mercoledì 30 dicembre 2020

6 incontri sulla tragedia greca. XVIII assaggio. Altri vari commenti sul dramma

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Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più il tempo, nel senso che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.

 

Posso aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate (…) Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[1]. Sul saggio di Pirandello tornerò più avanti.

 

Intanto cito Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc. Il popolo è comico, spiritoso (…) L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[2].

 

Vediamo ora una critica contrastiva rispetto ai miei gusti e a quelli di molti tra voi immagino: quella di A. Schopenhauer, il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti - idealista e anti - storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.

“Il nostro godimento della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio (...) A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più (…)

Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci (…) Ciò che dà al tragico, in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[3].

Tale rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)[4]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.

Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [5]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[6] .

 

“Edipo, dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di età classica)”[7].

 

 Migliore dunque, secondo Schopenhauer è la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi:"Shakespeare è molto più grande di Sofocle. e in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone e il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale (…) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[8]" .

 

La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”[9]

 

Più avanti, negli stessi Supplementi, Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [10] (Stob. Flor., II, 299) ( ..) Alle persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[11].

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Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja : “Una è identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda”[12]. Non senza grande dolore. In alcuni individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[13]; così Amleto (…) così ancora la Pulcella d’Orléans[14], la Fidanzata di Messina[15]: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta (…) Il vero senso della tragedia è la cognizione (...) che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:

Pues el delito mayor

del hombre es haber nacido [16],

 

come apertamente afferma Calderón (…) Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.

 

Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[17], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.

 

Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina.

 

La sventura può essere cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti (…) Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai caratteri degli uomini ; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi (…) Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[18]. Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed Ofelia; anche il Wallenstein[19] ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein[20].

 

Diversi anni dopo le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[21]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :"Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[22].

 

Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.

 Dunque il re di Atene, paradigma mitico di Pericle, elogia quello tra gli dèi che ha regolato, reso ordinata la nostra vita da confusa e bestiale che era (ejk pefurmevnou[23] kai; qhriwvdou" ), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza - ejnqei;" suvnesin - , poi dandoci la lingua messaggera delle parole (glw`ssan lovgon douv"), in modo da rendere comprensibile la voce (vv. 201 - 205).

Nelle Supplici Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota una sorta di anticittà non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).

Teseo è lo stratego ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un comandante come lui che misei` uJbristh;n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul gradino più alto e distrugge il vantaggio conseguito prima[24]. E’ un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio (424).

 

giovanni ghiselli

bologna 30 dicembre ore 17, 51

 

 


[1] Pirandello, L’umorismo, p. 45.

[2] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1443.

[3] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 112.

[4] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d j oujdei;" povqo" "(Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. Ndr. 

[5] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.

[6] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113..

[7] G. Guidorizzi, Op. cit., p.XIV.

[8] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.

[9] Di Marco, Op. cit., p. 129.

[10] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone: “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.

[11] Schopenhauer, Supplementi, p. 116

[12] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.

[13] Di Goethe ovviamente ndr.

[14] Di F. Schiller, 1801 ndr.

[15] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.

[16] poiché il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno , I, 2.

[17] Personaggio di I masnadieri (1781) di Schiller.

[18]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.

[19] Trilogia di F. Schiller.

[20] . Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344

[21] Tentativo di autocritica ( aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.

[22] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888 - 14, p. 229.

[23] Participio perfetto medio passivo di fuvrw, confondo. La confusione anche qui è emblema di male.

[24] Come Capaneo, poi colpito dal fulmine di Zeus.

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