venerdì 13 aprile 2012

Antigone di Sofocle - di Giovanni Ghiselli






L’Antigone di Sofocle è la storia di una
disobbedienza: quella di una ragazza indignata per l’ editto del tiranno di
Tebe, Creonte, che ha ordinato di non dare sepoltura a Polinice il quale ha
attaccato la città con altri sei duci provenienti da Argo. I sette assalitori
sono stati sconfitti e uccisi.






Ma Antigone, sorella
di Polinice e orfana di Edipo e Giocasta la suicida sorella dell’autocrate,  manifesta il proposito di trasgredire l’ordine
iniquo commettendo una “illegalità santa”. Non sempre le leggi sono giuste.


Lo sono, sostiene Don Milani, quando costituiscono la forza
del debole." Quando invece esse "sanzionano il sopruso del
forte", è bene "battersi perché siano cambiate".


La
giovane non ha paura. Non teme nemmeno la morte. Infatti dice: "io non
soffrirò nulla di così grave da non morire nobilmente".


Quindi entra in scena Creonte,
presentandosi come un capo efficiente: ha salvato la città dagli assalitori.


Ma una guardia gli porta la notizia che qualcuno ha reso a
Polinice l’onore funebre proibito, spargendogli addosso  l’assetata polvere. Creonte allora ordina
l’arresto di chi ha compiuto la trasgressione.


Il primo Stasimo (vv. 332-383) è uno dei brani più famosi
del teatro greco anche per il rilievo che gli ha dato Heidegger nella Introduzione alla metafisica. Notissimo
è lo squillo iniziale: “ molte sono le cose inquietanti (deiná) e niente è più inquietante dell’uomo”. Il filosofo tedesco
pone in rilievo la violenza insita nell’aggettivo deinós.


L'uomo è
meraviglioso e terribile; è capace di tutto, anche delle peggiori atrocità. [1].


Questo  canto corale
mette in discussione lo sviluppo tecnologico che può essere volto al bene
oppure al male.


L’uomo  possiede il
ritrovato della tecnologia e ha varie possibilità:  colui che unisce le leggi  con la 
giustizia,  è grande nella città;
mentre è ápolis,  bandito dalla vita della polis, quello con il
quale convive il brutto morale.


 Non poche parole di
Sofocle sono ambigue.


Per Antigone, nomos, legge, è  altro da
ciò che intende Creonte con la stessa parola. Secondo la fanciulla, il termine
significa "norma religiosa"; per Creonte, "editto del capo dello
Stato". Un editto che la ragazza considera contrario alle leggi della
coscienza e della natura. La collisione tragica tra i due non arriva a una
composizione: entrambi rifiutano ogni compromesso.


Creonte rinfaccia alla riottosa
nipote la benevolenza nei confronti di un nemico della polis, e Antigone
risponde con un verso che condensa l’umanesimo di Sofocle: “non sono nata per
condividere l'odio ma l'amore".


Il tiranno allora si propone di uccidere la ragazza
nonostante sia pure la fidanzata del proprio figliolo Emone:" ci sono
campi da arare  anche di altre",
dice. La donna è assimilata alla terra.


Creonte ha terrore che la disobbedienza di Antigone diventi
un esempio cattivo, latore di quella anarchia che  manda in rovina le città.


La salvezza della comunità, sostiene, risiede nella
disciplina.


Egli vorrebbe imporre vincoli soprattutto all’anima disordinata
delle donne .


E' l'eterna paura che l'uomo ha dell’indipendenza femminile.


Il figlio lo supplica di non privarlo della fanciulla amata,
ma Creonte non vuole cedere e, dopo avere proibito la sepoltura di un morto, ordina
di seppellire viva la giovane in un antro di pietra.


 Mentre la ragazza
viene condotta nella caverna, il corifeo  le fa notare che tra l’altro  sconta i misfatti del padre Edipo. E’ il
grande mistero dell’ereditarietà delle colpe.


Segue uno scontro fra Creonte e Tiresia, il vate che
presoffre tutto. Ha individuato segni brutti: gli hanno rivelato che la città è
malata per la disposizione mentale del suo capo. 


Il tiranno comincia a spaventarsi. Infine riconosce che
contro la Necessità non si può lottare. Quindi spedisce i servi a eseguire le
richieste del sacerdote e del figlio.


Ma ha capito troppo tardi.  La catastrofe è già compiuta. Antigone si è
impiccata ed Emone si è ucciso vicino a lei. Anche la madre del ragazzo si è
tolta la vita. Il racconto finale è pieno di cadaveri.


