giovedì 27 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Quattordicesimo capitolo



Monte Donato

La degnazione della diva. I pensieri del 30 maggio trascritti in forma incondita. Ifigenia  quale simbolo di un'età egoista e nichilista, senza alcun principio né scopo se non il conseguimento dell'utile personale e immediato. Il farfugliare truffaldino dei politici obesi. Progetto e schemi di una nuova tragedia. La  prova a cronometro su per la salitaccia del monte Donato

Dopo l'esibizione, Ifigenia si sentiva una stella: venne a casa mia e acconsentì a fare l'amore, ma con degnazione nemmeno tanto celata. Nuda e distesa sul letto, non aveva smesso di recitare; anzi si dava insopportabili arie da attrice famosa. L'accompagnai a casa sua, provando rancore per lei e per me stesso che continuavo ad amare una donna del genere.
Il giorno seguente, sabato trenta maggio , la ragazza passò la giornata a concentrarsi sull'esame di recitazione, io a riflettere sulla decadenza e rovina del nostro rapporto. Mancavano meno di due settimane alla caduta finale.
Trascrivo i pensieri di quel giorno lontano, inconditi come li trovo nel diario:
"Ecco perché il secondo anno ho smesso di amarla: vedevo già i segni dell'egoismo volgare che ora sta dispiegando in tutta la sua piatta, ottusa e immensa grandezza. Adesso mi sfrutta apertamente, non dissimula nemmeno i sentimenti cattivi, non nasconde l'illusione ridicola di valere molto più di me, e di avere migliori possibilità che stare con me. Prende tutto come se le fosse dovuto, senza apprezzare il  tempo che impiego per il suo esame, anche a discapito del lavoro mio. E' un prodotto tipico di quest'età superba e vuota. Maggior mi sento[1]. Già è ingrata e superficiale di sua natura, poi il mondo istrionico ha esercitato un'influenza funesta sul suo carattere. Una seduzione cattiva che non riesco a controbattere. Ho usato tutte le forze di cui disponevo. Non le ho sprecate però. Quello che non ho insegnato a lei (onestà, giustizia e così via), l'ho imparato per me e per la prossima femmina umana, chiunque ella sia.
Ora prova fastidio della mia serietà, del rigore che lei stessa mi consigliava quando ci teneva, e come, a stare con me, poiché voleva essere aiutata; allora aspirava a essere la mia unica donna, non sopportava di condividermi con altre, mentre io facevo l'esteta, il seduttore insofferente di impegni morali, incapace di scelte radicali e definitive.

