sabato 31 luglio 2021

Aristofane Acarnesi XIV. Seconda parabasi. Mi ha fatto ridere.

 

 

Negli Acarnesi segue la seconda Parabasi , breve (1150-1173), nella quale l'autore se la prende con un suo nemico cui augura buffe disavventure culinarie e scatologiche.

Si tratta di un certo Antimaco, un corego alle Lenee, che una volta mandò via il coro senza cena-a[deipnon. 1156.

I coreuti degli Acarnesi lo maledicono con il cattivo augurio di vederlo un giorno voglioso di una seppia- teuqivdo" deovmenon (1157), la quale però, arrostita e sfrigolante,  si troverà posta sulla tavola dove c’è il sale e quando Antimaco famelico andrà per prenderla gliela imbolerà una cagna più affamata di lui e scapperà via. Un buffo contrappasso di giusta punizione dell’ affamatore.

 

Ma non solo questo deve capitargli.

Sarebbe bello  che una notte mentre torna dal maneggio  febbricitante, un ubriaco-mequvwn -1166, una specie di Oreste pazzo, gli spaccasse la testa e Antimaco cercasse di prendere una pietra ma nell’oscurità dell’aria e del suo cervello prendesse in mano uno stronzo cacato di fresco- ejn skovtw/ lavboi- th`/ ceiriv pevleqon ajrtivw" kecesmevnon- (1169-1170. cevzw= caco.

Ancora meglio se poi scagliando questo reperto fecale  colpisse Cratino. Il collega di Aristofane

giovanni ghiselli

 

 

La storia di Elena Sarjantola. XVIII capitolo. Il ritorno a Debrecen in bicicletta diversi decenni più tardi

La finestra vuota. La foresta sconsacrata


Nell’estate del 2011, sempre in luglio, quarant’anni dopo quella sera di gioia, che ricordo ancora come una  delle più belle e felici di questa  mia vita mortale, sono tornato a Debrecen in bicicletta, da Bologna, con Fulvio e con altri due amici più giovani, due quarantenni ex alunni, Maddalena e Alessandro, due novizi dell’Ungheria.
Ci siamo tornati, Fulvio e io, protesi alla giovinezza lontana come verso il sole al tramonto, quando cade nel mare con puro fulgore. Ho affrontato la grande fatica di mettermi al passo con i due giovani  e ho pure rischiato la pelle saltando dalla bicicletta gialla in un fosso verde per schivare un’automobile che mi veniva addosso quando costeggiavamo il Balaton. E dopo otto giorni sono arrivato a Debrecen, pedalatore tenace e annoso, quasi sessantasettenne.
Non me la sono sentita di tornare in quel bosco incantato sopra un aereo o in treno, funebri convogli di una vecchiaia canuta, risultato di una vita vissuta male, senza l’amore. Nemmeno in quell’aggeggio per paralitici o neghittosi che è l’automobile.
 Vecchio sono vecchio, ma faccio di tutto per conservare le forze di allora. Mantengo pure i capelli ancora neri, e non certo con un pennello. Merito anche di Elena, della mamma etrusca e ancor più di sua sorella Giulia che è morta relativamente presto, a 82 anni, ma senza un capello bianco. La mamma mi raccomandò di portarle un cero di ringraziamento sulla tomba dei Martelli, a Sansepolcro. Ci vado ogni anno da solo, in bicicletta, pedalatore romito, per dare al rito un valore più grande, un significato veramente olimpico. Niente piò fermarmi sul cammino della pietà.
Né forature di bicicletta, né i denti da vampiro dei cani randagi resi feroci dalla catena e dalla stupidità dei padroni. Nemmeno orsi inferociti, né cinghiali fulminei
[1]. Non potrà  godere la strega Erichto strappando pezzi del mio cadavere alle loro fauci cruente[2].

