sabato 31 marzo 2012

Il lavoro – di Giovanni Ghiselli






Forse è opportuno aggiungere
ai tecnicismi a volte anche oscuri che girano ovunque a proposito del lavoro,
di chi non lo trova, di chi lo perde, di chi è flessibile come una canna al
vento, di chi, con termine orrendo, è “esodato”, qualche parola chiara sul
significato culturale e umano dell’idea, e della parola bella, “lavoro”.
 








Il lavoro costituisce una parte
non piccola dell’identità dell’uomo, della sua dignità e, quando è fatto bene,
con cura, con amore, esso attribuisce pure alle cose da lui formate forti
significati, se non anche armonia e bellezza. Da Odisseo che  costruisce con le proprie mani il letto
nuziale, per giacervi con la moglie, e la zattera per tornare da lei, l’uomo è
animale polymèchanos, industrioso, e
non può rimanere a lungo inattivo senza ammalarsi, in certi casi addirittura
senza morire. Infatti Odisseo che nell’isola di Ogigia poteva avere tutto
quanto gli procurava l’amante Calipso, eternamente giovane, bella e molto
innamorata di lui, ma non aveva il lavoro, né l’amore, andava a piangere sulla
riva del mare, guardando l’orizzonte poiché quella vita inattiva, simile alla
morte, e la ninfa immortale, non gli piacevano più.  Sono parole del V canto dell’Odissea di Omero che con questo episodio
ci dà uno dei suoi insegnamenti più grandi. Ulisse che non può stare senza fare
niente, e piange, è il paradigma mitico degli uomini che si disperano, in casi
estremi si uccidono, poiché hanno perduto il lavoro e con tale perdita,
smarriscono spesso la stima, perfino il rispetto di se stessi. E quando non lo
ritrovano, talvolta cercano di recuperarlo togliendosi la vita in preda a una
cieca disperazione. 


 Ma colei che ha in mano la vita di Odisseo,
Calipso, lo ama, e non lo tratta come fa chi getta i lavoratori in mezzo a una
strada, o in un fiume in piena facendone degli esodati, neologismo orribile,
inventato per confondere, un vocabolo  che con bisticcio non troppo arbitrario evoca
la parola “inondati”. Calipso dunque, pur soffrendo il distacco, voluto solo
dall’amante, lo aiuta a partire, con cuore amico, in modo che possa cavarsela
nella difficile traversata marina. “Ti procuro  quello che a me stessa procurerei, perché ho
mente giusta e non nel mio petto non c’è un cuore di ferro, ma compassionevole ”,
dice all’uomo in fuga, siccome non vuole che muoia tra le onde. Consiglio la
lettura di questo episodio a donne e uomini che hanno in mano destini di donne
e di uomini.


Odisseo dunque costruisce  la zattera del bramato ritorno. A Itaca lo
aspetta la fedelissima moglie Penelope. Ma quando l’atteso e agognato marito
arriva, pure lui agognante, la sposa stenta a riconoscerlo poiché sono
trascorsi vent’anni dall’ultima volta e l’uomo ne ha passate di tutti i colori:
ha patito molti dolori, prima nella guerra di Troia, poi nel ritorno sul mare “cercando
di salvare la sua vita e il ritorno dei compagni”. Solo lui ce l’ha fatta, grazie alla sua intelligenza, pazienza,
accortezza. Arrivato a casa sua, dove ancora  ha dovuto lottare e soffrire per eliminare i
nemici interni, i proci oziosi e invadenti, finalmente seduto davanti alla
moglie, le descrive il loro letto nuziale, un oggetto particolare che lo sposo
aveva costruito con le sue mani su un tronco d’olivo con le salde radici
fissate nel suolo, mettendoci perizia, ingegnosità e amore. Quel letto costituisce
“un segno sicuro ” di riconoscimento, assume il significato di un simbolo,
quello dell’intesa profonda tra un uomo e una donna. E’ il segno inoppugnabile
del quale la sposa si fida. Tale è l’oggetto del lavoro e tale dovrebbe essere
il lavoro stesso, una certezza di cui potersi fidare, per mettere su una casa,
permettersi “il lusso” di una famiglia con dei figli. Chi non è assicurato da
un impiego sicuro, saldamente radicato in un terreno solido, è in balia delle
onde in un mare di inquietudini e tormenti, un pelago terribile che talvolta fa
naufragare la nave dell’identità e inghiotte il naufrago, per sempre.


Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it

mercoledì 14 marzo 2012

Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas - recensione di Giovanni Ghiselli







Francesca Nodari 


E’ appena uscito un libro molto denso di Francesca
Nodari:
Il pensiero incarnato in Emmanuel
Levinas (Morcelliana). 
La giovane
studiosa è direttore scientifico del Festival Filosofi lungo l’Oglio e
collabora alla cattedra di Filosofia teoretica dell’Università di
Milano-Bicocca. 







Alle origini del pensiero incarnato ci sono i Carnets de captivité che sono stati
pubblicati nel 1909, diversi anni dopo la morte (1905-1995) del filosofo ebreo-lituano
che fu prigioniero di guerra dei nazisti. Il corpo viene rivalutato dalla
svalutazione operata dai vari spiritualismi. Già Leopardi aveva scritto:“
anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili.
Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al
corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito; e appunto volendo
coltivare lo spirito, rovina il corpo, senza avvedersi, che rovinando questo,
rovina a vicenda anche lo spirito”
[1].




L’autrice, nella Prefazione, cita lo Zarathustra di Nietzsche: “Io sono tutto corpo e nulla al di fuori di questo”. Platone viene più volte confutato dal filosofo naturalizzato francese: Eros non è figlio di Poros e Penia, non nasce dalla mancanza, incarnata dalla madre, e non è fusione di due esseri, ma è la presenza di due persone distinte. Nell’eros è la dualità che diviene la gioia stessa.  “Versus Platone, Levinas insiste nel sottolineare come nell’amore non si dia l’unione tra due esseri…ma che ci siano due esseri, due soggetti incarnati, la cui dualità è costitutivamente insuperabile”. Il numero stesso, scrive Levinas “è sempre una riflessione almeno sul due”.

La fusione  confutata da Levinas  viene considerata quintessenza dell’amore   da Dostoevski:"questo amore mi tortura, mi tortura!...Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo
infernale, ma adesso 
tutta la sua anima l'ho trasfusa nella mia, e grazie a lei
anch'io sono diventato un uomo!"
[2],
dice Dimitri Karamazov di Gruscenka.




 Riguardo a quanto si vede della persona umana,
l’accento cade sul volto: “Il volto non è in effetti un insieme di elementi
anatomici: occhi, naso, bocca etc.-ma la possibilità del denudamento totale-la
forma che si smaschera”. Già nella Parodo dell’Edipo re di Sofocle, il Coro chiede ad Atena: “manda un rimedio dal
bel volto (v. 189). La polis è
travagliata da peste, fame e dalla guerra, come l’Europa nel tempo della
prigionia di Levinas.




La
colpa che consegue al dono della libertà è un altro concetto che si trova nei
quaderni del filosofo ed riconducibile alla tragedia greca: il Prometeo di
Eschilo si gloria di avere trasgredito l’ordine con la sua hybris santa che ha beneficato gli uomini:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di
mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò / aiutando i mortali
ho trovato io stesso le pene "(265-267). Nietzsche parla di dignità
conferita al delitto. E’ la felix culpa
focalizzata dalla Nodari. Infine il filosofo coglie l’essenza del giudaismo nel
“paradossale rovesciamento della sofferenza suprema in felicità”. I prigionieri
di guerra come Levinas, diversamente dagli ebrei sterminati nei lager nazisti,
sono in buona parte scampati alla morte e hanno potuto riflettere sul loro
dolore, al pari di Isacco che ha camminato per tre giorni verso il luogo del
proprio sacrificio. “E’ grazie a tale dilazione di rotta che la prova è
feconda”, Così Levinas e altri prigionieri di guerra ebrei hanno avuto il tempo
di chinarsi sulla loro disgrazia e di interrogarsi. E nella loro pena hanno
riconosciuto il dolore di tutto il mondo. Dopo Giobbe, il giudaismo sa scoprire
nei patimenti  stessi i segni
dell’elezione. Eschilo nell’Agamennone
ha scritto: “attraverso la sofferenza, la comprensione (177). Levinas ha
trovato possibile questo capovolgimento del dolore nella felicità. “Tutto il
cristianesimo è già contenuto in questa scoperta”.   