“Laudata sii, Diversità/delle creature, sirena/del mondo! Talor non elessi/perché parvemi che eleggendo/io t’escludessi,/o Diversità, meraviglia/sempiterna”[2], mi dicevo in quel tempo. Ora però le nostre situazioni si sono capovolte: Ifigenia sguazza nella corruzione, nell'ingiustizia e nell'estetismo mediocre; io tendo a diventare morale: a scegliere il bene e la vita. In questo tempo doloroso ho reso migliore me stesso, non lei. Oramai è meglio perderla: il suo comportamento rozzo e cattivo versa nell'anima mia un veleno composto di noia e dolore. Ho ancora meno in comune con quella che con una borghese soddisfatta e convinta che almeno ha viaggiato, ha visto qualcosa e ne può parlare. Ifigenia per l'arte non ha una passione autentica, altrimenti studierebbe; per il teatro non possiede un vero talento, né un interesse profondo; se non fosse così, non punterebbe tutto sull'offerta del corpo a maestri famosi; esperienze di vita con me non ha voluto farne, tranne la bicicletta e quel paio di viaggi dove del resto si è comportata da parassita : insomma ha soltanto la smania del successo comunque, e lo strumento della sua potenza fisica disposta a correre rischi di ogni natura: un mezzo valutato troppo, per il fatto che con me ha funzionato, ma inadeguato al nuovo fine: a ottenere un lasciapassare dai maschi più cattivi che buoni, posto che abbiano la volontà di darglielo, o ne siano in grado. Io sono riuscito a trovare anche mito e poesia in una poveretta del genere; quelli sui quali ora la disgraziata punta tutto, probabilmente la useranno senza ascoltarla, senza scoprire niente in lei, a parte la carne di cui si pasceranno come fanno i lupi con le pecore: materia scambiata con una speranza di applausi e lustrini.
Da quando ha fatto questa puntata folle su un destino di gran rinomanza, mi ha escluso dal suo amore e dalla sua intimità spirituale. Del resto ha ancora  bisogno di me, perciò continuerà a strumentalizzarmi e a lasciarmi usare la sua bellezza finché le sarà utile. Veramente Ifigenia è un simbolo dell'epoca nostra: egoista e nichilista, senza alcun principio oltre l'utile. Fa come Poppea: “Unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat”[3]. Che se ne vada è cosa soltanto buona. Io devo restare solo, indagare me stesso, tentare la rivoluzione morale. Da questo dolore devo ricavare un messaggio di eticità autentica, del tutto diverso dal farfugliare truffaldino dei politici obesi che quando aprono le bocche voraci, i denti da pescecane, simulano competenze inesistenti mentre dissimulano tutta la vergognosa avidità che li anima. E corrompono il popolo, soprattutto i giovani. Quella ragazza, come tanti coetanei suoi, è peggiorata con il clima politico e con i costumi generali. La scelleratezza massima di questo regime di ladri è il cattivo esempio che dà alla gente. Dalla nostra miserabile storia, rappresentativa del triennio nel quale si è svolta, devo trarre la luce e i semi di una nascita nuova. Potrebbe essere una tragedia neoclassica: eschilea per la presenza della Giustizia, sofoclea per lo scavo psicologico dei personaggi, euripidea per la descrizione della decadenza di una civiltà.
Un'opera che ponga la questione morale in termini inquietanti per tutti. Partendo dal nostro rapporto infelice, siccome immorale, devo comunicare il messaggio che non può darsi felicità senza moralità. Potrebbe esserci un coro di giovani desiderosi del Bene. Ragazzi che rifiutano non solo i professori incolti, ma tutti i cattivi maestri di questa era guasta che ci rende disperati.
Lo schema potrebbe essere questo:
I Atto. Ci conosciamo a scuola. Parliamo delle nostre vite di edonisti-esteti, dediti al piacere e al culto della bellezza.
II Atto a Debrecen. Miei sospetti e angosce. Un'occhiata all'Europa, con una retrospettiva fino al 1966. L' infelicità sessuale di quel periodo. Dialoghi con le finniche degli anni '70 per mostrare la cultura di quel decennio felice. Peggioramento dei rapporti umani già dal 1979.
III Atto. A Pesaro. Colloqui con le zie pretificate. Arriva Ifigenia. Serie difficoltà.
IV Atto. Mia emozione per Lucia, altra supplente bellocciua. Dialoghi a scuola.
V Atto. Emozione di Ifigenia per il ballerino. Loro colloqui. Lui le parla del mondo dello spettacolo e la affascina. Epilogo e soluzione ancora da trovare".

