domenica 28 febbraio 2021

La cultura europea

 La cultura europea, la mia, è basata sui Greci e su noi Italici che con  il latino abbiamo tasmesso i maestri greci a tutta l’Europa. Io, di famiglia mista di marchigiani,  toscani,  romagnoli, mi sento fortissimamente italiano, completamente italiano. Credo che noi abbiamo talenti grandi e forti. Abbiamo governi mediocri, siccome chi ha talento lo manifesta creando e non andando al governo. Ma i governanti migliori hanno commissionato la bellezza agli artisti. Ora purtroppo è la volgarità del capitalisnmo e della pubblicità che prevale.

Tuttavia gli artisti, quorum ego, continuano,  continuiamo a creare cultura e bellezza.

Mando baci pieni gratitudine a tutte le femmine umane (belline, belline!) che mi hanno aiutato a diventare  come sono. Anche alcuni maschi mi hanno dato una mano a dirla tutta.  Ma  le femmine umane prevalgono.

Baci

gianni

 

Odisseo-Ulisse è un personaggio variopinto, cioè rappresentato in maniera varia nei secoli

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Ingannevole è la sua riduzione a un solo individuo.
 
Si scrive tanto di Odisseo e l’ho fatto anche io: nel mio blog il pezzo Aspetti dell’uomo Ulisse ha avuto 32393 visite. Ebbene gli aspetti di quest’uomo sono tanti perché Odisseo-Ulisse  ha caratteristice diverse nei diversi testi che parlano di lui
Già l’Odisseo dell’Iliade non è  lo stesso uomo  protagonista eponimo dell’Odissea.
Poi le differenze ovviammente si accentuano con il cambiare degli autori.
Pindaro nell’ Istmica IV   denuncia l’oscurità del destino (v. 31), che fece cadere Aiace, puvrgo~[1] la torre, con gli artifici di chi valeva meno di lui, ma Omero gli ha reso onore tra gli uomini (all j   { Omhrov~ toi tetivmaken di j ajnqrwvpwn (v. 37).
Nella Nemea VIII il poeta tebano ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo. 
Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei”[2] 
 
L’Odisseo di Sofocle ha fasi alterne nell’Aiace , mentre  è pessimo nel Filottete.
L’Odisseo di Euripide è un farabutto nell’Ecuba  nelle Troiane e nell’Ifigenia in Aulide.
Nel dramma satiresco Ciclope, di Euripide, quando Odisseo entra in scena definendosi Itacese, signore dei Cefalleni, Sileno replica: “oi\d j a[ndra, krovtalon drimuv, Sisuvfou gevno~” (vv. 103-104), conosco quel tipo, un sonaglio petulante, razza di Sisifo[3].
 
Platone ricorda Odisseo  nel mito di Er della Repubblica
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica  620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

L’Ulixes di Virgilio è un uomo  saevus , un hortator scelerum odiatissimo dai Troiani. Nelle Metamorfosi di Ovidio causò il suicidio di Aiace sottraendogli le armi di Achille. Allora invictum virum vicit dolor (XIII, 386). Aiace quindi si uccise e dalla terra arrossata nacque un fiore vermiglio come da Giacinto.

Nelle Troiane di Seneca Ulisse viene apostrofato dalla vedova di Ettore con queste parolr:"O machinator fraudis et scelerum artifex,/virtute cuius bellicā nemo occĭdit,/dolis et astu maleficae mentis iacent/etiam Pelasgi, vatem et insontes deos praetendis? Hoc est pectoris facinus tui " (vv. 750-754) o tessitore di frodi e artefice di inganni, per il cui valore in battaglia nessuno è morto, mentre per i tuoi inganni e l'astuzia della mente malefica giacciono morti anche i Pelasgi, ora metti avanti l'indovino e gli dèi incolpevoli? Questo è un delitto dell'animo tuo.
 
L’Ulisse di Dante è  inquietamente bramoso di conoscere come quello dell’Odissea.  
Inquieto è anche l’Ulysses di Alfred Tennyson (1809-1892): non  vuole rimanere come re neghittoso (an idle king) con un’antica consorte a pesare leggi ineguali a gente che ammucchia, che dome, che mangia, che non mi conosce. “I am a part of all that I have met” (v. 18), io sono una parte di tutto quello che ho incontrato. 
 
