giovedì 31 dicembre 2020

Il messaggio di Mattarella

 Buono, molto buono il messaggio di fine anno. di Sergio Mattarella . Ho apprezzato soprattutto l'appello alla solidarietà, il rifiuto della cultura del privato, ossia dell'egoismo, e la menzione onorifica affettuosa di Papa Francesco. Questa sera sei stato dei nostri, un sessantottino anche tu,  caro Sergio! Ti contraccambio l'augurio politico che hai fatto all'Italia e gli auguri che hai rivolto a tutti noi

gianni

Eschilo

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Argomenti

Vita di Eschilo.  I Sette a Tebe.  Il problema della ereditarietà delle colpe

L’antifemminismo di Eteocle: compito della donna è tacere e restare in casa

 

 

Eschilo nacque nel demo attico di Eleusi intorno al 525 a.C., da nobile famiglia. Oltre a scrivere una novantina di opere teatrali, fra tragedie e drammi satireschi, e a recitare, combatté a Maratona[1], dove, inseguendo i Persiani sulle navi, morì suo fratello Cinegiro, il quale si era afferrato agli aplustri e cadde th;n cei'ra ajpokopei;~ pelevkei>, con la mano mozzata da un colpo di scure[2].

Dieci anni più tardi, Eschilo partecipò alla battaglia di Salamina, quando Euripide nasceva, e Sofocle diciassettenne si preparava a guidare il coro che doveva cantare il peana per la vittoria sui barbari. Fu dunque uno di quei "vecchi maratonomachi, duri, robusti, crudi, solidi come aceri", bonariamente canzonati da Aristofane negli Acarnesi (vv.180-181). A questa sua parte nella vita non diede minore importanza che a quella di poeta e di attore, se è vero che per la propria tomba scrisse: "questo sepolcro racchiude Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela ricca di messi. Il suo valore glorioso possono raccontarlo, il bosco di Maratona e il Medo dalle lunghe chiome, poiché l'ha conosciuto."[3].

 Di qui si vede quanto il poeta fosse lontano dall'intellettuale da tavolino. Eschilo aveva partecipato ai concorsi tragici, e vinto, già prima di Maratona. Nel 472 ottenne di nuovo il premio[4] con i Persiani ,  drammatizzazione della seconda guerra tra Greci e Barbari. Tra il 472 e il 468 soggiornò  in Sicilia dove fu invitato da Ierone di Siracusa[5].

Qui Eschilo compose le Etnee  per celebrare la fondazione di Etna da parte del suo potente ospite. Questa tragedia non ci è arrivata. Nel 467 vinse di nuovo con la tetralogia tebana di cui ci sono giunti i Sette a Tebe.

 

Un problema grande per l’uomo greco e pure per noi è quello della ereditarietà delle colpe dei padri. Sentiamone alcune espressioni: Eteocle nei Sette a Tebe  non è personalmente colpevole ma deve pagare per :"la trasgressione antica/dalla rapida pena/che rimane fino alla terza generazione:/quando Laio faceva violenza/ad Apollo che diceva tre volte,/negli oracoli Pitici dell'ombelico/del mondo, di salvare la città/morendo senza prole;/ma quello vinto dalla sua dissennatezza/generò il destino per sé,/Edipo parricida,/quello che osò seminare/il sacro solco della madre, dal quale nacque/radice insanguinata,/e fu la pazzia a unire/gli sposi dementi"(vv.742-757).

 

Il Coro dellAntigone di Sofocle deplora la catastrofe della ragazza con queste parole: "Avanzando verso l'estremità dell'audacia,/hai urtato , contro l'eccelso trono della Giustizia,/creatura, con grave caduta,/ del resto sconti una colpa del padre" (vv. 853-856).

 

Ora leggiamone un’interpretazione, a sua volta parecchio problematica: quella  di  P. P. Pasolini:“Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E’ il coro-un coro democratico- che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale”

Pasolini trova una ragione nella legge  della tragica predestinazione a ereditare le colpe: i giovani del 1975 sono figli di padri colpevoli, padri “che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine”. I figli dunque sono puniti. “Ma sono figli “puniti” per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. E’ giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda senza risposta, del motivo dominante del teatro greco. Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione-che pareva così ciecamente irrazionale e crudele-del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità”.