Appena ebbi finito questo programma, sentii suonare le campane di una chiesa vicina. Poteva essere l'assenso divino al mio piano.
Anche quando Ifigenia arrivò stremata sul monte delle formiche, i rintocchi del santuario diedero un segno.  Forse dovevo fare un altro tentativo per  indurla a considerarsi una persona morale e razionale. Potevo  spiegarle quanto avevo pensato e progettato. Se l'idea del secondo dramma le fosse piaciuta, se ne avesse provato interesse, magari saremmo risaliti dalla buca fangosa dove eravamo caduti anche perché da tanto tempo oramai non avevamo più progetti ma solo ricordi comuni. Se avesse collaborato, ce l'avrei fatta. Mi aveva detto che dovevo continuare a scrivere, che ne ero capace. Finalmente avevo qualcosa di propositivo da dirle. Poteva darmi un'altra volta un compito impegnativo, difficile: ci avrei messo il meglio delle mie forze, non avrei più avuto l'angoscia. Il fine nobile e universale, era educare il popolo, massime i giovani; quello più personale e pratico, competere con i registi, gli attori e tutti i maschi di prestigio che Ifigenia avrebbe incontrato facendo l'attrice. Per emularli e batterli, dovevo creare una grande opera d'arte, costruirmi una fama più vasta e duratura di quella che loro, i già famosi, avrebbero potuto sbattere in faccia alla donna mia per portarsela a letto.

"Se voglio continuare a fare l'amore con lei, devo avere successo attraverso lo scrivere.  In fondo per arrivare a lei, nel '78, ho dovuto compiere un'impresa che tre anni prima mi sarebbe sembrata irrealizzabile. Nell'autunno del '75 infatti ero un velleitario del tutto incolto. Sciupavo il mio tempo in chiacchiere vane. La mia preparazione professionale era fatta di manuali, paradigmi e giornali. Sicché quando ho avuto l'incarico di latino e greco al Rambaldi di Imola, quasi nulla sapevo. Meno dei ragazzi più bravi sapevo. Avevo di buono che non sapevo nemmeno simulare. Né lo volevo. Per sopravvivere ho dovuto contare sulla loro pazienza, e non vergognarmi troppo della loro pietà. Bravo come ero stato da studente sui banchi del Mariani di Pesaro, quando cominciai da insegnante liceale, dovetti accettare il fatto che molti ragazzi e, quel che è peggio, ragazze, non mi ascoltassero, e che alcuni addirittura leggessero un libro o un giornale. Non mi cacciarono per compassione, credo. Fino a Natale in terza facevo lezione tremando. A casa studiavo, studiavo sempre. Giorno e notte studiavo. Per ogni venti versi di traduzione dell’Edipo re, per ogni dieci righe di Tacito, mi leggevo un libro di critica. In gennaio dai banchi sparirono tutti i giornali, e in maggio allieve e allievi prendevano appunti. Il secondo anno, al Binghetti, fin dal primo giorno, erano molti quelli che scrivevano le mie parole. Avevo studiato pure d'estate. Il terzo anno raggiunsi il successo. Poi, all'inizio del quarto, il premio: la super-ragazza ventiquattrenne. “Ce l'ho fatta - mi dissi - oh Dio, ce l'ho fatta.” Deve andare così un'altra volta.
Qualche anno, due, tre, anche dieci o più, di sacrifici inumani, se necessario, poi il capolavoro, la gloria, la fama. Se ti riesce, lei ti ama di nuovo. O magari trovi di meglio. Un amore morale. Una di stile elevato e di anima nobile. Insomma una grande donna, bella e fine".
A questo punto mi feci due obiezioni: "Che gusto c'è a fare l'amore con una che ti ama soltanto nel caso che tu abbia successo?"
Poi: "Se Ifigenia, invece di aspirare al teatro, avesse mirato a studiare con serietà, non sarebbe stato tutto più semplice e bello?"
Non mi diedi risposta: non ne potevo più di pensare; inoltre erano già le sette di sera, e se volevo fare un giro in bicicletta prima di andare a vedere  il suo esame, dovevo sbrigarmi. Anche tu lettore,
suppongo, sarai stanco di una ruminazione mentale che aveva stremato uno come me, allenatissimo all'almanaccare. Andai a cronometro su per il monte Donato. Feci un buon tempo con un rapporto più duro del solito.
"La marcia in più – pensai - che riesco a usare quando il pensiero di lei mi mette alla prova". Avevo pedalato con leggerezza e potenza; così avrei scritto il mio capolavoro; così avrei superato tutti i registi e gli attori famosi nella sua stima. Il sole tramontò vicino a S. Luca alle 20 e 34 minuti. Gli chiesi il successo per la mia compagna e per me. Quindi tornai velocemente a casa, feci la doccia e mi avviai verso il teatro. Avevo indossato un vestito di lino azzurro su una camicia bianca e mocassini rossicci. Ero teso.

