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Argomenti
Le
cosiddette unità aristoteliche. I caratteri. La recitazione. Condanna del
mostruoso
Quanto alle
cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice che
la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o
di eccederne di poco" (1449b, 13), mentre l’epica è indefinita per il
tempo - hj de; ejpopoivia ajovristo" tw`/ crovnw/. Come si vede non si tratta di una
prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[1] approvandolo, della " semplice
notizia di un fatto"[2]; eppure i critici del Rinascimento ne
dedussero la regola dell'unità di tempo.
Più
prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia -
afferma - è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa
grandezza"(1450b, 24 - 25), e questa non deve essere eccessiva né da una
parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o
visione d'insieme (1451a, 4).
Quanto
all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni :
“è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la
quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un
esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[3].
Vedremo che
nelle Eumenidi di Eschilo, per esempio, non c’è unità di luogo
che passa da Delfi ad Atene.
I caratteri
Oa vediamo
quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta;
h[qh, Poetica,
1454a, 16 ).
“Per il
filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela
nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto,
attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad
affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere è ciò
che rivela quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei discorsi
da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole
evitare)”[4].
“ejjstin de;
h\qo" me;n to; toiou`ton o} dhloi` th;n proaivresin” (Poetica, 1450 b 8), è il
carattere cosa tale che rivela l’intenzione.
Il metodo di
“dirigere l’intenzione”. Uomini di Dio e uomini di Stato
Aristotele,
Pascal e molti politici di tutti i tempi
Non posso
non obiettare che talora “l’intenzione etica” o il “proponimento” può celare
l’intenzione pratica, quella reale come troviamo nel metodo gesuitico descritto
da Pascal. Esso si premura di “dirigere l’intenzione che consiste nel proporsi
per fine delle proprie azioni un oggetto permesso”[5].
Sicché i
casuisti “permettono di uccidere per difendere l’onore e i beni, ed estendono
il permesso anche ai preti e ai religiosi”. Dunque: “Nel sentire questi passi
ammirai molto il fatto che mentre la pietà del re usa della sua stessa potenza
a proibire e ad abolire il duello nei suoi Stati, la pietà dei Gesuiti usa la
loro sottigliezza a permetterlo e ad autorizzarlo nella Chiesa”[6].
Non succede
lo stesso nel nostro tempo quando l’intenzione dichiarata è diffondere la
democrazia, quella nascosta è impadronirsi delle ricchezze di un paese o
eliminare un regime scomodo?
Insomma il
carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal
suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto). Ma si vede dalle scelte che fa, non da
quelle che dice.
I caratteri
devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo,
ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la
donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di
poco conto (fau'lon).
“Aristotele
è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come
lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune
quello che più annebbia la sua visione”[7].
La seconda
qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si
addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~
ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).
Quanto
all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la
presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia
stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea,
vv. 44 - 45).
Quanto
all’essere virile, lo è Antigone e lo è ancora di più Elettra, entrambe di
Sofocle.
La terza
qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a
cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero,
secondo il principio della mimesi. Poi viene la coerenza (to;
oJmalovn, 1454a, 26).
Aristotele
procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[8] di Euripide costituisce un esempio di
malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista
dell’ Ifigenia in Aulide[9] è un paradigma di incoerenza (tou' de;
ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su
questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a
caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani"
nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[10], con lo scopo di dare un'immagine negativa
della città nemica di Atene.
Quanto a
Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla
successiva" (1454a, 32).
Nella
tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di
risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando a dire,
come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n
krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[11], poi cambia idea e, con tutta l’anima
nobile della quale Achille si innamora (gennaiva ga;r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per
l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo;n jEllavdi”, v. 1397.
“In realtà è
tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della
mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte
parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla
guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della
spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno
sostengono tesi speculari ed opposte”[12].
In effetti
Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da
impulsi generosi e irrazionali. Ma Aristotele pretende che l'rrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla
tragedia come nell'Edipo di Sofocle. La Medea di Euripide viene
criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per effetto del racconto
stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).
Contro
questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono
apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà
Nietzsche, come vedremo.
Interessante
è anche la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del
legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la
tragedia".
Ho riferito
questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta
l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della
realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se l'umanità fosse
capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[13] che era un idiota squartatore di
prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo
di Musil. Il mostruoso del resto è già largamente presente nel poema di
Lucano e nelle tragedie di Seneca.
Notevole
è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio
rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23 ),
ossia il poeta deve calarsi negli eventi, "come se fosse in mezzo ai fatti
stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi
scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La nascita
della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione
artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta,
attore e spettatore”[14].
Stanislavkij che
studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba
essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli
succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e
della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare
quanto riceve dall’esterno"[15].
E ancora:
“Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche.
Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta.
Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole
preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e
vi distraggono dall’arte”[16].
Tuttavia
nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al
personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava
più di una parte.
“Una tarda
testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus
sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la
recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente
colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente
l’altra”[17].
Qualche cosa
di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande
sonant tragici: tragicos decet ira coturnos;/ usibus e mediis soccus habendus
erit”[18], i tragici hanno un suono forte: l’ira si
addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Bologna 28
dicembre 2020, ore 17, 30
giovanni
ghiselli
[1] A. W. Schlegel, Corso di
letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[2] A. Manzoni, Il conte di
Carmagnola, Prefazione (del 1820).
[3] Opera e luogo citati sopra.
[4] Di Marco, Op. cit., p. 137.
[5] Pascal, Le Provinciali (1657)
Settima lettera
[6] Ibidem
[7] G. Murray, Le origini
dell’Epica Greca, p. 30.
[8] Del 408 a. C.
[9] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[10] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del
412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della
guerra di Troia combattuta per un fantasma.
Del resto
Elena, anche se è rimasta fedele al marito, inganna il suo ospite egiziano. Tale
giudizio contro la guerra si trova anche alla fine dell’Elettra euripidea,
quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao,
dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio
un'immagine (ei[dwlon) di lei,
affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
[11] E' il
ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati,
poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante
efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo
incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen, Od. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero ,
p. 128. Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove
ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver
letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa
che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da
poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra
eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro
quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe
vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere!
Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità!
L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco,
“ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.
[12] Di Marco, Op. cit., p. 139.
[13] L'uomo senza qualità, p.71.
[14] La nascita della tragedia ,
p. 43.
[15] K. Stanislavskij, Il lavoro
dell’attore, p. 133.
[16] Op. cit, p. 176.
[17] M Di Marco, Op. cit., p.
90.
[18] Remedia amoris, 375 - 376.
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