    










[1]
G. Leopardi, Operette morali, Dialogo di
Tristano e di un amico
.






[2]F.
Dostoevskij, I fratelli Karamazov  (del 1880), p. 709.



giovedì 8 marzo 2012

Lo sviluppo e la civiltà  antiumana - di Giovanni Ghiselli



Al presidente della
Repubblica sta a cuore “garantire lo sviluppo” e, ossimorica-mente, eliminare
la violenza. Credo che sia invece necessario opporsi al feroce Leviatano dello
sviluppo industriale che violenta la natura, reagire alla fede maligna nella crescita
ipertrofica, tumorale dei consumi, contrastare l’imperialismo guerrafondaio e
nemico dell’uomo.









A questi mali dobbiamo
contrapporrre l’intelligenza e la volontà del progresso, ossia di una crescita
in termini morali e umani, mettendo davanti a ogni altra cosa la felicità di
tutti gli uomini. Infatti gli interessi dei banchieri, dei finanzieri, delle
multinazionali non coincidono con quelli  degli uomini umani.


I poveri dell’Africa,
dell’Asia e ora anche dell’Europa e della nostra Italia, forse la parte
migliore, certo la maggiore dell’umanità.


 Posso fornire molte testimonianze nobili,
antiche e moderne, a sostegno di questo mio credo.


Partiamo dalle moderne, da
quella assai nota di Pasolini che ha pagato con la propria vita le denunce
rivolte alle mafie del potere.


" E' in corso
nel nostro paese…una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno
avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la
televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi:
sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso
culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di
spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio
culturale per due terzi almeno degli italiani"[1].


Questa nostra
epoca di regresso culturale e di odio diffuso tra gli uomini, ricorda l’età del
ferro di Esiodo, l’era della compiuta peccaminosità, quando nel mondo regnava
la violenza.


“Abbiamo
bisogno di un concetto più ricco e complesso dello sviluppo, che sia nello
stesso tempo materiale, intellettuale, affettivo, morale…Il XX secolo non è
uscito dall’età del ferro planetaria, vi è sprofondato”
[2].


Durante
l’età del ferro non c’era niente di buono e bello: nemmeno la giovinezza: i
bambini nascevano con le tempie bianche, e, appena potevano, picchiavano i
genitori. “Essi disprezzeranno i genitori, appena cominceranno a
invecchiare..,usando il diritto del più forte”
[3].  


“L’umanesimo non dovrebbe più essere portavoce
dell’orgogliosa volontà di dominare l’Universo. Diviene essenzialmente quello
della solidarietà fra umani”
[4]. Umanesimo è, infatti,
amore per l’umanità.


Il Galileo di Brecht, nell'ultima scena del
dramma, afferma il dovere morale di rendere il sapere funzionale al bene
dell'umanità:"Che scopo si prefigge il nostro lavoro? Non credo che la
scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare le fatiche
dell'esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione
dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza
può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di
nuovi triboli per l'uomo".


Ma torniamo alle fonti della nostra cultura
e della nostra civiltà.


Il quinto canto dell’Odissea è quello della zattera di Ulisse ( jOdussevw~ scediva). 
L’eroe omerico, l’eroe della curiosità e della conoscenza, costruisce
con le proprie mani, e i pochi attrezzi fornitigli da Calipso, una larga
zattera con tanto di timone e vela: “e lui fabbricò bene anche quella” (v. 259).


I versi di Omero indugiano nella
descrizione degli strumenti e dell’uso che sanno farne le abili mani
dell’Itacese. Gli oggetti sono maneggiati con perizia per tre giorni, fino al
compimento dell’opera.  