Gozzano ne fa una caricatura parodiando Dante:
“Il re di Tempeste[4] era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole esempio/d’infedeltà maritale,/che visse a bordo d’un yacht/toccando tra liete brigate/le spiagge più frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le vele/al tetto un giorno lasciato,/fu accolto e fu perdonato/dalla consorte fedele…/Poteva trascorrere i suoi/ultimi giorni sereni,/contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma né dolcezza di figlio,/né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito amore/per la sua dolce metà/gli spensero dentro l’ardore/della speranza chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in America…/Non si può vivere senza/danari, molti danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra semenza!” (L’ipotesi, vv. 11-138). 
l'Ulisse  di Joyce, è un uomo che ha molto sofferto anche se di formato non eroico: dopo un lungo girovagare per Dublino torna a casa[5] dalla moglie, sebbene adultera, da quella Molly che E. Pound interpreta come "Gea Tellus, simbolo della Terra... il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltare via, e nel quale  ricade in saecula saeculorum".
 
Questa breve, sommaria rassegna mostra quanto sia ingannevole parlare di Ulisse come un personaggio unico e identificarlo con l’uomo che vuole andare su Marte. Che cosa ci andrebbe a fare? Non incontrerebbe creature viventi e parlanti da cui potere imparare e da poter raggirare.

 
 giovanni ghiselli

  

[1] Cfr. Odissea, XI, 556.
[2] Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 221-225. 
[3] Secondo una leggenda  Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe avuto una tresca con Sisifo, famoso per i suoi inganni,  e da questa relazione sarebbe nato Odisseo.
[4] E’ una citazione parodica di D’Annunzio : « Odimi » io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re di tempeste !” (Maia, IV)
[5] Cfr. il XVII episodio: “Itaca” la casa

Debrecen. Dopo Päivi. Capitolo IV. Nefertiti

anni 70 a Bologna
Il “disdegnoso gusto” dell’angoscia

 

Di questa donna mediterranea mi è rimasta impressa nell’anima una sola frase memorabile. Quel tardo pomeriggio dell’agosto del 1976 rientrai nella csárda con il volto più annuvolato del cielo che già iniziava a versare gocce sulla polvere nera, su oche, turisti, butteri e cavalli volti in fuga dalla pioggia e dalle minacce del cielo che venivano intensificandosi con tanto di lampi e di tuoni, mentre le mucche dagli umidi musi brucanti, i buoi dalle corna ritorte, gli smisurati maiali e i porcellotti tondi, edaci come i bambini obesi traviati da genitori grassi e dementi, continuavano a frugare il terreno in cerca di cibo.

Appena ebbi ripreso il mio posto accanto a lei, Nefertiti mi disse: “Tu, meschino, ti crogioli nell’angoscia con gusto perverso”

Risposi che il prossimo dotato di mente e di stile non mi ha mai indotto al disdegnoso gusto che certuni mi ispirano. Pensavo alle tre finniche dei primi anni Settanta che erano sì speciali, di una specialità , del resto, non del tutto rara in quegli anni. Li ricordo come l’età dell’oro di questa mia vita mortale. Sembra incredibile ora, ma allora erano, per così dire, anche di moda, almeno tra le persone educate e attente, la cortesia, l’aiuto reciproco, persino la benevolenza. Passò rapida, quell’età.

La fine per me fu segnata dall’epilogo tragico, non senza catastrofe, della storia di Päivi. Anche tu come Helena, come Kaisa, passasti.

Eravamo nell’autunno del 1974, se lo ricordi, lettore.

Per me quella dei primi anni Settanta non è stata una moda: ancora oggi gradisco solo i rapporti che conservano quell’impronta nobile e antica.

Gli altri non li sopporto più, sicché non cado più nell’angoscia che mi ha causato a lungo  la frequentazione di persone egoiste, arroganti, spietate o le radunanze obbligate con gli imbecilli.

 

Bologna 28 febbraio 2021 ore 18, 50

giovanni ghiselli

 

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Il potere della Fortuna sui giovani è aumentato rispetto all’analisi di Machiavelli

Nella prima pagina  del quotidiano “Il  Sole 24 ORE”  di oggi,  28 febbraio 2021, leggo questo titolo : “Scuola, solo il 12% di figli laureati se i genitori sono poco istruiti”.

In alcune tragedie di Euripide la fortuna  non è costantemente maligna, bensì capricciosa e mutevole. Faccio un solo esempio: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre, esclama:"O Fortuna che cambi mille volte le sorti dei mortali: li getti nella sventura, poi doni loro il successo"(Euripide, Ione, vv. 1512-1513)
Alla fortuna Machiavelli dovrà riconoscere potere su metà dell'agire umano: " Dico poter essere vero che  la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi  (…) dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle" (Il principe XXV).
 