giovanni ghiselli a Polina

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[1] Cfr. Leopardi, Il pensiero dominante: "Di questa età superba,/che di votesperanze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/einutile la vita/quindi più sempre divenir non vede,/maggior mi sento" vv. 59-65.
[2] D’Annunzio, Laus Vitae, vv. 46-52.   La Sirena del Mondo
[3] Tacito, Annales, XIII, 45, volgeva la libidine là dove si mostrava l’utile.

mercoledì 26 febbraio 2014

Antologia dal mio Twitter 26 febbraio 2014



La politica deve essere umanistica. L’umanesimo è amore per l’umanità.

Ieri Vittorio Feltri ha detto in televisione (La 7) che “Meredith non era sessualmente irraggiungibile”. Dire male dei morti non costa niente.
Feltri mi fa orrore.

Enea ha causato la morte di Didone e, tuttavia, “famam pietatis habet” (Ovidio, Ars  III, 39), è famoso per la pietas. I due fucilieri degli Indiani hanno fama di eroi. Malfamate e famigerate sono sempre le vittime.

Un avvertimento a Renzi: nella tragedia greca (p. e. Edipo), e pure nella storia (p. e. Dario III di Persia), il re si capovolge spesso nel farmakov~, la medicina umana, cioè il capro espiatorio. Dipende.

Da cosa dipende? “Pueri ludentes ‘rex eris’, aiunt, ‘si recte facies”[1], i ragazzi, giocando, dicono: “ sarai re, se farai bene”. Io che sono adulto, lo dico sul serio.
 Il capo (rex, rego, rectus) deve dirigere sulla retta via.

Nell’età dell’oro “officium erat imperare, non regnum” (Seneca. Ep. 90, 5) governare era un servizio, non un potere assoluto.

Antigono Gonata, re di Macedonia, istruito da un discepolo di Zenone stoico, diceva che regnare  deve essere  e[ndoxo~ douleiva[2], un onorevole servizio,

Platone nel dialogo Politico fa dire allo straniero di Elea che compito di chi governa gli uomini è l’ejpimevleia, il prendersi cura dei governati.

I classici costituiscono un antidoto alla delinquenza, alla volgarità, alla  moda neo fascista del “me ne frego”

giovanni ghiselli


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[1] Orazio, Epistulae  I, 1, 59-60.
[2] Eliano, Var. hist. II, 20.

lunedì 24 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Tredicesimo capitolo. Seconda parte


Dante Gabriel Rossetti, Venus Verticordia
L'ultima prova. Lo sguardo oblativo. Non è peccato che una donna siffatta si faccia vedere seminuda.

Venerdì sera gli allievi della scuola dovevano fare l’ultima prova dell’esame. Sabato 30 dovevano recitare davanti alla commissione giudicatrice. Ma anche la recita del 29 era pubblica: intendevo andarci, se Ifigenia mi avesse invitato.
Dopo la scuola, la incontrai in via Montegrappa quasi per caso: voglio dire che non sembrava esserci venuta appositamente per vedermi, sebbene la strada fosse molto vicina al nostro liceo. Era nervosa assai e di poche parole. Disse che dovevo stare in casa dalle cinque, poiché avrebbe potuto telefonarmi. In ogni caso alle nove e mezzo cominciava la recita di prova. Non capii se dovevo andarci comunque, o se lei, eventualmente, mi avrebbe chiamato. Fatto sta che non arrivò alcuna telefonata, ed io ne ebbi l'angoscia.
Alle nove ero incerto se andare a vederla. Telefonai a casa sua. Il fratello era già uscito, diretto al teatro; la madre aggiunse che Ifigenia sicuramente si aspettava che ci andassi anche io. Il giorno dopo, pure loro ci sarebbero stati.