 Gli ultimi versi esprimono
la morale della tragedia:


“Il comprendere  è di
gran lunga il primo requisito della felicità; è necessario poi non essere
empio”. 


 
La pietà suprema in definitiva è l'intelligenza.  





Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it 















[1]
Cfr. Musil:” "L'umanità
produce Bibbie e cannoni, tubercolosi e tubercolina", 
L'uomo senza qualità, p. 22.





martedì 3 aprile 2012

Antonio Tabucchi - di Giovanni Ghiselli






Tabucchi nel suo libro più noto, Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994) ci insegna che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non
possono sottrarsi all’impegno politico che è anche impegno morale. Roberto
Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un bel film,  che Rai Tre ha riproposto pochi giorni fa,
subito dopo la morte dello scrittore.






Il romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero
rammentare a tutti noi, quanti studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura
non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di paideia, che è educazione degli uomini,
deve schierarsi, e non da una parte qualunque, ma da quella dei deboli oppressi
dal potere. Leggo in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere
scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare
attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri”. Tanti scarabocchiatori
libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie,  discettano intorno al proprio ombelico, come
se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico,
mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance.
Schopenhauer definiva “boschēmata
simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa
bestiame, bestiame che si pasce.


Facciamo un breve excursus su altri autori che hanno
trattato il problema.


Il grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la
storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità
effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e
Machiavelli, ha ricordato un  discorso
pubblico di Pericle, il famoso lógos
epitáfios
, nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi
consideravano non pacifico, ma inutile il cittadino che non si occupa di
politica, ossia della vita della polis.
   


 Thomas Mann sostiene che l’artista vive una
vita simbolica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore,
come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per
esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come insegna il
romanzo di Tabucchi, di rischiare, di dare un esempio, di mettere in gioco
perfino la propria vita. Del resto Pereira mettendo a rischio la vita fiacca e
dimidiata che viveva, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale:
quella di scrittore, di uomo, di intellettuale. Pasolini ha previsto la propria
morte violenta quando ha scritto che" il potere e il mondo che, pur non
essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli
intellettuali liberi-proprio per il modo in cui è fatto-dalla possibilità di
avere prove e indizi"[1].
Infatti nello stesso articolo del “Corriere della sera” del 14 novembre 1974,
scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché
sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il
mistero”. Certamente la sua morte obbedisce a una logica, una logica perversa e
criminale, ma pur sempre una logica.


Pasolini fa parte del gruppo
degli scrittori martiri, eliminati dal potere. Pereira invece riesce a
cavarsela, e senza demerito. Il film di Faenza nelle ultime inquadrature mostra
lo scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla scelta politica e morale compiuta,
si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a
scrivere politicamente altrove. Di Pier Paolo Pasolini sappiamo tutti come è
andato a finire e perché. Comunque continua a essere letto, e molto più dei
pennivendoli che pascolano foraggiati dal regime.


Il potere tollera il dissenso
solo se questo è retorico, o ambiguo, comunque non scomodo, talora anzi tale
fronda è perfino indirettamente funzionale a chi comanda davvero. Si pensi al
finto dissenso dei Fazio e di altri sorridenti prosseneti del genere, pagati a
suon di milioni di euro oltretutto.


 Voglio ricordare alcuni storiografi martiri
fatti fuori dal potere imperiale di Roma per il loro dissenso vero. "Del
senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il
celebre prefetto del pretorio di Tiberio;
ed egli, accusato, s'era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu
un'esaltazione della libertà di pensiero storico)... … Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto
"la virtù in persona[2]",
come lo definì Tacito , si uccise[3]
accusato di lesa maestà: aveva scritto
una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo
sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo
difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso
principato"[4].


Ovidio subì un trattamento
meno pesante: fu mandato a morire di crepacuore sulle rive remote e desolate
del Mar Nero. Eppure lui non aveva messo in discussione il potere di Augusto:
si era limitato a una polemica da libertino contro il moralismo ufficiale del
regime e dei suoi cantori, compreso il pur grande Virgilio. Tale dissenso
limitato a un aspetto del costume fu comunque sufficiente per metterlo al
bando.


