domenica 23 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Tredicesimo capitolo. Prima parte



Trascrizione ufficiale del "Piano" della loggia P2,
pubblicata dalla relativa commissione
parlamentare d'inchiesta
  
Gli sbalzi di Ifigenia e i miei. Il suo silenzio. I consolatóri: Pindaro, Virgilio e Catullo. Lo scandalo della P2. Il presidente Pertini. La telefonata dell'una di notte. Il sospetto. 

Mercoledì ventisette maggio, pieno di innamorato dolore, volevo capire il mio sentimento  misto: non integralmente cattivo né tutto buono, uno stato emotivo contraddittorio che Ifigenia mi infondeva nel petto da parecchi mesi oramai: io la amavo e la apprezzavo, ma la detestavo anche, e la consideravo spregevole.

Sul monte delle formiche, tre giorni prima, era stata bravissima: aveva sì vacillato faticando a dismisura; anzi, quando mancava un chilometro solo, il più duro, era stata vicina a cedere stramazzando al suolo come una grossa folaga colpita a morte; ma poi, incitata da me, aveva raccolto tutte le forze, aveva stretto i denti, conservato l'equilibrio, spinto i pedali con le belle gambe sode, tirato il manubrio con le forti braccia rotonde, e ci era riuscita.
L'avevo ammirata per la prova di forza e di volontà. Mi era sembrata una persona in gamba, cosciente di quanto voleva, e capace di conseguirlo, soprattutto se incoraggiata. Poteva essere una metafora della vita umana, della nostra in particolare.
Nei due giorni seguenti, Ifigenia alternò un'allegria forzata e rumorosa con una muta e cupa stanchezza. In certi momenti mi si appoggiava addosso con tutto il peso del corpo statuario e della piccola testa; a volte appariva estranea, quasi ostile alla mia persona, più sbigottita però che malevola. Seguivo i suoi sbalzi mentali con pena, ma non disperavo di arrivare a capire le cause più vere di tanto squilibrio che mi contagiava. Comunque volevo comprendere per quale ragione non funzionasse più l'amore con quella ragazza che pure aspirava all'arte, e aborriva la vita ostile alle Muse della gente borghese. Questo almeno era quanto affermava lei stessa, con la sua bocca. Era bugiarda?
Gli ultimi giorni di maggio Ifigenia temeva l'esame di recitazione, ed era sempre più squilibrata. Io ne soffrivo senza potere aiutarla. Infatti, come ebbe avuto il commento scritto al dramma di Horváth
e lo ebbe approvato con salamelecchi infiniti, per due dì e due notti non si fece vedere né sentire, onde impiegare tutto il tempo, le emozioni e le forze nella preparazione della prova d'esame,
suppongo.
Io rileggendo i poeti greci e latini, annotavo alcuni versi belli assai e confacenti al mio stato d'animo. Li trascrivo, sperando di indurti, lettore, a studiarne con amore i volumi .

Ottima è l'acqua[1].
E bruciarono nella solitudine[2] .
Mi manca l'occhio dell'esercito[3].
I fiumi della notte tenebrosa eruttano un'oscurità infinita[4].
Nessuna delle fatiche mi si presenta nuova o inattesa: io ho
presofferto tutto[5].
Non sapere in anticipo, è assenza di pensiero[6] .