E le colpe dei padri? Esse sono la complicità col vecchio fascismo e l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?

“Perché c’è-ed eccoci al punto-un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese [6].

 

Nei Sette contro Tebe il coro è formato da ragazze tebane che nella Parodo lanciano grida di spavento, non prive del resto di immagini poetiche:

"attraverso le mascelle equine/le briglie stridono strage"(vv.122-123).

Sono invocati gli dèi olimpii:

"ascoltate, ascoltate come è giusto/le preghiere dalle mani tese delle ragazze" (171-172). dicembrel

 

Le suppliche del coro femminile però non incontrano l'approvazione di Eteocle che anzi prorompe in una delle più aspre tirate antifemministe della letteratura greca:

"domando a voi, branco insopportabile,/sono forse questi gli incoraggiamenti migliori/ per questo popolo assediato ed è la salvezza della città/il vostro urlare e gridare, cadute davanti alle statue/degli dèi protettori, odio dei saggi che siete?/Che io non conviva, né in brutte situazioni/e nemmeno nel caro benessere con la razza delle donne./Infatti quando prende il sopravvento è di un'audacia intrattabile,/quando ha paura è un male ancora più grande nella casa e nella città".(vv.181-189).

 Le ragazze terrorizzate diffondono viltà tra i difensori: dunque si chiudano nelle case:"infatti stanno a cuore agli uomini le faccende di fuori,/non le decida la donna: e tu, rimanendo dentro, non fare danno"(vv. 200-201).

Eteocle esige di essere obbedito subito, senza repliche:"la disciplina infatti è madre del successo /che salva, o donna; il discorso sta in questi termini"(vv. 224-225). E’ affare dei maschi sacrificare agli dèi, consultare gli oracoli e combattere.

"il tuo compito invece è tacere e rimanere dentro casa"( so;n  d’ au\ to; siga`n kai; mevnein ei[sw dovmwn, 232).


giovanni ghiselli

 



[1] 490 a. C.

[2] Erodoto, Storie,  VI, 114

[3] Questo epitafio è tramandato nella biografia anonima del codice Mediceo 32. 9.

[4] Pericle era il corego, Eschilo ebbe la vittoria” (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, p. 89.

[5] Celebrato da Pindaro nell’ Olimpica I per  la vittoria del cavallo Ferenìco nell’Olimpiade del 476 a. C. Ne riporto alcuni versi tradotti da me come tutte le citazioni da autori greci e latini:  “e non cantiamo un agone più prestante di Olimpia:/da dove l'inno pieno di gloria si lancia intorno/alle menti dei poeti, così che celebrano/il figlio di Crono, giunti al ricco/ e felice focolare di Ierone,/che possiede il giusto scettro nella Sicilia/ferace di frutti mietendo le cime da tutte le virtù,/e si adorna anche/nel fiore dei canti /quali sono i carmi che componiamo per diletto, noi uomini/spesso intorno alla mensa ospitale. Avanti, stacca/dal piolo la dorica cetra, /se in qualche modo anche a te la gloria di Pisa e di Ferenico/ha posto la mente sotto pensieri dolcissimi,/quando lungo l'Alfeo si lanciò con/ il corpo senza sproni nella corsa,/e unì il suo padrone alla vittoria,/il re siracusano/che si allieta dei cavalli; e brilla la sua gloria/nella colonia ricca di prodi del lidio Pelope” (vv. 7-25).

[6] P. P. Pasolini, Lettere luterane, I giovani infelici, pp. 5-12.

6 incontri sulla tragedia greca. XXI assaggio. Conclusione della parte introduttiva generale

Conclusione della parte introduttiva generale. Seguiranno i singoli autori

 

In 1984 di Orwell è descritta una situazione assimilabile alla repressione sessuale ipotizzata da Freud nell’orda primitiva. Nel romanzo c'è una ragazza, Julia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (...) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido (All this marching up and down and cheering and waving flags is simply sex gone sour). Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? (If you are happy inside yourself, why should you get excited about Big Brother and the Three - Year Plans and the Two Minutes Hate and all the rest of their bloody rot?)"[1].

Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p.133). Il protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (...) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito?"[2].

Leggiamo qualche parola in inglese: “Their embrace had been a battle, the climax a victory. It was a brow struck against the Party. It was a political act” (p. 133), il loro amplesso era stata una battaglia, l’apice una vittoria. Era una raffica scagliata contro il Partito. Era un atto politico.

 

Una interpretazione delle cause dell’olocausto. Con il monoteismo e il marxismo gli Ebrei hanno proposto ideali troppo difficili da realizzare. Le terribili pretese dell’ideale.

 

Sentiamo G. Steiner: “Nel politeismo, dice Nietzsche, consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa.

La dottrina di una singola divinità (…) è “il più mostruoso di tutti gli errori umani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”).

In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria (…) Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio (…) L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici (…) Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio - ma chi aveva scelto chi? - era troppo visibile su di loro (…)

Insomma l’antico e il nuovo Testamento propongono e ordinano ideali impraticabili

Anche il marxismo ha riproposto ideali troppo difficili da praticare.

“Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura (…) Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quelle che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale (…) l’ideale continuava a bussare a insistere con forza terribile e molesta. Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi (…) Noi odiamo in sommo grado coloro che ci propongono un modello, un ideale, una promessa visionaria che non siamo in grado, pur tendendo i muscoli all’estremo, di raggiungere (…) Nella sua esasperante “estraneità”, nella sua accettazione della sofferenza come condizione di un patto con l’assoluto, l’ebreo divenne, per così dire, la “cattiva coscienza” della storia occidentale (…) Scagliandosi contro gli ebrei, il cristianesimo e la civiltà europea si scagliarono contro l’incarnazione - sia pur spesso indocile e inconsapevole - delle proprie speranze più alte (…) Nell’Olocausto vi fu sia un folle castigo, uno sferrar colpi alla cieca contro le intollerabili pressioni della visione idealistica, sia una larga componente di automutilazione. La società europea moderna, laica, materialista, bellicosa, cercava di estirpare, da sé stessa e dal proprio bagaglio ereditario, germi di ideali arcaici, ormai ridicolmente obsoleti e tuttavia in certo qual modo inestinguibili. L’accezione nazista di “parassiti” e “disinfestazione” rivela brutalmente la natura infetta della moralità. Uccidiamo l’esattore, uccidiamo colui che ci ricorda la somma dovuta, e l’annoso debito sarà estinto. Il genocidio che si consumò in Europa e in Unione Sovietica negli anni 1936 - 45 (l’antisemitismo sovietico fu forse la manifestazione più paradossale dell’odio che la realtà nutre contro l’utopia naufragata) fu l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale; fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto. Usando metafore teologiche (…) è possibile dire che l’olocausto ha rappresentato un secondo peccato originale (…)

Con il tentativo maldestro di uccidere Dio e il tentativo quasi perfettamente riuscito di uccidere quelli che l’avevano “inventato”, la civiltà entrò, esattamente come Nietzsche aveva predetto, nella “notte sempre più notte”.[3]

 

 

 Pongo alcune domande a chi ha seguito questa parte introduttiva

Ovviamente non c’è nessun obbligo. Chi vorrà potrà porre queste o altre domande a me durante il corso.

Quesiti sull’introduzione al dramma.