Essa ha fornito ai grandi della storia dotati di virtù l'occasione per manifestarla:"Bisognava che Ciro trovassi e' Persi malcontenti dello imperio de' Medi, e li Medi molli et effemminati per la lunga pace. Non posseva Teseo dimonstrare la sua virtù, se non trovava li Ateniensi dispersi" ( Il principe VI).
“L’idea di libertà è la forma trascendentale del nostro agire, l’indimostrabile presupposto su cui esso si regge e assume senso e valore. Anche la virtus machiavellica si reggerà su questo fondamento teoretico, altrimenti si dovrebbe sostenere che la Fortuna soltanto tiene l’uomo “sotto el giogo suo” (Lettera al Soderini)[1].
 
Del resto Cesare Borgia nel quale pure c'erano "tanta ferocia e tanta virtù" non poté reggere al rovescio, per cui, al momento della morte del padre Alessandro, era anche lui "malato a morte", sicché non riuscì a evitare la "mala elezione" del  cardinale Giuliano della Rovere suo nemico il quale divenne "Iulio pontefice".  "Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell'ultima ruina sua" ( Il principe VII). La Fortuna lo aveva abbandonato.
 
Comunque non si deve “vivere da schiavo questa vicissitudo, né rimanere in preda alle tempeste della Fortuna, “invece stare desti, “mai partirsi dal Timone” (Alberti[2]), volgere la cura che ci assilla verso un’opera che sembri poter restare , è scelta che il Fato stesso assegna a ciascuno, cui nessuno può sottrarsi  Questa libertà è l’altra faccia del Necessario. Nessuno nell’umanesimo riconosce più di Alberti e Machiavelli la potenza della Fortuna. Senza Fortuna propizia neppure l’impero romano si sarebbe costituito e avrebbe potuto così a lungo durare. Proprio quello Stato che si tempra nella più dura disciplina innalza meravigliosi templi alla Fortuna” [3].
 
Ora dal titolo citato in apertura si vede come sia stata ridotta  la funzione di ascensore sociale della scuola, cioè la percentuale della virtù rispetto a quello della fortuna, ossia, detto con altre parole forse più chiare, le capacità del giovane contano sempre meno rispetto al potere della famiglia dove la fortuna lo balestra per nascita o  adozione o cooptazione.
Questa semiparalisi va curata come altre malattie che stanno devastando la nostra nazione. “Qui habet aures audiendi audiat” [4]
 
giovanni ghiselli
.
 
 
 


[1] M. Cacciari, La mente inquieta Saggio sull’Umanesimo, p.51
[2] I libri della famiglia, in Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari 1960-73vol I, p.
[3] M. Cacciari, La mente inquieta Saggio sull’Umanesimo, p.59

[4] N. T. Marco, 4, 9

Debrecen. Dopo Päivi. Capitolo III. Nefertiti. Il dialogo con Fulvio

Fulvio era uscito dalla csárda con me per darmi conforto. Dal 1966 era il mio amico migliore e il mio demone buono. Quel pomeriggio ne avevo bisogno. Provavo dolore dopo il litigio assurdo con la mia amante. Soffrivo poprio per l’insensatezza dello scontro, tanto che non ne ricordo causa né contenuto. Probabilmente un conflitto per il potere, potere su nulla del resto. “Non c’è cosa più amara del vuoto e della stupidità. Non ne posso più di quella cretina”, dissi.

L’amico rispose: “Gianni, devi rassegnarti all’imperfezione dell’amante. Sei troppo reattivo. Una donna come la cerchi tu non esiste su questa terra.

Dopo quattro anni di matrimonio con una non spregevole, laboriosa, fedele, io sono tornato a Debrecen senza peso preponderante di sposa. Questo è il decennale della nostra amicizia. Dovresti esultare pensando a come eri quando ti conobbi. Sei rifiorito in maniera miracolosa. Sei riuscito a dominare i mostri della notte che avevi dentro, a inserirli nel culto degli dèi. I nostri dèi che non sono falsi e bugiardi. Il mio Dioniso e il tuo Apollo. Non senza Afrodite,  Eros e il loro assistente Priapo. Dèi grandi.

 Tu, coerentemente,  fai collezione di amanti. Nefertiti è attraente. Pensa alla fame sessuale e affettiva del  ’66. Ricordo che ti lamentavi in continuazione e dovetti minacciarti di bastonate, addirittura agitando un randello sopra la tua testa”.

