domenica 25 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. XI capitolo. Il secondo approccio

Salutai Elena in modo diretto, ma lei, quasi stupita, sembrava non ricordarsi, o sovvenirsi appena, di me; quindi, con fatica e imbarazzo, cercai di rammentarle il nostro incontro serale; poi, in modo diretto, giacché oramai era l’unica cosa da fare, la 
ratio extrema, dissi che due sere prima io l’avevo notata subito per il suo stile, e non l’avevo scordata neppure per un momento. Anzi, avevo premeditato un nuovo colloquio tra noi. Avevo passato due giorni aspettando di incontrarla un’altra volta per dirle che avrei voluto conoscerla meglio.
Speravo che potessimo parlare ancora.
“Quando e di che cosa? ” mi domandò con un sorriso da regina e senza intonazione retorica, guardandomi, del resto, con un’espressione di curiosità vagamente ironica. Non sapevo se tale maestà mi considerasse un lacché o un aspirante principe cosorte plausibile.
Sembrava volesse lasciare la scelta e l’iniziativa a me, visto che ero, e chissà perché, tanto interessato a un colloquio con lei.
Notai che mi stava guardando in maniera già un poco meno generica. La mia proposta diretta doveva averla interessata in qualche modo. Il suo sguardo sembrava aggiungere alle parole: “E allora? Quali argomenti possiamo avere in comune noi due? Dimmelo tu, visto che ci tieni tanto”.
 
Mi sentii incoraggiato, e, sorridendo, risposi: “il più presto possibile! Adesso! Se vuoi, ti porto a vedere la puszta, la grande pianura senza alberi. Conosco una csárda dove suonano egregiamente le danze ungheresi di Brahms, si beve del vino buono e si può parlare stando in pace. Sono sicuro che abbiamo qualche cosa da dirci, forse anche molte.
Hai un’aria da persona riflessiva. Hai uno stile che mi va a genio. Mi piacerebbe sapere che cosa pensi, e dirti a mia volta quanto spero possa interessarti di quello che penso io, rispondendo alle tue domande, se me le farai. Sono molto curioso di te. Credo che noi abbiamo quache cosa in comune”.
“Che cosa?” domandò lei, forse per vedere se parlavo a vanvera.
“La voglia di imparare, di conoscere aspetti belli della vita, di ricordarli. Oggi potremo raccogliere impressioni preziose e farne tesoro. Potremmo trarre tutta l’energia che è contenuta nei nostri semi”.
Elena fece un sorriso che mi sembrò non privo di simpatia e di consenso.
Sicché aggiunsi: “Vorrei congiungermi con l’energia immortale che vedo nel cosmo e nelle persone di grande formato”.
“Che cosa cerchi di dirmi?
“Che tu mi piaci molto”
“Anche tu sei un tipo fuori dall’ordinario”, concluse, forse alludendo al mio strano modo di esprimermi, poco naturale invero anzi piuttosto artefatto . Non so se già le piacevo ma avevo capito che  la incuriosivo. Per questo insistevo
 Dal fatto che evidentemente cercavo di fare bella figura con lei, aveva compreso che chiedevo il suo aiuto.
E non me lo negò. Con questo suo soccorrermi mi diede la forza e la voglia, che non ho più perduto, di offrire il mio soccorso ad altri bisognosi di forza, coraggio e di affetto.
 Anzi, lo feci con Elena stessa una ventina di giorni più tardi, come vedremo.
La donna bella e fine mi guardava con un’espressione sempre meno generica, quasi benevola, comunque non riluttante. L’altra mi fissava con gli occhi sgranati e poco espressivi: non capivo nemmeno se fosse in grado di comprendere quanto dicevo nel mio inglese trattato come se fosse una lingua neolatina, cioè inglesizzando molte parole italiane o pronunciando le inglesi non neolatine, con un forte accento pesarese, tra il marchigiano e il romagnolo. Del resto Elena conosceva il latino, un sapere che costituiva uno dei fattori di coesione tra noi, della nostra conoscenza reciproca.
“Se vuoi, puoi invitare anche la tua amica”, dissi, accennando con il capo alla biondastra imbambolata.
Accanto alla bellezza, la non avvenenza si accentua e appare deforme.
“In questo caso, chiamo un mio amico italiano intelligente; così, in modo più vario, ci scambiamo notizie sulle culture, credo alquanto diverse, dei nostri paesi lontani”.
 
