"si quis sinus abditus ultra,/si qua foret tellus, quae fulvum mitteret aurum,/hostis erat, fatisque in tristia bella paratis/quaerebantur opes" (119, vv. 4 - 7), se c'era qualche golfo nascosto più in là, se qualche terra che esportasse biondo oro, era nemica, e preparato a tristi guerre il destino, si cercavano le ricchezze.
Non è affatto vero dunque che questo poemetto si limita a riproporre il repertorio mitologico virgiliano, né, tanto meno, lo fa in maniera governativa, anzi è totale la condanna dell'imperialismo avido.

Con toni non dissimili Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33, 1). 

Quanto all'oro che spinge ai delitti, nell'Eneide la decadenza delle età è collegata alla guerra e alla volontà di impossessarsi delle ricchezze:"Aurea quae perhibent illo sub rege fuere/saecula: sic placida populos in pace regebat,/deterior donec paulatim ac decŏlor aetas/et belli rabies et amor successit habendi " (VIII, 324 - 327), i secoli d'oro di cui si narra furono sotto quel re[3]: così reggeva i popoli in placida pace, finché un poco alla volta succedette l'età scolorita e la furia di guerra e l'amore del possesso.
Tuttavia Virgilio aspetta una rinnovata età dell’oro grazie ai suoi committenti.

Ovidio nelle Metamorfosi descrive l'ultima età, quella del ferro e del male integrale, quando omne nefas , ogni empietà, irruppe nel genere umano" fugitque pudor [4] verumque fidesque[5];/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et amor sceleratus habendieffondiuntur opes, inritamenta malorum; iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est./Imminet exitio vir coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede madentis,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (I, 129 - 131 e 140 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore criminale del possesso (…) si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto[6] e, più funesto del ferro, l'oro[7] era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace sconfitta la carità e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le terre sporche di strage.
 E' l'era della completa peccaminosità: dell'odio e della guerra di tutti contro tutti.
Analogamente Tibullo attribuisce il vizio della guerra alla brama dell'oro:"Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,/faginus adstabat cum scyphus ante dapes " (I, 10, 8 - 9), questa è una colpa del ricco oro, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti alle vivande.
Siamo già nell'età del business.

Continua
giovanni ghiselli


[1]Hegel, Estetica , pp. 1403 e 1404
[2] J. P. Sullivan, op. cit., p. 81.
[3] Saturno che diede alla terra dove si era rifugiato il nome di Latium , "his quoniam latuisset tutus in oris " (v. 323), poiché era rimasto latitante sicuro in queste contrade.
[4] Il pudore è considerato già da Esiodo uno dei pilastri del vivere umano e civile: nelle Opere il poeta afferma che nell'ultima fase dell' empia età ferrea gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d& ejn cersiv , v. 192) e se ne andranno Cavri" , Gratitudine, Aijdwv" Rispetto, Nevmesi" , lo Sdegno; quindi non vi sarà più scampo dal male "kakou' d& oujk e[ssetai ajlkhv" (v. 201).
Altrettanta forza, se non anche di più, ha il Pudore nella cultura latina:"Pudor è il senso morale per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a tutto ciò che nega i valori morali e religiosi. E' affine all' aijdwv" dei Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era una divinità oggetto di un culto importante; al culto della Pudicitia patricia la plebe aveva affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia plebeia ". (A. La Penna, C. Grassi, Virgilio, Le Opere, Antologia ., p. 373 ).
[5] Altro valore di base della civiltà latina. Cicerone nel De officiis (del 44 a. C.) dà una definizione della fides " Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas " (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti.
[6]E' un topos antitecnologico che risale a Erodoto: "il ferro fu inventato per il male dell'uomo" ( Storie, I, 68).
[7] Si può pensare anche a quello nero: il petrolio per il quale si è versato tanto sangue.

"Oreste" di Euripide. VI parte

Singer Sargent, Giovanni Oreste perseguitato dalle Erinni

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Oreste di Euripide. Traduzione mia dei vv. 356 - 400

Versi chiave (395 - 396)
Menelao
Che cosa soffri? Quale malattia ti distrugge? 395
tiv crh`ma pavscei" tiv" s j apovllusin novso";

Oreste
L’intelligenza, poiché so bene di avere compiuto azioni orrende.
hJ suvnesi" ‘, o{ti suvnoida deivn j eijrgasmevno"