Non ho bisogno di chiamare in aiuto Ecate ctonia che, indossati aspetti atroci, minacciando con la più orrenda delle sue facce schifose[3] atterrisce anche i cani [4] dal cupo latrato.
 Conservo dentro di me la forza con cui la mamma mi ha portato in grembo senza farmi pagare l’affitto  e mi ha allevato con l’aiuto della madre sua e delle sorelle.  Siamo gente dura e capace di tollerare le fatiche
[5]: la nonna Margherita Scattolari veniva dalla terra di Montegridolfo
Me ne ha lasciati 18 ettari che un costruttore voleva comprare per edificarci condomìni. Mi dava soldi e appartamenti Non gliel’ho venduta. Per amore e per rispetto degli avi Scattolari. La tengo affittata per poche migliaia di euro all’anno e non rimpiango i tanti soldi del palazzinaro.
Il nonno materno Carlo Martelli da parte sua vinceva tutte le gare ciclistiche cui partecipava. L’ho letto nella “Nazione di Firenze” di un giorno del 1899. Da lui ho ereditato, oltre il talento ciclistico, l’amore per le donne e per il sole. Il lascito più bello è questo del nonno mio che ora sta  nel cielo.
Ogni anno vado a onorare la mamma, i nonni, le zie per tutto quello che mi hanno dato.
Poi salgo in bicicletta alla Verna, sull’aspro monte tra Tevere e Arno
[6] per pregarein ginocchio  accanto al letto dell’onesto Francesco.
Non est in toto orbe sanctior mons, in tutto il mondo non c’è un monte più santo, si legge in un portale del santuario.

Una notte dell’estate 2011 dunque, il luglio  del ritorno a Debrecen in bicicletta, andati a letto gli amici, sono tornato sotto la finestra dell’apparizione fatidica del luglio del 1971. Mentre camminavo in direzione del collegio numero uno dove alloggiavano le finlandesi, già da lontano mi apparve quella finestra e mi parve di vedervi di nuovo affacciata Elena ridere felice nel fulgore della sua gioventù. Il cuore mi balzò dal petto alla bocca e la chiamai tre volte. Ma la visione sparì,  simile a un sogno fugace
[7], lasciando vuota  quella  finestra oramai sconsacrata e deserta, onde mesto riluceva il raggio della luna[8] dea dai tre nomi[9], compreso uno inquietante[10]. Arretrai desolato.
 Ho ricordato i sentimenti forti, pieni di gioia di quella sera remota e ho sentito la necessità di raccontarla, di renderla eterna, se il giudizio finale che è quello dell’arte, sarà positivo.
Le cose, come le persone, hanno una loro volontà. Questa pagina mi ha chiesto di essere scritta: lo ha voluto. Elena si avvia a diventare la mia posterità. Helena di Yväskylä farà concorrenza a Elena di Troia.
Ora noi due, i giovani amanti di quell’estate lontana, siamo due vecchi al tramonto, siamo arrivati vicini agli ottanta anni,  e ci avviamo verso quella lunga, eterna notte d’inverno del tutto imprevista allora, in quel tempo fatato e felice quando  non le citavo Catullo, il poeta dei soli che possono cadere nel buio e tornare, mentre noi, una volta spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire una notte eterna. Non misi queste parole ammonitrici tra le tante altre di autore. Mi sembrava fuori luogo e sinistramente ominosa.
Nel 2011 il bosco sacro di quel tempo remoto non era più tutto pieno di dèi, il ponticello sul lago della foresta oramai pure lei sconsacrata aveva il legno infradiciato, gli edifici simbolici erano stati abbattuti o profanati, come il ristorante della mia prima cena nel luglio del 1966
[11] l’ottocentesco Hungaria, trasformato in un orrendo McDonald.
Metamorfosi abominevole.
 Elena forse è già stata disfatta dal suo precipitoso destino di donna mortale, e si è trasformata in qualche altra cosa dell’universo, in quanto tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando
[12]. Comunque la redimerò dalla morte già scontata o da scontare  con quanto scrivo e scriverò di lei.
 