Tolstoj “notò che, nei poemi omerici, perfino la
minuta descrizione di un vaso di bronzo o di un particolare tipo di zattera
irradia una vitalità che non ha eguali nella letteratura moderna…Hegel si chiedeva se il modo di produzione
semi-industriale e industriale non avesse reso gli uomini estranei agli
attrezzi, agli strumenti e alle altre suppellettili della loro vita. E'
un'ipotesi molto acuta, su cui insiste Lukács. Ma quale che sia la ragione
storica, Tolstoj torna a misurare la realtà esterna con una sorta di immediata
consanguineità. Nel suo mondo, come in quello di Omero, i berretti degli uomini
devono il loro senso, e la loro inclusione in un'opera d'arte, al fatto di
ricoprire le teste dei medesimi"[5].


Leggiamo alcune parole dell'Estetica  di Hegel:" Ciò
di cui l'uomo ha bisogno per la vita esterna-casa e corte, una tenda, una
seggiola, un letto, la spada, la lancia, la nave su cui attraversa il mare, il
carro che lo porta in battaglia, il cuocere e arrostire i cibi, l'abbattere la
preda, il mangiare e bere-niente di tutto ciò deve essere divenuto per lui
soltanto uno strumento morto, ma egli vi si deve sentire vivo con tutta la sua
sensibilità, con tutto se stesso, e quindi deve dare a quel che è in sé esterno
un'impronta individuale animata umanamente, collegandolo strettamente con
l'individuo umano"[6].


E’ la cosa dunque deve avere l’impronta dell’uomo,  non viceversa.


Dopo la zattera, altro oggetto dell’Odissea fatto a mano, dalle mani di un
principe, è il letto. In alcune tragedie di Euripide il letto è il mobile più
importante della casa: Alcesti in punto di morte gli parla e lo bacia prima di
morire[7]. Nel poema di Virgilio, Didone, prima di uccidersi
preme le labbra sul letto che conserva l’impronta sua e quella di Enea[8].


Nell’Odissea
il letto, quello che Penelope chiama “il nostro letto”[9], è il segno certo di riconoscimento tra i due sposi,
dopo venti anni che non si vedevano.


“Il letto racchiude tutti gli aspetti dell’esistenza
di Ulisse: il rapporto religioso con Atena, perché egli l’ha lavorato
nell’ulivo: l’identità, l’ostinata irremovibilità del carattere: ricorda il
matrimonio con Penelope, la fecondità della moglie, la casa cresciutagli
intorno, il suo potere di re; fonda natura e cultura, le radici ancora vive e
l’opera delle sue mani artigiane. Il letto è il “grande segno” segreto, che
soltanto lui, Penelope e un’ancella conoscono. Forse è sfuggito persino agli
dèi mascherati che spiano le sue vicende. Ulisse aveva conosciuto un altro
centro: Ogigia, l’ombelico del mare, il centro del mondo mitico. Il letto di
ulivo è l’ombelico della realtà: lui aveva preferito una volta per sempre il
mondo reale, dove si soffre e si muore, a quello mitico dove non si soffre e
non si muore…Ora, mentre marito e moglie stanno finalmente per abbracciarsi, Ulisse
descrive con un piacere minuzioso come, più di vent’anni prima, aveva costruito
il letto. Anche qui, la tensione narrativa viene rallentata. Ulisse descrive,
in primo luogo a se stesso, l’oggetto fondamentale della sua vita-che teme
perduto per sempre. Mentre lo descrive, il furore si quieta. Con quale piacere
racconta il suo capolavoro di artigianato: come costruì la stanza da letto
attorno a un ulivo rigoglioso: la coprì con un tetto, vi appose una porta,
recise i rami dell’ulivo, sgrossò il tronco, lo piallò, lo fece diritto col
filo, traforò il legno col trapano, piallò il letto, lo placcò d’oro, d’argento
e d’avorio, vi tese le cinghie del bue…Con questo letto così amorosamente
lavorato, ha inizio la corona di oggetti privilegiati attorno ai quali si
svolge la cultura occidentale: la ciotola di Robinson, il profumo di
Baudelaire, le marmellate di Tolstoj, la madeleine
di Proust, la seggiola di van Gogh; oggetti stabili, “solidamente fissati nel
suolo”, ai quali abbiamo donato il nostro cuore. Appena Ulisse rivela il
“grande segno”, le ginocchia e il cuore di Penelope si sciolgono, come accade
nell’amore, nel sonno e nella morte. Il letto costruito nell’ulivo è il segno
sicuro, del quale può fidarsi”[10].