------------------------------------------

Menelao
O casa, ti guardo da una parte con piacere
Arrivato da Troia, dall’altra però ne gemo,
mai infatti ho visto un altro focolare
più avvolto da un cerchio di mali sciagurati.
Già sapevo delle sventure toccato ad Agamennone 360
(e della morte, come venne ammazzato dalla moglie).
Mentre accostavo la prua al capo Malea, me lo annunciò
uscendo dalle onde il vate dei naviganti
Glauco, profeta di Nereo, dio veritiero,
che mi disse questo, postosi davanti ben visibile:
“Menelao, giace morto tuo fratello,
è caduto nei lavacri estremi della compagna di letto.
Riempii di lacrime me e i marinai miei,
di molte lacrime. Quando poi tocco la terra di Nauplia,
mentre mia moglie partiva diretta qui 370
e io credevo di abbracciare Oreste il figlio
di Agamennone e la madre,
pensando che stessero bene, sentivo da uno dei pescatori
l’empio assassinio della figlia di Tindaro. 374
E ora fanciulle ditemi dov’è 375
Il figlio di Agamennone, che ha osato misfatti terribili.
Era un infante tra le braccia di Clitennestra allora
Quando lasciai il palazzo andando a Troia,
sicché non lo riconoscerei se lo vedessi.

Oreste
Eccomi qui sono Oreste, di cui vai chiedendo; 380
di mia volontà ti rivelerò i miei mali.
Ma prima tocco le tue ginocchia,
da supplice aggiungendo le preghiere di una bocca priva di foglie.
Salvami : sei arrivato proprio nel momento opportuno delle sciagure.

Menelao
O dèi , che cosa vedo? Quale dei morti ho scorto?

Oreste
Hai detto bene: infatti per i miei mali io non sono vivo, ma vedo la luce.

Menelao
Come ti sei inselvatichito nella chioma sudicia, infelice!

Oreste
Non l’aspetto mi tortura, ma le azioni

Menelao
Guardi in maniera terribile con le dure pupille degli occhi

Oreste
Il corpo è disfatto, ma il nome non mi ha lasciato. 390

Menelao
Oh la tua deformità che mi è apparsa inattesa

Oreste
Sono qui: l’assassino della misera madre

Menelao
L’ho sentito, risparmia in modo da raccontare i mali con poco

Oreste
Risparmiamo, però il destino con me è lauto dispensatore di mali.

Menelao
Che cosa soffri? Quale malattia ti distrugge? 395 - tiv crh`ma pavscei" tiv" sj apovllusn voso" ;

Oreste
L’intelligenza, poiché so bene di avere compiuto azioni orrende. hJ suvnesi" ‘, o{ti suvnoida deivn j eijrgasmevno"

Menelao
Come dici? sapere è la chiarezza, no ciò che chiaro non è.

Oreste
E’ la sofferenza che mi distrugge più di tutto.

Menelao
Terribile è infatti la dea, ma comunque è curabile.

Oreste
E gli attacchi di follia, vendette del sangue della madre 400

giovanni ghiselli

Il coraggio e la forza della solitudine

La maggior parte della gente vive nella menzogna per incapacità  di  stare nella solitudine. Si sposano senza amore, fanno un lavoro che il annoia o disgusta, mettono al mondo dei figli perché hanno visto farlo dagli altri. La sera giocano a carte.  Entrano nel primo gregge che segue l’ultima moda. Vanno dove “si deve” andare, dicono quello che”si deve” dire. Dall’elogio del nazismo a quello del comunismo o del liberalismo, indifferentemente.
Pur di seguire il branco.
 Guai a chi è fuori moda, anche se ne anticipa e prefigura più di una!
 Chi vuole stare nella verità, parlare e agire secondo le proprie convinzioni, è costretto alla solitudine dalla massa conformista.
Ma chi ha il coraggio di rimanere solo piuttosto che imitare l’insignificanza dei babbuini travestiti da uomini, preferisce il suo  eremitaggio. Meraviglioso, tragico o sordido che sia

giovanni ghiselli

p. s.
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Debrecen. 7. La festa della conoscenza del 1979