Il pomeriggio di giovedì 28 maggio Ifigenia mi telefonò e mi diede l'angoscia. Mi fece capire che con me si annoiava, mentre si sentiva viva e reale quando preparava l'esame di recitazione che
pure la terrorizzava. Intanto si emozionava nel lavoro preparatorio che la teneva in contatto con il regista, con i compagni e con il testo; poi, sabato sera, si sarebbe eccitata nel rapporto con il pubblico cui oltretutto avrebbe fatto vedere il corpo inguainato in una calzamaglia molto aderente e diafana. Nel locale notturno, il Maxim, su un palcoscenico di cabaret, Marianne doveva apparire
per diversi minuti vestita soltanto delle mutandine e di una guaina color carne, attillatissima e trasparente. Il regista, quello panciuto, forse per valorizzare o sfruttare la bellezza della ragazza, aveva enfatizzato e prolungato la scena, facendo mimare uno Zeppelin dai movimenti più o meno aerei delle belle membra di lei. Questo non mi faceva piacere, ma non era un elemento che scatenava ire o tristezze. La sera comunque ero depresso: la notte prima non avevo dormito per il tormento del raffreddore da fieno, e quel giorno avevo dubitato delle mie capacità di scrivere quel
capolavoro che da diversi mesi oramai mi premeva molto più della pudicizia e dell'amore stesso della mia compagna sviata. Mi veniva in mente Catullo: un consolatore per gli amori non contraccambiati e dolenti. Alcune sue parole, se ne sostituivo una soltanto, si confacevano bene alla mia pena amorosa: “Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa, / aut ( quod non potis est)
esse pudica velit; ipse scribere  opto et taetrum hunc deponere morbum. / O di, reddite mi hoc pro pietate mea"[7].
Questo poeta piaceva molto anche ai ragazzi: per il fatto che scriveva di amore e non voleva sapere se Cesare fosse bianco o nero[8] . I giovani infatti
erano diventati impolitici.
I telegiornali del regime parlarono a lungo dello scandalo della P2. Sperai che la questione etica diventasse attuale e urgente per molte coscienze. Ero triste. Pertini invece scherzava con i giornalisti. L'arzillo vecchietto diceva: "Bisogna prendere le cose con animo lieto, altrimenti è finita".
"Infatti da non pochi anni – pensai - affaristi, assassini e mafiosi si sganasciano dalle risate".
All'una di notte telefonò un'altra volta Ifigenia. Disse solo: "Sono io. Vieni a prendermi davanti all'Antoniano". Stavo studiando Menandro per lei. Ci andai rapida mente. Mi aspettava, sola,
sulla soglia dell'edificio che contiene la scuola, una chiesa, un cinema, e chissà quali altri locali. Era scura in volto, quasi adirata. La salutai, la feci entrare nell'automobile, le domandai come fossero andate le prove.
"Male – rispose - Questa sera al regista non sono piaciuta".
"Come mai?" le chiesi, ostentando stupore. A lei infatti dicevo che la credevo brava, e forse ne ero convinto.
"Non voglio parlarne; non questa sera. E' tardi. Portami a casa subito".
Arrivata, mi salutò appena. La odiavo. Pensavo: "Stai attento, perché quella ha preso tanto potere su te da usarti e trattarti come il suo autista. Ma non un servo amico di cui si fida; tu sei il lacché tenuto a distanza e spregiato, quello cui la padrona non si degna di rivolgere lo sguardo altero  né la parola superba".
Ebbi anche il sospetto che mi avesse tradito: le altre volte che, dopo le prove, si era fatta accompagnare a casa, mi aveva chiamato intorno alle undici e mezzo: strano tale spostamento
dell'orario, e ancora più strano il fatto che, avendo tutta la compagnia terminato le prove all'una, lei si trovasse già sola davanti al portone all'una e cinque minuti. Il malumore e il non guardarmi in faccia mentre le facevo un piacere, poteva essere segno di un incontro erotico, probabilmente malriuscito, con il regista o con un attore. Forse quello che faceva la parte di Alfred: si chiamava Felice, e Ifigenia doveva baciarlo, per esigenza di copione, nella scena sul bel Danubio, al suono del valzer Voci di primavera.
"Il Danubio è morbido come un velluto".
"Come un velluto".
“Pensa male ché non ti sbagli” mi venne in mente[9].

Giovanni Ghiselli
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[1] Cfr. Pindaro, Olimpica I , v. 1.
[2] Cfr. Pindaro, Nemea X , v. 72.
[3] Cfr. Pindaro, Olimpica VI, v. 18.
[4] Dovrebbe essere la traduzione di un frammento di Pindaro, ma non ne sono sicuro.
[5] Cfr. Eneide, VI, vv. 103-105
[6] Cfr. Pindaro, Olimpica VIII , 60.
[7] Cfr. Catullo, Carmi,  76, 23-27. Non chiedo più quello, che ella contraccambi il mio amore, o, (cosa che non può essere) che voglia essermi fedele; io desidero scrivere (ma nel testo catulliano c'è valere, stare bene) e mettere via questo male oscuro. O dei, datemi questo in cambio della mia devozione.
[8] Cfr. Catullo, Carmi,  93.
[9] Probabilmente  dal Mestiere di vivere di Pavese

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