Ma ora, è già tempo, concludo tornando,
doverosamente, al bel libro di Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista
eponimo. In una nota finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira
significa albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un
cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica
sono nomi di città”. E aggiunge: “Con questo volli rendere omaggio a un popolo
che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le
grandi ingiustizie della Storia”. La lettura del libro in effetti suscita
simpatia per tutti i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e
insegna il dovere dell’impegno di ogni persona per bene in loro favore. Ma
vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del
1938, Pereira è un letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di
spirito. Dirige la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio,
traduce romanzi francesi, e vive di ricordi. Soprattutto di quello della moglie
morta di tisi.


Ma poi fa degli incontri, con
due ragazzi che “gli curano l’anima, come facevano i bambini con l’Idiota di
Dostoevskij. Più tardi conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e,
soprattutto, lo aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che
è: un uomo buono e intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere nel
passato, un vivere ozioso, inutile, impolitico insomma. Lo esorta a non
trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani dissidenti e oppositori
del regime filofascista di Salazar hanno messo in moto, chiedendogli aiuto. La
stessa letteratura, se è buona, ci dà 
stimoli  verso una vita attiva,
impegnata e impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi:
a Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di solito
parlava di filosifia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio,
che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si
occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra
che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di
quella antica ruggine[5]
tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita dall’Ulrich
di Musil[6].


Pereira fa un altro incontro
che lo spinge verso il disseppellimento della propria identità, inumata sotto
ricordi e rimpianti, e coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli
spiriti disoccupati. Si tratta di una signora con una gamba di legno, una
ebrea-tedesca di origine portoghese, una cosmopolita dunque, incontrata in
treno, che lo mette di fronte ai suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica
quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma
faccia qualcosa”. Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo
incalza: “Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la volontà”. La
volontà di Pereira si rafforza negli incontro con i giovani, Monteiro e Martha.
La visione della ragazza, della sua “bella silhouette che si stagliava nel
sole” contribuisce alla salute psicologica e fisica del letterato senescente.


Segue l’incontro di cui dicevo, poi l’intesa e l’amicizia
con un medico della clinica talassoterapica dove Pereira va a curarsi. Il
giovane dottor Cardoso,  che si diletta
di letteratura francese e di psicologia, gli parla dell’evento, un avvenimento
imprevisto “che si produce nella vita reale e sconvolge la vita psichica”. Sono
quegli avvenimenti  accidentali di cui
parla Lucrezio . Non si tratta di qualità congiunte ai corpi (coniuncta), come il rosso del sangue per
esempio, ma sono accidenti che certamente influiscono sulla nostra vita.
Lucrezio enumera alcuni di questi eventa:
la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli
eventi di Pereira sono questi incontri con persone significative, che lo
colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che dentro di
noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che
prende la guida della confederazione”.


Pereira un poco alla volta perde peso e prende coscienza del
suo nuovo io egemone. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato
e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco,  un battaglione, detto Viriato[7],
usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo la metà del
II secolo a. C.


Il fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro
Rossi nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie morta
con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con un sorriso
lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio letterato, l’umbraticus doctor, si sarebbe sentito
meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira
dove si era rifugiato Monteiro e lo ammazzano di botte. Quindi intimano al
giornalista di non parlare minacciandolo di morte. E’ una sera di fine estate,
e il vecchio quella sera dimentica la sua prudenza, le  paure, la sua impoliticità e concede il potere
al nuovo io egemone, coraggioso e battagliero, denunciando l’orribile crimine
dei sicari del regime con un articolo di fuoco che riesce a fare stampare e
pubblicare con uno stratagemma e con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del
cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda e avevano
fatto un’alleanza davvero santa.


Nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira
si avvia rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.


Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori
hanno contribuito ad accrescere la mia vita. I ganascioni del regime invece non
li leggo e non li ascolto.





Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it





NOTE:









[1]
Scritti corsari , p. 113.




[2]
"Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto",
Annales ,  XVI, 21, Nerone volle
uccidere la virtù in persona con l'ammazzare Trasea Peto.




[3]
Nel 66 d. C.




[4]S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico
, 3, p. 64.




[5]
palaia; mevn ti~ diaforav, Repubblica, 607b.







[6]
Egli non era un filosofo. I filosofi sono dei violenti
che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo
in un sistema”,  L’uomo senza qualità, p.243.







[7]
Cui quidem etiam exercitus nostri
imperatoresque cesserunt
, davanti al quale si ritirarono perfino i nostri
eserciti e i nostri generali,   ricorda
Cicerone in De officiis, II, 40.
Viriato Morì nel 138 a. C. fatto uccidere a tradimento dal console Servilio
Cepione. Salazar avrebbe dovuto assimilarsi più realisticamente agli assassini
di Viriato. 





La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...