“E facesti bene, amico carissimo: mi hai salvato”.

“Lo so. Ma ora non ricadere nel dolore insensato. Questa tua di adesso è una ragazza gradevole, del tutto gratuita: non ti chiede nessun impegno.

 Che ti importa se capisce poco o niente? Difficilmente una donna, come un uomo del resto, può confrontarsi alla pari con una persona della nostra levatura mentale. Per giunta Nefertiti ha dieci anni meno di te”.

“Tu non le hai conosciute, perché nel ’71 partisti anzi tempo, poi non sei più venuto, ma io qui ho vissuto tre mesi di piena gioia con tre donne non meno intelligenti di me.”

Rarissimae aves”, fece l’amico. Sempre che tu non abbia applicato a quelle tre un’immagine visionaria partorita dalla tua stessa estasi.

Allora pensai: “Fulvio è ottimo ma non capisce le donne”.

Invece risposi: “veramente il parto riguardava  la prima e la terza”.

Poi, pentito per la battuta sgradevole e lacrimando per la polvere entrata negli occhi, seguitai: “Hai ragione, Fulvio, smetto di lamentarmi: mi è andata bene così. Mi vergogno e mi pento di essere ingrato a quelle donne benedette che mi hanno aiutato, e a te che ci sei ancora.

Però dopo la sparizione della terza finlandese io vivo senza l’amore e impiegherò il resto della mia vita mortale nel cercarlo. Lo studio e lo sport sono mezzi: il fine, la borsa di studio, è la donna bella, fine, intelligente, colta che mi merito. Ne trovai tre e credo che ce ne saranno altre.

“Nemmeno il dieci per cento dunque, contando tutte quelle che hai conosciuto fino a questo momento. La caccia alla donna ideale è aleatoria. Comunque te la auguro con tutto il cuore. Ma per mia esperienza, invero ne ho meno di te che cerchi compulsivamente l’amore, la tua donna ideale è davvero ideale. Forse la troverai nella Pianura iperurania della Verità[1] quando ci risalirai, il più tardi possibile. Ma qui, su questa piana terrestre accontentati: Nefertiti è belloccia, ha un’educazione accademica, è ben vestita, è pulita. Non è poco”
“Per me non è abbastanza. Quest’anno nell’Università estiva e internazionale ho cercato l’amante italiana per parlare meglio e di più, ma sai quanto erano migliori le finniche! Potevamo  ragionare di Eschilo o di Hegel, di Marx o di Freud , non senza fatica ma comprendendo e facendo comprendere tutto, seppure in inglese.  Questa non capisce niente: è la piattezza, anche se ha mammelle unbertose: è un piatto di carta con del cibo freddo.

 Il mio nutrimento, Fulvio caro, è lo spirito. Come il tuo. Tu una volta dicesti che bisogna sempre tenere un piede nella passera. Bene: io cerco quella spirituale e non so che farmene dell cutrettola dalla cauda trepida. Noi due per nutrirci la mente leggiamo molto, riflettiamo su tutto, poi per mantenere la salute, anche quella mentale, andiamo a correre a piedi o in bicicletta. Tiro avanti così, ma non sono felice: non mi piace stare sempre solo e mi garba ancora di meno annoiarmi in compagnia. Scusa, ho gli occhi pienni di polvere. Non è che pianga, però davvero non sono felice. Tu, vecchio mio, sei uno dei pochissimi con cui riesco a parlare. Con quasi tutti gli altri devo subire delle chiacchiere e replicare con battute ironiche”.

“Consolati gianni - concluse l’amico - Io sono sposato da anni e non con una cretina, ho una figlia che amo, però quando voglio nutrirmi nello spirito devo isolarmi. Tu le situazioni angoscianti con le donne le cerchi siccome hai molto di femminile dentro di te e  provochi le tue compagne perché facciano uscire le parti peggiori dell’anima loro dove tu possa riconoscere le tue per liberartene . E’ il gnw`qi seautovn, to; Delfiko;n gravmma, la scritta dell’ombelico del mondo che ti spinge a collisioni continue..

“Con le tre finniche non collidevo”

“No, però ti hanno lasciato tutte e tre. Eri troppo impegnativo, scomodo anche per loro”.

“Il fatto è che persone come noi non sono portate per il matrimonio né per la convivenza”

“Io almeno ci ho provato, ci sto provando ancora, pur con grande fatica. Ora sto facendo un intervallo”.

