NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 28 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. Dodicesimo assaggio. Ancora la Poetica di Aristotele

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Argomenti

Le cosiddette unità aristoteliche. I caratteri. La recitazione. Condanna del mostruoso

 

Quanto alle cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o di eccederne di poco" (1449b, 13), mentre l’epica è indefinita per il tempo - hj de; ejpopoivia ajovristo" tw`/ crovnw/. Come si vede non si tratta di una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[1] approvandolo, della " semplice notizia di un fatto"[2]; eppure i critici del Rinascimento ne dedussero la regola dell'unità di tempo.

Più prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia - afferma - è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza"(1450b, 24 - 25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4).

Quanto all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni : “è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[3].

Vedremo che nelle Eumenidi di Eschilo, per esempio, non c’è unità di luogo che passa da Delfi ad Atene.

 

I caratteri

Oa vediamo quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qhPoetica, 1454a, 16 ).

“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere è ciò che rivela quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare)”[4].

ejjstin de; h\qo" me;n to; toiou`ton o} dhloi` th;n proaivresin” (Poetica, 1450 b 8), è il carattere cosa tale che rivela l’intenzione.

 

Il metodo di “dirigere l’intenzione”. Uomini di Dio e uomini di Stato

Aristotele, Pascal e molti politici di tutti i tempi

 

Non posso non obiettare che talora “l’intenzione etica” o il “proponimento” può celare l’intenzione pratica, quella reale come troviamo nel metodo gesuitico descritto da Pascal. Esso si premura di “dirigere l’intenzione che consiste nel proporsi per fine delle proprie azioni un oggetto permesso”[5].

Sicché i casuisti “permettono di uccidere per difendere l’onore e i beni, ed estendono il permesso anche ai preti e ai religiosi”. Dunque: “Nel sentire questi passi ammirai molto il fatto che mentre la pietà del re usa della sua stessa potenza a proibire e ad abolire il duello nei suoi Stati, la pietà dei Gesuiti usa la loro sottigliezza a permetterlo e ad autorizzarlo nella Chiesa”[6].

 

Non succede lo stesso nel nostro tempo quando l’intenzione dichiarata è diffondere la democrazia, quella nascosta è impadronirsi delle ricchezze di un paese o eliminare un regime scomodo?

 

Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto). Ma si vede dalle scelte che fa, non da quelle che dice.

 

I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).

“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[7].

 

La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).

 

Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea, vv. 44 - 45).

 

Quanto all’essere virile, lo è Antigone e lo è ancora di più Elettra, entrambe di Sofocle.

 

La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi. Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).

Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[8] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[9] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).

Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[10], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene. 

Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (1454a, 32).

Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[11], poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille si innamora (gennaiva ga;r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo;n jEllavdi”, v. 1397.

“In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[12].

In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi generosi e irrazionali. Ma Aristotele pretende che l'rrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come nell'Edipo di Sofocle. La Medea di Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).

 Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.

 

Interessante è anche la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".

Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[13] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil. Il mostruoso del resto è già largamente presente nel poema di Lucano e nelle tragedie di Seneca.

 

 Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23 ), ossia il poeta deve calarsi negli eventi, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[14].

 

Stanislavkij che studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[15].

 

E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e vi distraggono dall’arte”[16].

 

Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava più di una parte.

“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[17].

 

Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos;/ usibus e mediis soccus habendus erit[18], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.

Bologna 28 dicembre 2020, ore 17, 30

giovanni ghiselli

 

 

 

 



[1] A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X

[2] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione (del 1820).

[3] Opera e luogo citati sopra.

[4] Di Marco, Op. cit., p. 137.

[5] Pascal, Le Provinciali (1657) Settima lettera

[6] Ibidem

[7] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.

[8] Del 408 a. C.

[9] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.

[10] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma.

Del resto Elena, anche se è rimasta fedele al marito, inganna il suo ospite egiziano. Tale giudizio contro la guerra si trova anche alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali. 

[11] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmenOd. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128. Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

[12] Di Marco, Op. cit., p. 139.

[13] L'uomo senza qualità, p.71.

[14] La nascita della tragedia , p. 43.

[15] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.

[16] Op. cit, p. 176.

[17] M Di Marco, Op. cit., p. 90.

[18] Remedia amoris, 375 - 376.

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