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Woody Allen fa dire
a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy
is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più il tempo, nel senso
che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.
Posso aggiungere che
alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà,
"il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate
(…) Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo,
unilaterale”[1]. Sul saggio di Pirandello tornerò più
avanti.
Intanto cito Pasolini:
“Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli
scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc. Il popolo è comico,
spiritoso (…) L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo
di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[2].
Vediamo ora una critica
contrastiva rispetto ai miei gusti e a quelli di molti tra voi immagino: quella
di A. Schopenhauer, il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non
insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il
filosofo anti - idealista e anti - storicista che Nietzsche, nella terza
delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte
(1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento
della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a
quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come
noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della
volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica
ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci
viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il
dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio
(...) A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla
vita, a non volerla e a non amarla più (…)
Nel momento della
catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita
sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci (…) Ciò che dà al tragico,
in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il
sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera
soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo
spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[3].
Tale rassegnazione
secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e
non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di
rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo
muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta
contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il
pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo
animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima
in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande
Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw
bivo" (v. 1306)[4]; ma
anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie,
cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [5].
Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra
dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma
nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[6] .
“Edipo, dal canto suo,
scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso,
non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in
ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di
età classica)”[7].
Migliore dunque, secondo Schopenhauer è la
"tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la
volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua
vanità e nullità". Quindi:"Shakespeare è molto più grande di Sofocle.
e in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi
rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un
indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno
alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di
Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone
e il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto
l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò
provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti
ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in
generale (…) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane
la vera tendenza della tragedia[8]" .
La tragedia classica in
effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in
particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura
hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica
il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come
lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono
state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”[9].
Più avanti, negli stessi Supplementi,
Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia
sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la
tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di
grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia,
perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita
umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo
spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`,
feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [10] (Stob. Flor., II, 299) ( ..) Alle
persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[11].
.
Nel terzo libro di Il
mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune
tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare
l’ingannevole velo di Maja : “Una è identica volontà è quella, che in tutti
vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a
vicenda”[12]. Non senza grande dolore. In alcuni
individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca
il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la
forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene
addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi
prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione
dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la
rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di
vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar
per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì
vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa
abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[13]; così Amleto (…) così ancora la Pulcella
d’Orléans[14], la Fidanzata di Messina[15]: tutti muoiono purificati dal dolore,
ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta (…) Il vero senso della
tragedia è la cognizione (...) che l'eroe non sconta i suoi peccati personali,
ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
del hombre es haber
nacido [16],
come apertamente afferma
Calderón (…) Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla
tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal
poeta, sono di tre specie.
Può accadere per la
straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità,
d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere
sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di
Venezia, Franz Moor[17], la
Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.
Oppure può accadere per
un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero
modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in
genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono
esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire,
la Fidanzata di Messina.
La sventura può essere
cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro
rapporti (…) Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre
due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come
un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma
come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità,
dall’azione e dai caratteri degli uomini ; e appunto perciò la rende in
terribile modo vicina a noi stessi (…) Allora rabbrividendo ci sentiamo già in
mezzo all’inferno”[18].
Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di
Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto,
se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed
Ofelia; anche il Wallenstein[19] ha
questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò
che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale
manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di
Max rispetto a Tecla nel Wallenstein”[20].
Diversi anni dopo
le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa
interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e
guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[21]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti
Postumi :"Schopenhauer sbaglia quando fa di
certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna
la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e
problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza
nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte
afferma"[22].
Possiamo trovare una
nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del
422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene,
confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli
uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo
nella luce.
Dunque il re di
Atene, paradigma mitico di Pericle, elogia quello tra gli dèi che ha regolato,
reso ordinata la nostra vita da confusa e bestiale che era (ejk
pefurmevnou[23] kai;
qhriwvdou" ), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza - ejnqei;"
suvnesin - , poi dandoci la lingua messaggera delle parole (glw`ssan
lovgon douv"), in modo da rendere comprensibile la voce (vv. 201 - 205).
Nelle Supplici
Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da
Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota una
sorta di anticittà non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Teseo è lo stratego
ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la
sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha
vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere
un comandante come lui che misei` uJbristh;n laovn
(v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul
gradino più alto e distrugge il vantaggio conseguito prima[24]. E’ un appello ai cittadini perché non
eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto
gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio
(424).
giovanni ghiselli
bologna 30 dicembre ore
17, 51
[1] Pirandello, L’umorismo, p.
45.
[2] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e
sulla società, p. 1443.
[3] Supplementi
al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione,
in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto
edizioni, p. 112.
[4] Basta la vita! In realtà è il v.
1314. A questa espressione sconsolata di
Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto
desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou'
bivou d j oujdei;" povqo" "(Elettra,
v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. Ndr.
[5] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.
[6] Supplementi
al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione,
in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto
edizioni, p. 113..
[7] G. Guidorizzi, Op. cit., p.XIV.
[8] A. Schopenhauer, Supplementi, p.
113.
[9] Di Marco, Op. cit., p. 129.
[10] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone:
“ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[11] Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[12] A. Schopenhauer, Il mondo come
volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.
[13] Di Goethe ovviamente ndr.
[14] Di F. Schiller, 1801 ndr.
[15] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[16] poiché
il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno , I,
2.
[17] Personaggio di I masnadieri (1781)
di Schiller.
[18]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.
[19] Trilogia di F. Schiller.
[20] . Schopenhauer, Il mondo come
volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344
[21] Tentativo di autocritica (
aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p.
12.
[22] Scelta di frammenti postumi,
primavera 1888 - 14, p. 229.
[23] Participio perfetto medio passivo
di fuvrw, confondo. La confusione anche qui è emblema di male.
[24] Come Capaneo, poi colpito dal fulmine
di Zeus.
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