“Io ne ho sempre avuto paura. Anzi il terrore di perdere l’autonomia, cioè la pienezza della mia vita fatta di studio, di sport e di amori o presunti tali, ma ognuno a casa sua”

“ Lo so: tu sei fatto così, e la prova che sto ancora affrontando mi fa capire questa tua guardia alzata, questo tuo allarme.

Però non dimenticare il primo stasimo delle Baccanti

“Breve è la vita: per questo

uno che insegue grandi fantasie

non può conseguire quello che c’è”.

Colsi l’occasione per citare le pime parole in greco, cosa che piaceva tanto a me quanto all’amico. “bracu;" aijwvn”, ed è proprio perché è tanto tremendamente breve la vita che voglio viverla in pieno. Per questo non ho saltato le estati passate chiudendomi in casa con una mogliettina e mangiando ciascuno una mezza mozzarella: qui ho trovato tre volte le Grazie, qui il desiderio, qui mi è stato lecito, come alle baccanti, celebrare l’orgia  sacra benedetta da sacerdoti santi, i nostri amici Danilo, non meno dionisiaco di te, Claudio e Alfredo. Durante la luce e le amabili notti ho passato mesi felici. Cipide aleggiava nell’etere seminando l’amore”

“Capisco-mi fece concludere opportunamente l’amico- Adesso però  torniamo. Sarebbe scortese farle aspettare ancora”.

Gentile, gentiluomo di Parma.

 

giovanni ghiselli

 



[1] Cfr. Platone, Fedro, 248 b: “  jAlhqeiva" pedivon

Debrecen. Dopo Päivi. Capitolo II. Nefertiti e la relazione stonata, priva di ritmo

Amenofi IV
Dieci anni dopo l’approdo alla riva cui mi ero aggrappato in seguito al rovinoso naufragio dei miei atroci ventanni, dunque tornai nella cittadina universitaria dove avevo trovato le amicizie e gli amori che ho raccontato non solo per riviverli e rigioirne, ma anche per mostrare ai giovani del presente come sia possibile vivere senza rinnegare né celare la propria identità, il proprio bisogno di affetti, la propria cultura, e quanto sia meglio impiegarle con forza e metterne in risalto gli aspetti migliori per valorizzarli .

So che adesso le qualità intellettuali e morali che mi hanno salvato sono difficilmente riconosciute e apprezzate: vengono, anzi, spesso ignorate, talora derise come stravaganze, tanto sono rare, o persino colpevolizzate.

Ora è “normale”, cioè usuale, l’indifferenza, l’ignoranza, l’obesità,   ruffianeria, baratteria e simili lordure. Chi è capace di serietà, disciplina, spirito di sacrificio passa per matto.

Del resto già nel 1976 tante parole buone e molte immagini belle apparse e divulgate  tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta erano sparite o erano mutate in peggio. Infatti durante quel mese di vacanza incontrai una ragazza che non aveva lo spirito sul quale il mio potesse gettare un ponte dove creare le intese da dove erano nate in quell’ultima età dell’oro le gioiose fusioni spirituali vissute con le tre finlandesi per un mese ciascuna. Con la donna incontrata alla festa della conoscenza del 1976 invero non mancò la mescolanza dei corpi. Questa però da sola non crea la gioia. Quella sera, dopo poche parole, facemmo l’amore in fretta e furia dentro l’automobile. Iniziava una relazione priva di ritmo.

 

Non lo trovammo mai nei giorni seguenti.

L’ultima amante dell’ Università estiva di Debrecen era italiana e siciliana. Un poco esotica anche questa dunque. Una bruna di ventitrè anni, non volgare e piuttosto carina. La ricorderò come Nefertiti siccome dicevano che assomigliasse alla moglie del faraone eretico adoratore del sole Amenofi IV - Ekhnaton, quasi un correligionario per me.

Questa ragazza pienamente mediterranea, di aspetto piacente, però era mentalmente lontana dai miei gusti. Durante quell’estate lontana dunque imparai che una donna giovane, educata, gradevole non basta a evitarmi la sghignazzata del diavolo e la conseguente tristezza dopo la copula.

Ricordo un tardo pomeriggio di agosto quando oramai avevo capito bene che non stavo vivendo il quarto amore di Debrecen. Camminavo con Fulvio, l’amico che era tornato nella nostra accademia estiva dopo cinque anni di pausa. Cominciava a essere stanco della moglie. “importante è non stancarsi  del sole”, al pari di Macbeth, gli dissi.

 Eravamo sul ponte a nove arcate che a Hortobágy sormonta una palude di canne e zanzare.