Io sono un vecchio, una testa non ancora del tutto intronata
[13], ma già isolata in uno spazio sempre più arido, scuro e deserto, eppure la strana, preziosa luce di quei giorni remoti continua a risplendere dentro di me, e con questa, e con questo racconto, voglio illuminare altre vite, prima che si spenga, presto o tardi di sicuro, ma forse non per sempre, la mia.


giovanni ghiselli

 

 



[1] Cfr. Stazio, Tebaide, II, 123-124

[2] Cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 552-553.

[3] Cfr. Seneca, Medea, 751 “ pessima induta vultus, fronte non una minax”.

[4] Cfr. Teocrito, le Incantatrici 12

[5] inde genus durum sumus experiensque laborum” (Ovidio, Metamorfosi I, 414

[6] Cfr. Dante, Paradiso, XI, 106-107) “nel crudo sasso intra Tevere e Arno-da Cristo prese l’ultimo sigillo, - che le sue membra due anni portarno”

[7] Cfr. Virgilio, Eneide, II, 794

[8] Cfr. Leopardi: “quella finestra, /ond’eri usata favellarmi, ed onde/mesto riluce delle stelle il raggio/è deserta”, Le ricordanze (vv. 141-144),

[9] Luna, Diana, Ecate.

[10] Ecate è la signora e la maestra di maghe e streghe, da Medea alle sorelle fatali del Macbeth di Shakespeare.

[11] Cfr. L’arrivo a Debrecen, presente nel blog

[12] Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale vieta di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178).

[13] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion) , “ I am an old man, A dull head amog windy spaces". (vv. 15-16), io sono un vecchio, una testa intronata tra spazi ventosi

La storia di Elena Sarjantola. XVII capitolo. Il picnic crepuscolare

Un capitolo particolarmente bello. Elena alla finestra del collegio dell' università di Debrecen


Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva , mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Il mio  per Elena era l’Eros Uranio, figlio di Afrodite Celeste, non quello Pandemio, plebeo siccome figlio di una Venenere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con una femmina umana già conosciuta bene o con una carina ancora intentata, una donna che significasse qualcosa, ma non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo  per Elena dalla bella chioma
[1], eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, un ponte cruciale della mia vita mortale, come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impiegare e impegnare tutte le mie forze senza deviazioni in un rapporto pur faticoso e travagliato con quello perché mi avrebbe portato a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminare Elena per non annichilire il mio progressi.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.

Il più delle volte quando rinunciamo a un’impresa possibile, temendo di non averne la forza, di fatto non ne abbiamo la voglia. Ma certe rinunce ad affrontare gli ostacoli pervi o impervi che siano, possono spedirci all’ospizio.


Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una montagna di donna con i fianchi enormi cinti da drappi coloriti.
 “Un porcone”, la definì impietosamente l’amico, come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita”. Parole sconce, prive di carità, però divertenti.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo alla parte  orgiastica dell’incontro bevendo il vino rosso tipico della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.
 Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore  grattandoci piacevolmente a vicenda dovunque la carne ci prudeva e ci spingeva a farlo. Con il consorte di lei non ci sarebbe stata la lotta dei tori che si battono per la giovemca. Tanto meno una zuffa generale tra Italiani e Ungheresi.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreto di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai
[2].
  Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto farlo. Libertino a metà. Troppi scrupoli. Insomma non sono arrivato a festeggiare i miei amori con un’ecatombe.
 Con questo stato d’animo, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”
[3] e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso dal nord, e visibile nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, rotonda, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora dagli occhi lucenti, per non perdere, con sconsolato rimpianto durante il semestre invernale oscurato da lunghe nuvole inquiete, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita. Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto nuotavano e cantavano alla boscaglia. Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria arrossata dagli ultimi raggi. Un vello prpureo guarnito da bioccoli d’oro  si stendeva sul cielo dalla parte della puszta. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio  il mare verde della grande foresta spessa e viva.