Il tono doveva essere quello giusto: Helena, dalla prima curiosità quasi stupita, era passata a uno sguardo sempre più attento. Anche l’idea di farla salire sulla mia automobile nuova e poco comune, mi faceva coraggio nella mia debolezza di allora. Mi aveva guardato con simpatia, finalmente: forse si era accorta che non ero brutto del tutto, né integralmente cretino, né proprio vuoto e volgare. Quindi, con tono ed espressione non avversi alla mia proposta, si rivolse in finlandese a quell’altra chiedendole, immagino, che cosa ne pensasse. La bionda tardava a rispondere. Allora l’idolo mio cominciò a parlarle in inglese, probabilmente per significarmi che potevo intervenire in favore del programma.
Lo feci con foga, caldeggiando la puszta sconfinata, la caratteristica osteria di Hortobágy, i violini e i cembali degli zigani che suonano le danze popolari magiare e le danze ungheresi di Brahms. Fuori dalla csárda invece si poteva ascoltare il canto del vento estivo che soffiava dalla puszta sulle nove arcate del celebre ponte e le rendeva  arcanamente sonore.
L’altra, l’attonita bionda che si chiamava Marja Liisa e sembrava intronata, continuava a fissarmi con gli occhi sbarrati senza dire parola, come Argo, il mostro insonne dalle mille pupille, messo dal padre Inaco a guardia di Iò, la fanciulla concupita da Zeus. “Chissà-pensai-forse questa specie di guardiano, o di Gorgone è stata posta alle calcagna dell’idolo mio per controllarla. Cercherò di neutralizzarla. Io non sono Perseo, mi mancano i calzari alati, ma questa la eludo, stordita com’è”.
Quindi ruppi gli indugi e dissi: “Va bene. Ora chiamo il mio amico”.
Allora il bersaglio massimo dei miei desideri acuti disse con voce soave: “Sì, andiamo nella puszta”.
Veramente si poteva parlare anche lì, ma la puszta era un pretesto per andare via insieme e creare un precedente, magari con una complicità da sviluppare. Come quella instaurata con Fulvio, la prima volta di Debrecen, nel luglio, già allora lontano, del 1966[6].
Corsi a chiamare l’amico, trattenendomi per non fare salti di gioia. Sì, quella donna, molto probabilmente, era destino. La stessa Afrodite dal dolce sorriso ci spingeva benignamente all’unione preparata e benedetta da lei.
“Fulvio”, dissi assai concitato  e contento di quel vago amore che avevo in mente. “Sono innamorato e chiedo il tuo aiuto! Vieni, andiamo via con due donne, due finlandesi”. Gliele indicai con un cenno forse pur troppo evidente. Fulvio, per sua cortesia e umanità, infatti era chiaro di quale delle due potevo volere l’amore con tanto slancio, rispose: “sì vengo volentieri, però ti prego, lasciami la bionda dagli occhi di Medusa”. Gentile, gentiluomo di Parma. “Certo” feci “ma vedi di non lasciarti pietrificare”.
Ancora l’amico non aveva ingranato con la futura moglie, l’insolente del Carso.
“Va bene, va bene”, lo incalzai, “io voglio la mora. Non è per gioco né per vanità che la voglio. Neanche per fare numero. Io la amo. Quella non è una donna, è la dèa che completerà la mia nascita di uomo umano. Accresce la coscienza della mia umanità. Sbrighiamoci però: non posso perdere per colpevole inerzia il dono che il destino mi offre con tanta benevolenza! Ora il tempo per me ha un senso profondo”. Aggiunsi queste parole con un’enfasi tale che doveva togliere ogni dubbio alle mie intenzioni.
Così tutti e quattro salimmo sulla nera Volkswagen decappottata. Cercavo di fare bella figura anche guidando l’automobile. Se non altro, da appassionato ciclista quale sono, davo sempre la precedenza alle biciclette. Ma anche ai pedoni. Ai più deboli insomma. Da bambino tenevo per Ettore e per i Troiani. E per gli Indiani massacrati dai bianchi nei film western. Sono sempre stato dalla parte delle vittime dei prepotenti.
 
A metà strada, Elena disse che da come mi comportavo alla guida sembravo una persona gentile e sicura. Ero tutto contento. Mi sembrava che un cielo più vasto vestisse il mondo di luce purpurea. Duravo fatica a non scoppiare di gioia. Ma non potevo esplodere. Dovevo procedere accrescendo l’abbrivio del successo appena iniziato. La bella donna, presa di mira dalle mie brame, dal bisogno del suo corpo e del mio riscatto, stava entrando in sintonia con me. Non c’è niente di meglio nel breve e rapido corso di questa vita mortale, attesi come siamo dal triste nocchiero[1] che ci fa fretta arrivando perfino a svegliarci gridando mentre dormiamo: “sbrigati, tu mi fai perdere tempo!”. Allora ci alziamo risoluti a compiere quanto dobbiamo a noi stessi prima che sia troppo tardi.
Stavo ritrovando l’amore difficile, troppo spesso smarrito, di mia madre, della nonna Margherita, di mia sorella, Margherita anche lei, e delle nostre zie, Rina, Giulia e Giorgia. Le ho recuperate tutte al mio affetto e alla mia gratitudine grazie anche all’amore contraccambiato da Elena.
Attraversando la puszta con gli occhi umidi dalla felicità, notavo con simpatia le oche e le pecore bianche, gli enormi maiali neri, le falangi di girasoli verdi e gialli, i cavalli pezzati, le farfalle variopinte, i pozzi dalle lunghe antenne scenografiche; tutto con simpatia e gioia guardavo, perfino le grosse nuvole scure e acquose che da occidente minacciavano pioggia.
Scorreva un torrente cromatico con un mormorio che faceva eco ai miei sentimenti.
Ogni cosa aveva una sua attrattiva siccome era parte di un processo naturale che mi apparteneva. Era lo scenario della mia crescita in termini umani.
Mi sentivo in armonia e in comunione con il mondo, come sempre succede quando si viene contraccambiati nell’amore o quando si crea qualche cosa di bello. Questo l’avrei fatto più avanti, se quella donna ispiratrice di sentimenti forti avesse riconosciuto e favorito il mio genio.
Lo sto facendo ora, 50 anni più tardi, per voi lettori che mi leggete a centinaia di migliaia nel blog. Siete arrivati in  1155898 alle mie nozze d’oro con Elena.
 
Bologna 25 luglio 2021 ore 17
giovanni ghiselli
 
 
  
 


[1] Caronte.

1 commento:

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