Nefertiti era rimasta con un’amica dentro la csárda dove i violini zigani suonavano le danze ungheresi di Brahms accompagnati dai cembali.

Durante le settimane precedenti Nefertiti e io  avevamo litigato assai, siccome ci mancavano argomenti comuni di cui parlare senza noia e senza ira.

Voglio dire che l’unico modo per provare emozioni, forsanche per eccitarci sessualmente, già dopo i primi giorni, era litigare con astio su questioni senza importanza, quisquilie che infatti nemmeno ricordo.

Qualche volte superavamo il limite dell’emozione cattiva eppure, e pure eccitante: quel pomeriggio la sensazione di entrambi era prossima allo schifo e non ci consentiva più di rimanere vicini.

Mentre camminavo con Fulvio sul ponte che attraversava la palude malsana sotto di noi, il cielo sopra di noi  nel tardo pomeriggio  era scuro, afoso, opprimente, e nella puszta davanti a noi si vedeva una folla di turisti avidi di fotografare i cavalli incalzati dalle fruste schioccanti dei butteri, i bovi dalle lunghe corna, i porci neri dalle candide zanne e i tipici pozzi del luogo muniti di antenne come tanti televisori. Da tutte le parti soffiava un vento caldo che sollevava una polvere, o sabbia, di granelli neri, aguzzi e piccanti che si ficcavano dentro i miei poveri occhi dove le lenti a contatto li sfregavano contro la cornea aggravando il mio strazio.

Pregai: “  [Erw"   [Erw" , mhv moi pote su;n kakw`/ faneivh"-mhvd j a[rruqmo" e[lqoi"[1]

 

giovanni ghiselli




[1] Euripide, Ippolito v. 525 e vv. 528-529, Eros Eros (…) non mostrarti mai a me con del male e non venire privo di ritmo.

sabato 27 febbraio 2021

Debrecen. Dopo Päivi. Capitolo I. primo anno di insegnamento nel liceo classico

Lo studio matto e speranzosissimo 

 

Riprendo il racconto dalla fine della storia di Päivi. Torniamo dunque al pianto sulla terrazza del casinetto del tennis. Era la sera del 15 agosto 1975. Il giorno seguente tornai a Pesaro.

In settembre ricevetti l’incarico di greco e latino nel triennio del liceo Rambaldi di Imola diretto da un preside gentiluomo: Davide Ciotti. Dovetti studiare molto per farmi ascoltare con attenzione da quelle ragazze e quei ragazzi che avevano una decina di anni meno di me. Alcuni erano già molto informati e ben preparati da un bravo docente di filosofia, assai reputato da loro. Volevo arrivare a essere stimato almeno quanto quel collega: Gabriele Bonazzi Tendo a nominare le persone probe non meno degli improbi per manifestare stima e gratitudine ai buoni, in loro onore, e menzionare i malvagi perché la loro nequizia giri in infamia per il mondo. Gli innominati sono gli ignavi, gli indifferenti, i noiosi, forse il peggio dell’umanità. Non ci insegnano niente.

Con lo studio matto eppure speranzosissimo degli otto mesi di quell’anno scolastico la mia visione della vita, osservata com’era da un punto di vista più alto, si ampliò, e perfino il significato delle parole cambiò rispetto all’ignoranza  di prima. Soprattutto nel caso di alcuni termini chiave come amore, lavoro, bellezza, giustizia. Vedremo come.

Intanto il lavoro divenne un accrescimento, mio e di chi mi ascoltava, ottenuto attraverso un impegno di preparazione che sacrificava ogni altra attività giornaliera: tornavo a casa, a Bologna da Imola, mangiavo e studiavo tutto il pomeriggio ogni giorno, talora anche dopo la cena immeritata dal moto corporeo molto ridotto, fino a mezzanotte, compresi i dì delle feste anche solenni. La preparazione ricevuta dallo studio precedente era bastata per i ragazzini delle medie e dell’Istituto professionale femminile di Mezzolara, ma non era sufficiente per farmi ascoltare da quegli studenti del liceo classico di quel tempo e quel luogo: era ancora una scuola eletta. Per quanto riguarda l’amore, questo era tutto indirizzato alla crescita attraverso lo studio specializzante e non mi restava libido da indirizzare su altro, nemmeno sull’ascesi pagana dello sport. Infatti fino a tutto maggio, a forza di desinarre e cenare immeritatamente, ingrassai di nuovo.