Arrivai che avevano iniziato da poco. Nella bottega del Mago, Marianne indossava un abito nero; sul Danubio, un costume da bagno a righe, lungo fino a metà coscia; durante la pantomima tragica e lasciva dello Zeppelin, una calzamaglia; nell'ultimo atto, di nuovo l'abito nero. All'inizio Ifigenia recitava la parte della ragaazza in  conflitto con il padre autoritario e cretino, poco convinta del fidanzato noioso, nauseata dall'ambiente dei bottegai e dei loro clienti. Poi c'è la scena della seduzione sul Danubio morbido come il velluto.
Ifigenia guardava Felice, il corteggiatore bellimbusto, con intensità. Sembrava osservarlo con un'oblazione del cuore e di tutte le membra. Quello sguardo mi fece paura. Era pieno di sesso. Fissava il suo partner con la forza del desiderio che, sommata alla sua rara avvenenza e all'indumento scelto per mettere in pieno rilievo le forme  del bellissimo  corpo dedalico, diventava una grande potenza con la quale avrebbe potuto portarsi a letto qualsiasi uomo le fosse piaciuto. Questo pensavo tremando. Poi Ifigenia doveva mimare lo Zeppelin con la calzamaglia trasparente. Le si vedeva benissimo il petto. Sebbene una sua compagna di scena, più pudicamente, avesse tenuto il reggiseno, l'esibizione della mia donna non mi diede fastidio o dolore. Era giustificata professionalmente ed esteticamente.
Il suo splendore corporeo era al culmine: Non faceva peccato lei a lasciarsi ammirare lì sulla scena. Offriva alla luce e al ricordo degli uomini un bene raro, seppure effimero più di una scoscesa vita mortale: l'ultima volta che l'ho vista nuda, solo due anni più tardi, la sua carne non era più tanto compatta quanto la sera in cui si esibì in quella prova, o quanto il pomeriggio remoto nel quale, entrata per la prima volta in camera mia, si tolse i vestiti sorridendo felice, e sembrò il sole stesso che esce da nuvole e brume in una mattina di primavera. Adesso sei morta, creatura, ma qui dentro tu vivrai eternamente radiosa come sei stata nella tua vita mortale  per un tempo pur- troppo breve e già molto lontano.
Raggiungesti il culmine nel giugno remoto del 1979 quando mi regalasti All'ombra delle fanciulle in fiore , con questa dedica:

"Io sono Albertine e tu Marcel Proust, perché lei è una ragazzina e lui un uomo adulto, ma il nostro amore non è come il loro, angosciato, ma più libero, meno inquieto, veramente sentito, sincero e profondo; per questo io alla fine non morirò e nemmeno tu perché noi diversi non ci lasceremo uccidere.
Ifigenia (la fanciulla in fiore)."


Non è andata proprio così.

giovanni ghiselli

domenica 23 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Tredicesimo capitolo. Prima parte



Trascrizione ufficiale del "Piano" della loggia P2,
pubblicata dalla relativa commissione
parlamentare d'inchiesta
  
Gli sbalzi di Ifigenia e i miei. Il suo silenzio. I consolatóri: Pindaro, Virgilio e Catullo. Lo scandalo della P2. Il presidente Pertini. La telefonata dell'una di notte. Il sospetto. 

Mercoledì ventisette maggio, pieno di innamorato dolore, volevo capire il mio sentimento  misto: non integralmente cattivo né tutto buono, uno stato emotivo contraddittorio che Ifigenia mi infondeva nel petto da parecchi mesi oramai: io la amavo e la apprezzavo, ma la detestavo anche, e la consideravo spregevole.