 

1 Quali sono secondo te i concetti fondamentali della Poetica di Aristotele?

 

2 In che cosa si differenzia essenzialmente la poesia dalla storia?

 

3 Che cosa sono la peripezia e il riconoscimento di cui parla Aristotele? Fai almeno un esempio dell’una e dell’altro.

 

4 Quali sono le cosiddette unità aristoteliche e quale valore hanno?

 

5 Come devono essere i caratteri secondo Aristotele?

 

6 Ricorda in sintesi qual è la funzione del coro tragico secondo alcuni interpreti.

 

7 Quali sono i pregi del linguaggio poetico secondo Aristotele?

 

8 Che cosa è la metafora e perché è significativa dell’intelligenza di chi la impiega?

 

9 Enumera le “parti quantitative” della tragedia.

 

10 Perché il trimetro giambico è il metro più adatto alle parti dialogate della tragedia?

 

11 In che cosa consiste la collisione tragica tra due unilateralità di cui parla Hegel nell’Estetica? Fai almeno un esempio.

 

12 Per quale ragione Schopenhauer preferisce la tragedia cristiana a quella greca?

 

13) Qual è la caratteristica di tanti eroi mitici secondo Freud e come, dal mito e dalla storia, si sviluppa la tragedia? 

 

giovanni ghiselli. Cari auguri a tutti



[1] G. Orwell, 1984 , p. 142. Edizione inglese p. 139.

[2] G. Orwell, 1984, p. 134.

[3] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 39 sgg.

Un'avvertenza

 A quanti mi scrivono su facebook mandandomi auguri o elogiando i miei scritti, rispondo con gratitudine ma collettivamente e da questo blog poiché il mio facebook in questa fase è difettoso, tanto che il più delle volte si blocca mentre cerco di scrivere su Commenta  anche solo un ringraziamento.

Chi vuole una risposta personale mi scriva sulla posta elettronica: g.ghiselli@tin .it

Tanti auguri e gazie per tutti gli stimoli che mi avete dato

Saluti

gianni

6 incontri sulla tragedia greca. XX assaggio. Ancora Freud. Poi Sofocle

Freud
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Argomenti

Secondo Freud il peccato originale è l’uccisione del padre primigenio. Il redentore sarebbe il caporione della banda dei fratelli ribelli al padre e con la propria morte di figlio espierebbe l’uccisione del padre

Anche l’eroe della tragedia greca sarebbe il ribelle al padre e il Coro del dramma ricorderebbe la banda dei fratelli

Il Cristianesimo riprende diverse figure del politeismo appena dissimulate

La massa e il capo

Traggo un esempio dall’Edipo re di Sofocle

 

 

Arriviamo infine alla religione cristiana e torniamo alla tragedia greca. “Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico”[1].

Con il monoteismo si ebbe “la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici”, quindi “anche altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento (…) Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico - religioso, fiorì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo.

 

Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua prima fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato (…) In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come un messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stata compiuta l’uccisione del padre (…) Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre”.

Può essere, continua Freud, che il caporione primigenio non ci sia effettivamente stato; in ogni caso ciascuno della banda dei fratelli avrebbe voluto commettere il misfatto. “Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli[2], e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprenda a vivere con la rappresentazione della storia della Passione”[3]. Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate appena (…) Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta”[4].

 

L’orda primordiale ha lasciato diverse tracce nel genere umano, anzi sopravvive ancora nella massa che è una “reviviscenza dell’orda primordiale”[5] mentre l’individuo capace di comandarla corrisponde al capo dell’orda: “I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell’orda primordiale era libero. Pur essendo egli isolato, i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Per conseguenza noi supponiamo che il suo Io fosse scarsamente legato libidicamente, che non amasse alcuno all’infuori di sé medesimo e che amasse gli altri solo se e in quanto servivano ai suoi bisogni (…) All’inizio della storia umana fu lui il superuomo che per Nietzsche possiamo aspettarci solo dal futuro. Gli individui appartenenti alla massa hanno bisogno tuttora dell’illusione di essere amati in uguale e giusta misura dal capo, mentre lui, il capo, non ha bisogno di amare alcuno, può avere la natura del padrone ed essere assolutamente narcisistico, eppure sicuro di sé e autosufficiente”[6].

Il capo primordiale, e pure quello recente, cattura emotivamente la massa: “non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa”[7]. Inoltre c’è il legame libidico trasferito: “il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all’astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita. Li immise per così dire con la forza nell psicologia collettiva. La sua gelosia sessuale e la sua intolleranza divennero in ultima analisi la causa della psicologia delle masse”[8].