Ricordo che verso la fine di maggio, una sera allietata dai voli delle rondini e del loro strepitoso garrire che mi sembrava il tripudio di una festa grata alla vita, mi affacciai a una finestra dello studio e, osservando il sole occidente e pure sicuro di resurrezione, mi dissi: “ce l’ho fatta. E’ stato molto duro, faticoso fino allo stremo delle forze, ma ce l’ho fatta”. Mi ero  appesantito nel corpo per carenza di movimento fisico mentre con quello mentale avevo scalato montagne alte e impervie assai. In giugno recuperai la linea da asceta con tanto di vita da torero attraverso digiuni, corse a piedi e pedalate in salita, poi in luglio, nel luglio del 1976, tornai a Debrecen.


giovanni ghiselli

Il nomen omen di Elena e di Salvini

Non poche volte il nome è un presagio come avverte il latino nomen- omen.

A volte il nome si rivela appropriato alla persona nel corso della sua vita.

Il cognomen omen di Salvini che vuole salvare la libertà.


Nel secondo stasimo dell'Agamennone di Eschilo il coro presenta i diversi aspetti di Elena : " Chi mai diede un nome così del tutto vero alla sposa le cui nozze furono causa di guerra, donna oggetto di contesa poiché chiaramente distruggitrice di navi (eJlevna" ), di uomini (e[landro"), di città? (eJlevptoli")?

 Secondo la credenza  del nomen-omen il tragediografo etimologizza in maniera fantasiosa il nome dell'adultera connettendone la prima parte con il radicale eJl-  (cfr. l'aoristo ei|lon di aiJrevw, "tolgo di mezzo"). Nella seconda parte vengono ravvisate, non senza forzatura, le parole nau'~, ajnhvr e ptovli".

Quando giunse a Ilio, la splendidissima era come :"un pensiero di bonaccia senza vento, un tranquillo ornamento di ricchezza, un tenero dardo degli occhi, un fiore d'amore che morde l'animo; ma poi, mutata, compì l'amaro fine del matrimonio, funesta compagna e funesta amante, scagliatasi contro i Priamidi scortata da Zeus protettore degli ospiti, Erinni che reca pianto alle spose"(Agamennone, vv.739-749).

 

Ecuba nlle Troiane  di Euripide  dice a Menelao:” ti lodo se uccidi la tua sposa, Menelao. Ma evita di vederla che non ti prenda con il desiderio. Ella infatti possiede tanta seduzione che attira gli sguardi degli uomini, distrugge le città, brucia le case ("ejxairei' povlei",-pivmprhsin oi[kou"", vv. 891-892).

 Euripide qui probabilmente ricorda "  JElevnan ejpei; prepovntw" eJlevna", e{landro", eJlevptoli"", appropriatamente Elena poiché distrugge navi, uomini, città  dell'Agamennone  (vv. 689-691) di Eschilo.

 

Attualizziamo: appropriatamente Matteo ha il cognome  Salvini perché vuole riaprire il prima possibile salvando la libertà degli italiani di contagiarsi quando e come vogliono. Onore al merito!

Bologna 27 febbraio 2021, ore 17, 58

giovanni ghiselli

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Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo XVI. Debrecen, estate 1970

Forcide
Nella Debrecen dell’estate 1970 non cercai l’amore angelico o serafico ma un’amante concreta senza tanti voli mentali né troppe palpitazioni cardiache.

 Iniziava in tempo delle finlandesi con Katina, non la più importante, ma lieta, sorridente e gradevole.

Aveva un’aria disponibile, uno  sguardo morbido e invitante: proprio il contrario di quello aspro e duro della Forcide che pietrificava i viventi. Katina faceva sesso assai volentieri e con un buonumore continuo che mi motivava a prestazioni superlative. Anche per la fame patita nel motel di Cittadella. Durante quel mese dimenticai la faccia dura e grigia del preside che a me dava noia, e quando usciva dal suo cupo ufficio faceva cadere a terra i poveri passeri e altri uccelli oppressi da un peso improvviso.

L’ultima sera del corso estivo quella ragazza, un poco più giovane di me, disse parole che non ho scordato: “Gianni, ti ringrazio per la magnifica estate che mi hai così generosamente donato. Questa sera che è l’ultima nostra, rendimi più felice che mai” 1. Ho sotto gli occhi una fotografia dei due ragazzi che allora eravamo: io guardo la macchina fotografica con l’espressione dolce, ammiccante, quasi sicura del giovanotto soddisfatto e orgoglioso delle proprie prestazioni sessuali. Difatti Katina mi aveva gratificato più volte dicendomi con lieta meraviglia: “but you are not normal!”. In senso buono. Lei nella foto è tutta contenta come lo era in rebus ipsis.