Sul monte delle formiche, tre giorni prima, era stata bravissima: aveva sì vacillato faticando a dismisura; anzi, quando mancava un chilometro solo, il più duro, era stata vicina a cedere stramazzando al suolo come una grossa folaga colpita a morte; ma poi, incitata da me, aveva raccolto tutte le forze, aveva stretto i denti, conservato l'equilibrio, spinto i pedali con le belle gambe sode, tirato il manubrio con le forti braccia rotonde, e ci era riuscita.
L'avevo ammirata per la prova di forza e di volontà. Mi era sembrata una persona in gamba, cosciente di quanto voleva, e capace di conseguirlo, soprattutto se incoraggiata. Poteva essere una metafora della vita umana, della nostra in particolare.
Nei due giorni seguenti, Ifigenia alternò un'allegria forzata e rumorosa con una muta e cupa stanchezza. In certi momenti mi si appoggiava addosso con tutto il peso del corpo statuario e della piccola testa; a volte appariva estranea, quasi ostile alla mia persona, più sbigottita però che malevola. Seguivo i suoi sbalzi mentali con pena, ma non disperavo di arrivare a capire le cause più vere di tanto squilibrio che mi contagiava. Comunque volevo comprendere per quale ragione non funzionasse più l'amore con quella ragazza che pure aspirava all'arte, e aborriva la vita ostile alle Muse della gente borghese. Questo almeno era quanto affermava lei stessa, con la sua bocca. Era bugiarda?
Gli ultimi giorni di maggio Ifigenia temeva l'esame di recitazione, ed era sempre più squilibrata. Io ne soffrivo senza potere aiutarla. Infatti, come ebbe avuto il commento scritto al dramma di Horváth
e lo ebbe approvato con salamelecchi infiniti, per due dì e due notti non si fece vedere né sentire, onde impiegare tutto il tempo, le emozioni e le forze nella preparazione della prova d'esame,
suppongo.
Io rileggendo i poeti greci e latini, annotavo alcuni versi belli assai e confacenti al mio stato d'animo. Li trascrivo, sperando di indurti, lettore, a studiarne con amore i volumi .

Ottima è l'acqua[1].
E bruciarono nella solitudine[2] .
Mi manca l'occhio dell'esercito[3].
I fiumi della notte tenebrosa eruttano un'oscurità infinita[4].
Nessuna delle fatiche mi si presenta nuova o inattesa: io ho
presofferto tutto[5].
Non sapere in anticipo, è assenza di pensiero[6] .