La festa della conoscenza del 1979

Adesso è già tempo di tornare a Debrecen, nel luglio del 1979, quando Ifigenia e io volemmo mettere alla prova la solidità del nostro amore, iniziato nel precedente novembre, con il distacco reciproco di un mese passato in ambienti non privi di tentazioni erotiche.
La giovane donna era andata in vacanza a Riccione, da sola.
Partii da Bologna domenica 22 luglio con Alfredo, l’amico ora compianto e rimpianto. Arrivammo nell’Università estiva situata in mezzo alla grande foresta dopo una sola giornata di viaggio: come puoi immaginare, lettore, conoscevo assai bene la strada. Il pomeriggio del 23 c’era la festa iniziale: quella della conoscenza tra gli ospiti, l’occasione di approccio che negli anni passati mi era servita a incontrare la donna dell’amore mensile con il quale soddisfacevo il mio desiderio di apprendimento della vita e il bisogno di unione con donne non insignificanti. L’ambiente di studenti e professori dotati di educazione accademica, linguistica o letteraria per giunta, mi era congeniale: si prestava a refrigerare queste mie arsure e a dissetarle. Con Helena, Kaisa e Päivi avevo gioito e sofferto, comunque avevo approfondito la conoscenza di me stesso secondo il precetto delfico interiorizzato.
Nel 1979 ero molto meno insicuro e infelice rispetto al primo approdo nella città universitaria magiara, la sera remota di tredici anni prima.
Ero molto rassicurato sul mio conto grazie alle tre Finlandesi e pure a Ifigenia, la bella supplente conosciuta meravigliosamente in un pomeriggio nevoso del novembre precedente.
Durante la festa di quella sera di luglio i giovani si davano da fare per trovare l’amore. Io invece non lo cercavo poiché ero quasi certo di averlo già e di potere impiegare le mie forze spirituali per osservare, ascoltare, le persone con mente teoretica e contemplativa, senza volere niente altro che imparare indagando. In fondo individuare tra un centinaio di donne quella a me destinata, innamorarmene con tutta l’anima, convincerla a contraccambiarmi, parlando in inglese oltretutto, per un mese intero e teso come le corde di un violino prossime a spezzarsi, cioè entro settembre, era stato non solo un destino benigno ma anche una grande fatica necessaria e pure voluta: “oujc ujma`" daivmwn lhvxetai, ajll j ujmei`" daivmona aiJrhvseqe”, non sarà il demone a sorteggiare voi, ma voi sceglierete il demone. Parola di Lachesi, la vergine figlia di Ananche[1].
Il destino lo avevo scelto in novembre, verso le 5 del pomeriggio già buio.

giovanni ghiselli. Pesaro 31 luglio 2020 ore 11, 15       

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[1] Cfr. Platone, Repubblica, 617 d-e


giovedì 30 luglio 2020

Apuleio e Plutarco sulle vesti di lino


Nell’ultimo libro del romanzo di Apuleio, Lucio ancora in forma di asino una notte si sveglia, vede la luna, immagine di Iside, e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (Metamorfosi, 11, 2), rendimi al Lucio che sono.
La dea è come la madre invocata da Prometeo: "Qevmi" kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva


" (Eschilo, Prometeo incatenato,  vv. 209-210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi.
Quella invocata da Lucio può essere chiamata Cerere, Venere Celeste, Diana, Proserpina. Cerere, Venere e Diana sono i tre aspetti luminosi della dea cosmica; Proserpina, nocturnis ululatibus horrenda, è l’aspetto oscuro.
Quindi Nel sonno a Lucio  appare una divina figura, una dea con foltissimi, lunghi capelli, con una veste di lino sottile, dal colore cangiante, ora candida, ora gialla come fiore di croco, ora rossa. Era coperta da una sopraveste di un nero splendente.

Il lino
In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa, offre riparo dal calore, è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F.

Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).

A me sembra empio che mi si costringa a mettere un golf di lana quando passo dai 30 gradi dell’aria naturale ai 15 o 16 di quella gelida e piena di germi rigettata continuamente dai condizionatori.

giovanni ghiselli

Introduzione a Lucano. Quinta parte del poema "Pharsalia"

guerre civili romane
Pieter Last Mann, Battaglia tra Costantino e Massenzio

Argomenti
La guerra civile ha desertificato l’Italia. La virtù della moderazione. Medea e Cesare. Trasvalutazione delle parole. Il male della navigazione.
La critica di Huysmans.

Lucano attribuisce la desertificazione dell’Italia non a guerre contro nemici esterni come Pirro o Annibale ma a quelle civili: le mura pencolano su case già mezzo crollate, massi enormi caduti da muraglioni in rovina giacciono a terra, le dimore abbandonate non sono custodite da alcuno, pochi abitanti vagano per le antiche città, e l’Esperia è irta di cespugli (horrida quod dumis) e non viene arata per molti anni multosque inarata per annos (Pharsalia, I, 28 ) e mancano le mani ai campi che le richiedono (Hesperia est desuntque manus poscentibus arvis, 29).

La virtù che consiste nell'evitare la dismisura si presenta frequentemente nella letteratura antica.
La moderazione appartiene al Catone Uticense della Pharsalia, celebrato da Lucano come uomo ricco di virtù in testa alle quali c'è quella serbare la giusta misura ("servare modum ", II, 381). Conseguono a questo mos altri non meno buoni:" finemque tenere/naturamque sequi patriaeque impendere vitam/nec sibi sed toti genitum se credere mundo" (II, 381 - 383), attenersi al giusto limite, seguire la natura, spendere la vita per la patria, e credersi nato non per sé ma per tutto il mondo.