 

Impiego l’Edipo re di Sofocle per fare un esempio.

Il re di Tebe considera se stesso quale nodo, somma e sintesi di tutti i sentimenti di tutti i Tebani

Si leggano queste parole di Edipo che, entrato in scena nel prologo della tragedia, si informa sullo stato d’animo del suo popolo colpito dalla peste e dalla sterilità: “su vecchio, racconta, poiché sei adatto/a parlare per questi: in quale modo siete disposti:/avendo concepito timore oppure amore? Poiché vorrei bastare/io ad aiutarvi in tutto: infatti sarei disumano/se non avessi compassione di tale seduta (Edipo re, vv. 9 - 13).

Quindi Edipo si rivolge al suo popolo “O figli degni di compassione, cose conosciute, e non sconosciute a me/siete venuti a domandare con desiderio; io infatti so che/state male tutti, e pur stando male, come me,/non c'è tra voi chi sta male in ugual misura./ Infatti il dolore vostro colpisce uno solo,/per sé, e nessun altro, ma la mia/mente compiange la città e me e te, tutto insieme” (Edipo re, vv. 58 - 64).

 

31 dicembre

giovanni ghiselli

 

 

  

 



[1] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 408.

[2] Nel precedente Totem e tabù (1913) Freud aveva scritto che “l’eroe della tragedia deve soffrire perché è il padre arcaico” (p. 221) . Lo vedremo meglio nella introduzione a Euripide.

[3] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 409.

[4] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 410.

[5] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (del 1921) in Freud Opere, 1917 - 1923, p. 311.

[6] S. Freud, Opera e pagina citate sopra.

[7] S. Freud, Op. cit., p. 269.

[8] S. Freud, Op. cit., p. 312.

Debrecen 1979. 67. Lo specchio delle mie brame

Erodoto
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Tornammo dentro. Andai a sedermi, da solo. Intorno a me una folla di chiassosi, agitati o indifferenti.

“Una reviviscenza dell’orda primordiale” pensai. Andai a guardarmi in uno specchio di un gabinetto come facevo nel tempo delle finniche, particolarmente quello di Kaisa, per compiacermi e rassicurarmi. Il mio viso era cambiato da allora: magro molto, incavato, segnato, scabro, quasi sgretolato dal tempo che porta via tutto ed era franto come uno scoglio della barriera marina di Pesaro che deve sostenere gli assalti di onde talora furiose, o come la rupe nera di Capo Nord protesa sul mare freddo e cupo che la flagella. Così la vidi subito dopo essere stato rigettato da Päivi al pari della nostra creatura.

Tuttavia il mio aspetto non era mutato in peggio.

Stavo diventando un’immagine lapidaria e stilizzata, una specie di icona vivente. Judith mi aveva detto che ci trovava il bello della consapevolezza. Mi osservavo per averne conferma. Non mi dispiacqui, anzi: lo scavato, lo sbrecciato, il caduto era del materiale superfluo che aggiungeva alcunché di troppo, di inutile all’essenziale. Sorrisi a me stesso pensando che le prove passate, gli agoni, pur dolorosi e faticosi assai, avevano contribuito a quel risultato che mi piaceva.

L’abbronzatura, coltivata con cura ogni giorno nella piscina o sul prato, spiccava sul mio vestito bianco, di lino, comprato diciannove anni prima. Era liso ma in buon ordine e ben pulito.

Mi venne in mente un breve passo di Erodoto dal logos egiziano: ei[mata de; livnea forevousi aijei; neovpluta, ejpithdeuovnte" tou`to mavlista (Storie, II, 37, 2), portano vesti di lino sempre lavate da poco, curando questo in massimo grado.

Ero compiaciuto di come portavo i miei anni: oramai trentacinque. Avevo tanti capelli, nessuno bianco.

Aetatem bene gero - mi dissi - niger tamquam corvus". Avevo preso dalla zia Giulia che, ottantenne, era ancora siffatta. Dicono che sia la componente etrusca: il ghenos del nonno materno Martelli di Sansepolcro.