Allora il signore si rapportava  direttamente alla cosa, non ancora “in guisa
mediata, attraverso il servo”[11]. Il letto di Odisseo è suvmbolon,
segno di riconoscimento con-diviso da 
due sposi; oggi le cose freneticamente consumate, nella mente dei più
devono simboleggiare e significare ricchezza del consumatore, spesso devono
nascondere la povertà della quale il consumista si vergogna.  


Insomma, nell’Odissea
è la forma umana che si imprime sugli oggetti i quali vengono così umanizzati;
nella civiltà industriale, e postindustriale viceversa viene reificato e
mercificato l’uomo.  “La forma di merce è
la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni
della vita”, chiarisce György Lukács in Storia
e coscienza di classe
[12]. Tale  sviluppo
metastatico condannato dal filosofo ungherese piace invece molto ai “nostri”
politici, a partire dall’autorevole presidente della Repubblica.  Del resto non manca una certa coerenza: Lukács
fu ministro dell’istruzione nel governo di Imre Nagy che nel 1956, venne fatto
cadere dall’intervento sovietico approvato da Napolitano. Più tardi, caduto il
regime sovietico, il futuro presidente si scusò, ma intanto  Nagy e tanti altri ribelli repressi erano
stati soppressi, per lo più impiccati.


Adesso però torniamo agli antichi, ché è meglio.


Prometeo, il presunto benefattore tecnologico, è un
personaggio negativo in quasi tutti gli autori. Il biasimo dipende proprio dal
fatto che il Titano è un latore di sviluppo, lo sviluppo tanto caro al signor
Napolitano, di sviluppo dunque senza progresso.


Nel
Protagora di Platone, il sofista racconta che Prometeo donò all’umanità
il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica.
Allora i mortali commettevano ingiustizie reciproche (
hjdivkoun
ajllhvlou"
) in quanto non possedevano l'arte politica (a{te oujk
e[conte" th;n politikh;n tevcnhn
, 322b). Senza questa, che deve essere fondata
sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano: quindi
Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie, mandò Ermes a portare tra
gli uomini rispetto e giustizia affinché questi valori costituissero gli ordini
delle città: "
JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai;
divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi
" (322c). Chi non li avesse accettati,
doveva essere ucciso come malattia della polis
(322d).


Il personaggio Socrate, nel Gorgia  di Platone, afferma che Pericle e prima di lui
Temistocle e Cimone, non hanno reso grande la città, come si dice, in quanto essa è diventata piuttosto  gonfia
e purulenta (oijdei`
kai; u{poulo~ ejstin
, 518e) poiché l’
hanno riempito di porti, di arsenali, di mura, 
di contributi e di altre sciocchezze del genere, senza preoccuparsi  dell’equilibrio e della giustizia" (a[neu ga;r swfrosuvnh~ kai;
dikaiosuvnh~,
519a).


Quando il bubbone esploderà,
gli Ateniesi se la prenderanno con gli ultimi politici, come  Alcibiade o lo stesso Callicle, i quali non
sono responsabili dei mali, ma semmai corresponsabili (519b).


Sarebbe stato Pericle infatti
a rendere gli Ateniesi pigri (ajrgouv~),  vili (deilouv~)  ciarlieri (lavlou~),
amanti del denaro (filarguvrou~), avendo introdotto la misqoforiva
(515e)[13].





Il capo della povli~ insomma dovrebbe prendersi cura non solo
del benessere materiale ma anche e soprattutto di quello morale e mentale dei
governati.





Nel
Politico, Platone fa dire allo
straniero di Elea che l’arte politica  consiste nell’ avere cura dell’intera comunità
umana (
ejpimevleia
dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~,
276b). Il guidare gli uomini come fanno i
pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla
qreptikh;n  tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai;
politikhvn tevcnhn
(276c), non arte regia e arte politica. Infatti il re e l’uomo
politico è quello che si prende cura (
ejpimevleian
di uomini bipedi che liberamente l’accettano (
eJkousivwn dipovdwn, 276d ).


 Questa idea  di humanitas
  è stata e sarà ripresa nei secoli dei
secoli, perfino da alcuni capi di Stato.