Il quarto coro dell'Oedipus di Seneca raccomanda di evitare ogni eccesso:" Quidquid excessit modum,/pendet instabili loco " (vv. 909 - 910), tutto ciò che ha oltrepassato la giusta misura, vacilla su un appoggio instabile.
La dismisura è svantaggiosa: commodus, “vantaggioso” e commodum, “vantaggio”, sono connessi etimologicamente a modus.

Lucano, che aveva scritto una tragedia su Medea, mette in rilievo la crudeltà della barbara paragonata con quella non meno efferata di Cesare:" Sic barbara Colchis/creditur ultorem metuens regnique fugaeque/ense suo fratrisque simul cervice parata/expectasse patrem" (Pharsalia, X, 464 - 467), così si crede che la barbara della Colchide temendolo quale vendicatore del regno e della fuga, abbia aspettato il padre con la sua spada e nello stesso tempo con la testa del fratello già pronta [1].
 Nello stesso modo Cesare trascinava Tolomeo per farne una vittima espiatoria e scagliarne il capo contro i suoi servitori durante la guerra alessandrina.

Nella Pharsalia di Lucano è il potere delle armi rabbiose che porta alla trasfigurazione delle parole: "Imminet armorum rabies, ferrique potestas/confundet ius omne manu, scelerique nefando/nomen erit virtus, multosque exībit in annos/hic furor" (I, 666 - 669), incombe la rabbia delle armi, e il potere del ferro sfigurerà ogni diritto con la violenza, e virtù sarà il nome di delitti nefandi, e questo furore durerà molti anni.

La Tessaglia è la terra delle streghe: “damnata tellus fatis ( Pharsalia, VI, 413).
Lì nacque l’uso di contare il denaro quod populos scelerata impēgit in arma (VI, 406) cosa che spinse i popoli alle guerre scellerate.
 La magia vuole essere controllo del mondo per mezzo dell’irrazionale. La strega tessala più famosa è Erichto congiurata con il Caos: “innumeros avidum confundere mundos” (Pharsalia, VI, 509).

Il male della navigazione
Exigit poenas mare provocatum” (Seneca, Medea, v. 616).
Il mare sfidato che la fa pagare ai provocatori si trova anche nella Pharsalia di Lucano:"Inde lacessitum primo mare, cum rudis Argo/miscuit ignotas temerato litore gentes/primaque cum ventis pelagique furentibus undis/composuit mortale genus, fatisque per illam/accessit mors una ratem" (III, 193 - 197), di qui[2] il mare per la prima volta provocato, quando l'inesperta Argo mescolò genti che non si conoscevano sulla costa profanata, e per prima mise la razza umana alle prese con i venti e con le onde furiose del mare, e una morte attraverso quella nave si aggiunse ai fati.
Viene condannata la confusione conseguente alla negazione del principium individuationis. Ancora l' u{bri" di Serse.

Sentiamo Huysmans su Lucano e altri autori latini

“Né molto più di Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l'eccesso contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto, stitichezza incredibile e sconveniente.
 Sallustio, pur sopravvalutato dai "falsi letterati" era "meno sbiadito degli altri; Tito Liviopatetico e pomposoSenecaturgido e scialboSvetoniolinfatico ed embrionale.
Si salva Tacito:"il più nerboruto nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso di tutti costoro”.
A Des Esseintes non dispiaceva nemmeno Lucano
Con la Pharsalia il latino si liberava dalle sue pastoie, diventava meno mortificato, più espressivo. Quell' armatura cesellata, quei versi smaltati, ingioiellati se lo cattivavano; ma la preoccupazione esclusiva della forma, quelle sonorità verbali, quegli squilli di metallo non riuscivano a celargli del tutto il vuoto di pensiero, le ampollosità che seminano di tumori la superficie della Farsalia" (Huysmans, Controcorrente, p. 44)
 "L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Ecco finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso (…) Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando - conquideva Des Essaintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano"[3]

giovanni ghiselli. Pesaro 30 luglio 2020, ore 16, 50

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[1] Per essere tagliata.
[2] Da Iolco, patria di Giasone.
[3] J.K. Huysmans, Controcorrente, p. 43 e sgg.

Argomenti della Montagna incantata II- per la conferenza dell’otto aprile.

  Parti del Quinto capitolo. Da Capricci di Mercurio a Notte di Valpurga.   I tisici dissoluti. Le storie d’amore erano attraent...