Tutto il paesaggio si rallegrava e  comunicava letizia. Il 1971 è stato l’anno più bello del secolo per quanto riguarda i rapporti tra gli umani educati bene, l’acme della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’amicizia, dell’amore.

Poi è iniziato il regresso verso la diffidenza e l’egoismo. E’ intervenuto il potere, pauroso di perdere colpi. Infatti  ha colpito duramente per tutti gli anni Settanta  e anche dopo. Doveva ribadire se stesso: spaventare gli uomini, spingerli a diffidare a odiarsi a vicenda per sottometterli e venire obbedito lui solo. Magari dagli odioti anche amato.
Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, “piena di beltate fresca e frasca”
[4], avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.

Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo
[5]
 pensai, “ma questo, prima che povero è un fumo brutto e irritante”.

Gli uccelli più delicati e piccini cadevano uccisi dal vapore infuocato e finivano arrostiti anche loro.

 Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza dell’insignificanza era seduta in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza. Si ingozzavano con appetito disonesto denaturando la natura. Tendevano i colli e le mani cupide freneticamente verso il cibo e le bevande. Alcuni soffiavano pure con bocca sconvolta, come dragoni affamati.

Facevano singhiozzare le tortore della grande foresta.

Non c’era verso di scambiarci delle idèe.  
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quei giovani, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che volevo credere molto migliore del nostro. Io ho sempre auspicato una società di donne e uomini uguali, dove non ci siano odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce: " l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta al figlio prepotente
[6]
 che ha fatto l’elogio della tirannide, “un’ingiustizia fortunata”
[7] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti aristocratici ma consumisti plebei.
 Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato torto a questo regime, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi”
[8].
  Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta, la deformità più deforme.
 Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare quelli che reputano ricchi.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi imposta ai miserabili.
 Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
 Ero pieno dello spirito santo di quella donna rimasta in collegio, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di mosto come l’amico Danilo. Invece si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste
[9]
 Lo spirito santo di Elena era sceso nell’anima mia.

Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin-dissi con aria compunta- tu sei splendida, debreceni Venus vagy,  la Venere di Debrecen sei, e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Sono in preda al delirio amoroso: non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi sul prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io, alzata appena la mano per un saluto collettivo e generico, mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a un attore  diventato scemo
[10].

Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia, la Povertà, nel Simposio di Platone: un mendicante dell’amore e della bellezza.
 Passai di corsa sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli “variopinti, come la mia vita”, pensai, vedendo l’acqua che saltava policroma per i raggi che la vestivano a festa.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.

Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli
[11].

Vedere la sua figura nobile mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”
[12], aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciotto minuti e 30 secondi. Pure atleta a metà. Comunque dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena però non siamo rimasti a metà: abbiamo fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale, artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”
[13].
Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava la luce del suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Ho avuto nostalgia di gente del tuo stampo, insomma di te. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.

Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei cento giorni in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita in un ordito molto robusto.

Pesaro 31 luglio 2021 ore 17, 17  

giovanni ghiselli

p. s.

sono felice per avere ricordato questo. E grato a te Elena cara, dovunque Tu sia, e pure a Dio, chiunque Egli sia, potere sul cosmo o nostro destino che ci ha fatto incontrare

 

 



[1] Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165

[2] Avevo in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333).

[3] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16-17

[4] Cfr. Machiavelli, L’asino, cap. II.

[5] Divka de; lavmpei me; n ejn -duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773-774.,

[6] Cfr. Euripide, Fenicie, 543-544.

[7] Euripide, Fenicie, 549

[8]  Leggi, 679b-c.

[9] Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.

[10] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3 .

[11] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89-90) . innumerevole sorriso/delle onde marine .

[12] Dante, Paradiso I, 28

[13] Cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann.

Ifigenia CXXXVI La telefonata del 28 luglio. Il tram, le fronde profetiche e la bocca della Sibilla .

Ifigenia CXXXVI   La telefonata del 28 luglio.   Il tram, le fronde profetiche e la bocca della Sibilla   Non racconterò la storia...