Marco
Aurelio, imperatore (161-180 d. C.)  e
filosofo, scrive: “noi siamo nati per darci aiuto reciproco (
pro;" sunergivan), come i piedi, le
mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura (
to; ou\n
ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin
)[14].


Chi
agisce contro il prossimo, chi uccide, danneggia, umilia, calunnia gli uomini,
opera contro natura.


Napolitano
di recente ha approvato i bombardamenti inflitti al popolo libico. Questo forse
per lui era sviluppo e non era violenza.


Sarebbe
invece violenza quella dei Valsusini che si oppongono allo sconcio
squarciamento della loro valle. Comunque il “nostro” presidente ha dato un’altra
prova di coerenza: quella di stare sempre dalla parte del più forte, dato che,
come nell’età del ferro, oggi vige il diritto del più forte. Non in mio nome.


In Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne[15] 
leggiamo:" Nessun uomo è
un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del
tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse
stato spazzato via un promontorio..la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce,
perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi
suona la campana (for whom the bell tolls
[16] ); suona per te”. Questo dovremmo pensare
tutti, quando si progettano e propugnano bombardamenti, quando gli
automobilisti ammazzano pedoni e ciclisti gratis, cioè senza pagarne il fio,  poiché le automobili devono essere vendute ed
è più facile venderle, se chi le guida ha licenza di uccidere. Tanti mentecatti
e criminali impotenti si sentono potenti quando ammazzano pedoni e ciclisti.


Chiudo l’anello
tornando a Pasolini il quale si chiede
“Chi vuole lo sviluppo?”[17].  La risposta è
che “a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli
industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli
industriali che producono beni superflui…I consumatori di beni superflui, sono
da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo
“sviluppo” (questo “sviluppo”). Per
essi significa promozione sociale…Chi vuole, invece, il “progresso”?...lo vogliono
gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e
chi è dunque sfruttato…Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e
politica) : là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico” [18].  L’economia
adesso regna sovrana e chi la controlla è il burattinaio della pupazzata
pseudopolitica, ma  “per quanto parli di economia, il nostro tempo è un
dissipatore: sperpera la cosa più preziosa, lo spirito”[19].


Provate a leggere qualche
libro, qualche volta, signori pupazzi della 
grande baracca televisiva!





Giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it














[1]
Scritti corsari, p. 286.




[2]
E. Morin, I sette saperi, p. 70.




[3]
Opere e giorni, v. 185 e v. 189.




[4]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 101.




[5]G.
Steiner, Tolstoj o Dostoevskij , p.
56.




[6]
Hegel, Estetica, pp. 1392- 1393




[7]
Euripide, Alcesti, vv. 177-183).




[8]
Virgilio, Eneide, IV, 659.




[9]
Odissea, XXIII, 226.




[10]
P. Citati, La mente colorata, p. 272.




[11]
In questo caso cito Hegel  (dalla
Fenomenologia dello spirito) in maniera mediata, attraverso Remo Bodei  in Hegel e la dialettica, p. 47.




[12]
P.. 109.




[13]
Si tratta di una modesta retribuzione delle cariche introdotta verso il 457:
due oboli al giorno (la paga di un operaio) per gli eliasti (hJliastikovn), e 5 oboli per i buleuti (misqov~). Un
compenso da burla rispetto a quelli che ricevono palesemente e sottobanco gran
parte dei nostri parlamentari.







[14]
Ricordi , II, 1




[15]
1572-1631




[16]
E', notoriamente, il titolo di un romanzo di 
Hemingway, 1940




[17]
Scritti corsari, p. 219




[18]
Scritti corsari, p. 220




[19]
Nietzsche, Aurora, p. 130.



sabato 3 marzo 2012

Epitaffio per Lucio Dalla - di Giovanni Ghiselli






Lucio Dalla

E’ morto Lucio Dalla e Bologna è tutta in lutto. Per questa città Lucio Dalla era la musica, e per il cantautore morto l’altro ieri, pochi giorni prima del suo sessantanovesimo compleanno la musica era preghiera. 