Il pomeriggio di giovedì 28 maggio Ifigenia mi telefonò e mi diede l'angoscia. Mi fece capire che con me si annoiava, mentre si sentiva viva e reale quando preparava l'esame di recitazione che
pure la terrorizzava. Intanto si emozionava nel lavoro preparatorio che la teneva in contatto con il regista, con i compagni e con il testo; poi, sabato sera, si sarebbe eccitata nel rapporto con il pubblico cui oltretutto avrebbe fatto vedere il corpo inguainato in una calzamaglia molto aderente e diafana. Nel locale notturno, il Maxim, su un palcoscenico di cabaret, Marianne doveva apparire
per diversi minuti vestita soltanto delle mutandine e di una guaina color carne, attillatissima e trasparente. Il regista, quello panciuto, forse per valorizzare o sfruttare la bellezza della ragazza, aveva enfatizzato e prolungato la scena, facendo mimare uno Zeppelin dai movimenti più o meno aerei delle belle membra di lei. Questo non mi faceva piacere, ma non era un elemento che scatenava ire o tristezze. La sera comunque ero depresso: la notte prima non avevo dormito per il tormento del raffreddore da fieno, e quel giorno avevo dubitato delle mie capacità di scrivere quel
capolavoro che da diversi mesi oramai mi premeva molto più della pudicizia e dell'amore stesso della mia compagna sviata. Mi veniva in mente Catullo: un consolatore per gli amori non contraccambiati e dolenti. Alcune sue parole, se ne sostituivo una soltanto, si confacevano bene alla mia pena amorosa: “Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa, / aut ( quod non potis est)
esse pudica velit; ipse scribere  opto et taetrum hunc deponere morbum. / O di, reddite mi hoc pro pietate mea"[7].
Questo poeta piaceva molto anche ai ragazzi: per il fatto che scriveva di amore e non voleva sapere se Cesare fosse bianco o nero[8] . I giovani infatti
erano diventati impolitici.
I telegiornali del regime parlarono a lungo dello scandalo della P2. Sperai che la questione etica diventasse attuale e urgente per molte coscienze. Ero triste. Pertini invece scherzava con i giornalisti. L'arzillo vecchietto diceva: "Bisogna prendere le cose con animo lieto, altrimenti è finita".
"Infatti da non pochi anni – pensai - affaristi, assassini e mafiosi si sganasciano dalle risate".
All'una di notte telefonò un'altra volta Ifigenia. Disse solo: "Sono io. Vieni a prendermi davanti all'Antoniano". Stavo studiando Menandro per lei. Ci andai rapida mente. Mi aspettava, sola,
sulla soglia dell'edificio che contiene la scuola, una chiesa, un cinema, e chissà quali altri locali. Era scura in volto, quasi adirata. La salutai, la feci entrare nell'automobile, le domandai come fossero andate le prove.
"Male – rispose - Questa sera al regista non sono piaciuta".
"Come mai?" le chiesi, ostentando stupore. A lei infatti dicevo che la credevo brava, e forse ne ero convinto.
"Non voglio parlarne; non questa sera. E' tardi. Portami a casa subito".
Arrivata, mi salutò appena. La odiavo. Pensavo: "Stai attento, perché quella ha preso tanto potere su te da usarti e trattarti come il suo autista. Ma non un servo amico di cui si fida; tu sei il lacché tenuto a distanza e spregiato, quello cui la padrona non si degna di rivolgere lo sguardo altero  né la parola superba".
Ebbi anche il sospetto che mi avesse tradito: le altre volte che, dopo le prove, si era fatta accompagnare a casa, mi aveva chiamato intorno alle undici e mezzo: strano tale spostamento
dell'orario, e ancora più strano il fatto che, avendo tutta la compagnia terminato le prove all'una, lei si trovasse già sola davanti al portone all'una e cinque minuti. Il malumore e il non guardarmi in faccia mentre le facevo un piacere, poteva essere segno di un incontro erotico, probabilmente malriuscito, con il regista o con un attore. Forse quello che faceva la parte di Alfred: si chiamava Felice, e Ifigenia doveva baciarlo, per esigenza di copione, nella scena sul bel Danubio, al suono del valzer Voci di primavera.
"Il Danubio è morbido come un velluto".
"Come un velluto".
“Pensa male ché non ti sbagli” mi venne in mente[9].

Giovanni Ghiselli
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Ad maiora!


[1] Cfr. Pindaro, Olimpica I , v. 1.
[2] Cfr. Pindaro, Nemea X , v. 72.
[3] Cfr. Pindaro, Olimpica VI, v. 18.
[4] Dovrebbe essere la traduzione di un frammento di Pindaro, ma non ne sono sicuro.
[5] Cfr. Eneide, VI, vv. 103-105
[6] Cfr. Pindaro, Olimpica VIII , 60.
[7] Cfr. Catullo, Carmi,  76, 23-27. Non chiedo più quello, che ella contraccambi il mio amore, o, (cosa che non può essere) che voglia essermi fedele; io desidero scrivere (ma nel testo catulliano c'è valere, stare bene) e mettere via questo male oscuro. O dei, datemi questo in cambio della mia devozione.
[8] Cfr. Catullo, Carmi,  93.
[9] Probabilmente  dal Mestiere di vivere di Pavese

errata corrige

Me lo facciano sapere.