La facies etrusca del resto comporta anche una certa dose di irrazionale quale si trova in Properzio di Assisi o in Santo Francesco, il poverello. Anche lui teneva il medesimo indumento per una ventina di anni.

“A cinquanta sarò bellissimo” mi dissi. Me lo aveva predetto nel ’68 Fiorella, la studentessa di Modena che all’epoca amoreggiava con Danilo.

Ma questo non sarebbe venuto da sé, siccome niente di buono arriva senza grande impegno: avrei dovuto continuare a correre, nuotare, abbronzarmi, a studiare con lena indefessa. Volevo arrivare a scrivere “Ho l’età di Fassbinder e di Wenders. E’ l’ora, è già quasi tardi”, mi dissi. “Voglia di fare, voglia di fare, datti da fare!”.


Bologna 31 dicembre 2020, ore 11, 56

giovanni ghiselli


ps.

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6 incontri sulla tragedia greca. XIX assaggio. Sigmund Freud sulla tragedia greca

Sigmund Freud
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L’interpretazione della tragedia greca data da Freud prima parte

Concludo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud presenta un catalogo di eroi: “ I nomi più noti della serie che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[1] ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri (…) Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l’acqua è il liquido amniotico (…) Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta (…) Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale[2]”.

 

Nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica[3], Freud richiama alcune affermazioni di Totem e tabù (1912 - 1913): “La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congiuntura di Atkinson[4]. Essa dice che in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde (…) Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi”[5]. Gli espulsi formarono altre orde. I più piccoli restarono nella prima orda, protetti dalla madre prima, poi cercando di succedere al padre. Successivamente quelli scacciati unirono le loro forze “per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo”[6]. Al parricidio seguirono le lotte per l’eredità paterna, poi “persuasisi dei pericoli e dell’infruttuosità di queste lotte” i fratelli addivennero “a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia”.

Buona parte del potere assoluto tolto al padre passò alle donne, e “venne il tempo del matriarcato…

 

In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto (…) Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza)”. In sintesi il totem in un primo tempo era venerato poi “veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme (…) Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli che avevano stretto un’alleanza tra loro”[7]. A questo punto interviene la religione: “Al posto degli animali subentrarono dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio (…) Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali”. Ma torniamo alla religione: “E’ verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un solo dio - padre, unico e illimitato signore”[8].

 

Freud pensa che il monoteismo fu introdotto tra gli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C.”[9] e adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”[10] solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dal culto, dalla propria persona e da tutte le iscrizioni.

“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta (…)Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[11].

Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”[12]. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto”.

Erodoto scrive: “ei[mata de; livnea forevousi aijei; neovpluta, ejpithdeuovnte" tou`to mavlista. Tav te aijdoi`a peritavmnontai” Storie, II, 37, 2), portano vesti di lino sempre lavate da poco, curando questo in massimo grado. Le parti sessuali le circoncidono.

Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia”[13].

 

31 dicembre, giovanni ghiselli

 

 

 

 

 



[1] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento “Nel 1909 Otto Rank - allora subiva la mia influenza - pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo Il mito della nscita dell’eroe.”

[2] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, primo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, pp. 340 - 342..

[3] E’ l’ultimo scritto di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi del resto incompiuto. Uscirono entrambi nel 1938. nota p. 26

[4] C. Darwin, The Descent of the Man (Londra 1871) vol. 2, pp. 362 sg.; J. J. Atkinson, Primal Law, nel volume a cura di A. Lang, “Social Origins” (Londra 1903) pp. 220 sg.

[5] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, terzo saggio, in Freud Opere, 1930 - 1938, p. 403.

[6] S. Freud, Op. cit., p. 404.

[7] S. Freud, Op. cit., p. 405.

[8] S. Freud, Op. cit., p. 405.

[9] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 349

[10] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 350.

[11] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 353.

[12] Più avanti (Terzo saggio, p. 439) Freud ne dà un’interpretazione: “La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso”.

[13] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 355.

errata corrige

Me lo facciano sapere.