Allora, ricordate queste identificazioni, al
fine di rendere un omaggio affettuoso a Lucio con il quale se ne va, senza
retorica, qualche cosa della vita di tutti gli Italiani della mia generazione
di vecchi ragazzi nati alla fine della guerra, vediamo in che senso la musica è
preghiera, è addirittura imitatio Dei,
e in che modo i bravi musicisti danno voce a qualche cosa di sovrannaturale.






Arthur Schopenhuer  mette la musica al primo posto tra le arti:
“La musica è dell’intera volontà oggettivazione e immagine…La musica non è
quindi, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l’immagine della
volontà stessa…Perciò l’effetto della musica è tanto più potente e insinuante
di quello delle altre arti: poiché queste ci danno appena il riflesso, mentre
la musica esprime l’essenza”[1]. La
musica dunque riflette la volontà, e questa non si impara: velle non discitur, scrive Seneca[2].


 Pindaro, il più grande poeta lirico greco, se
non addirittura europeo, scrive che il valore non è insegnabile, né quello dell'atleta
né quella del poeta, paragonabile all'aquila, il divino uccello di Zeus[3]
, mentre quanti non sono sapienti già per natura  bensì "addottrinati" vengono
assimilati ai corvi i quali stridono confusamente con mille lingue prolisse.


Pindaro
afferma: “sapiente è chi sa molto per natura (v. 86).


Leopardi
considerava Pindaro il principe dei poeti


“Chi
non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero
poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui
anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e
straordinario, e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio ed
anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi ” [4].
Ebbene, Lucio Dalla per certi versi è accostabile a questi lirici: sembrava  sapere le cose per natura. Quando disse
all’amico Dionigi che voleva studiare il latino, Ivano gli rispose che non ne
aveva bisogno, poiché era già dottore.  Non dico che Dalla non sia passato attraverso
studi seri, se non altro per riconoscere e potenziare la propria natura,
potenziamento che è poi lo scopo più alto dello studio il cui compito supremo è
quello di migliorare la fysis. Dico
che Dalla non era un erudito piegato in due: le sue canzoni non hanno la gobba
dell’erudito. Affermo che non era un pedante ma si trovava al passo con la
vita, ballava con lei. Il pedante si trova sempre al di sotto della vita e se
cerca di unirsi a lei produce solo degli aborti .


Concludo
con la dimensione dionisiaca dell’artista Lucio Dalla.


Dionisiaco
è l’artista che ha il coraggio di tuffarsi dentro il mare della vita fino a
trarne le perle più rare. Dionisiaco è l’immediato
sentirsi all’unisono con la vicenda incessante della vita e della morte, dove i
confini dell’individualità e della coscienza sono travolti come da un fiume in
piena. Dionisiaca per eccellenza è la musica.   


Sentiamo Nietzsche: “Sotto
l'incantesimo del Dionisiaco non solo si stringe il legame fra uomo e uomo, ma
anche la natura estraniata, ostile o soggiogata, celebra di nuovo la sua festa
di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo. La terra offre
spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e
desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di
fiori e ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si
trasformi l'Inno alla gioia di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro
con l'immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella
polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo
libero, ora s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la
necessità, l'arbitrio o la moda sfacciata hanno stabilite fra gli uomini. Ora,
nel vangelo dell'armonia universale, ognuno di sente non solo riunito,
riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il
velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti
alla misteriosa unità originaria"[5].  Il dionisiaco insomma esprime
il sentimento dell’unità con gli uomini e con il mondo. Ascoltando le canzoni
di Lucio Dalla abbiamo provato tale sentimento, lo proviamo e lo proveremo
ancora.





Giovanni
ghiselli g.ghiselli@tin.it 





  








[1] Il  mondo come volontà e rappresentazione (del 1819), p. 346




[2] Epistole a Lucilio, 81, 14.




[3] Olimpica II, v. 89. Fu scritta per Terone
di Agrigento vincitore nella corsa dei carri nei giochi del 476




[4] Zibaldone, 1856.




[5] F. Nietzsche, La
nascita della tragedia
, pp. 25-26. 


“il Buon Esempio”. Conferenza a Pesaro

https://fb.me/e/3Gq8ncOTM Venerdì 26 aprile alle ore 19:00 nella Galleria degli Specchi dell’ALEXANDER MUSEUM PALACE HOTEL di Pesaro seconda...