Pure io, che venivo dal grande digiuno dei lunghi mesi di Cittadella, ero assai contento della scorpacciata erotica e mi sentivo un uomo abbastanza vissuto, intelligente, capace di ottenere quello che vuole: tanto nel lavoro quanto nei rapporti umani.

Durante quell’estate e quell’amore non problematico,  continuai a coltivare le amicizie con i ragazzi incontrati nel ’66: alcuni avevano idèe politiche diverse dalle mie ed eravamo cresciuti in modo diverso, però nessuno mi ha fatto del male. Anzi, Fulvio, che era politicamente quasi dalla parte opposta, ha continuato a volermi bene e a farmene, contraccambiato.

Ero contento però non avevo ancora provato la felicità che nasce dal beneficio dell’amore ed è di troppo breve intervallo superata dalla divina2

 

Ebbene tale felicità conoscerò nell’estate seguente, quella del ’71 che ho già raccontato con la storia di Helena Sarjantola.

Degli undici messi trascorsi tra Katina ed Elena ne passai cinque a Carmignano-Cittadella, tre a Pesaro, e altri tre in caserma facendo il servizio militare al quale potei sottrarmi anzitempo perché in maggio la mia allergia alle graminacèe con il raffreddore da fieno si presentò quale “provvida sventura”3, e con l’aiuto di un amico dell’amico Danilo che in questa circostanza incarnò il mio demone buono, mi valse il congedo anticipato che mi liberò da  dodici mesi di ozio tribolato e mi consentì l’esperienza accrescitiva di Helena augusta, donna di grande formato la quale mi aiutò nella mia crescita umana con la felicità che mi infuse, un dono, davvero per sempre, un possesso per l’eternità 4.

Ma questo l’ho già raccontato. Ora l’antefatto alla trilogia finlandese è concluso.


Fine

 

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1 Metto qui in nota una rtecenza del testo, una mia pudica aposiopesi. La ragazza concluse con una simpatica oscenità dicendo: “sixty nine, I hope”. In questo caso  l’inglese è la lingua del pudore, come in altri momenti il latino.

2 Cfr. Leopardi, Storia del genere umano

3 Cfr. Manzoni, Adelchi, II coro con la morte di ermengarda

4 Cfr. Tucidide, I, 22, 4

 

 

Bologna 27 febbraio 2021 ore 11, 40

giovanni ghiselli

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La bellezza della terra VI parte

Vediamo che cosa intende Nietzsche con
Apollineo e Dionisiaco.
 L’inno alla gioia di Schiller musicato da Beethoven dà un’immagine del dionisiaco
“Sotto l'incantesimo del Dionisiaco non solo si stringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata, celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla gioia di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l'immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la moda sfacciata hanno stabilite fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell'armonia universale, ognuno di sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria"[1].
 
“Tutti gli uomini diventano fratelli”  dice il testo. Questo inno alla gioia è stato adottato come canto ufficiale dell’Unione europea.  
L'Inno alla gioia è  un componimento giovanile di Friedrich Schiller (1759 - 1805). Con questa ode Schiller intendeva esprimere la sua visione idealistica sullo sviluppo di un legame di fratellanza fra le persone: «L'uomo è per ogni uomo un fratello! Che tutti gli esseri si abbraccino! Un bacio al mondo intero!».
Beethoven condivise questa visione e scelse di musicare la poesia di Schiller nel movimento finale della sua Nona Sinfonia, che compose nel 1823. Il risultato fu la famosa melodia dell''Inno alla gioia'.
 
C’è anche tempo e bellezza

An die Freude

Freude, schöner Götterfunken,
Tochter aus Elysium,
Wir betreten feuertrunken,
Himmlische, dein Heiligtum.
Deine Zauber binden wieder,
Was die Mode streng geteilt
Alle Menschen werden Brüder,
Wo dein sanfter Flügel weilt.
Wem der grosse Wurf gelungen,
Eines Freundes Freund zu sein,
Wer ein holdes Weib errungen,
Mische seinen Jubel ein!
Ja, - wer auch nur eine Seele
Sein nennt auf dem Erdenrund!
Und wer's nie gekonnt, der stehle
Weinend sich aus diesem Bund!
Freude trinken alle Wesen
An den Brüsten der Natur;
Alle Guten, alle Bösen
Golgen ihrer Rosenspur!
Küsse gab sie uns und Reben
Einen Freund, geprüft im Tod!
Wollust ward dem Wurm gegeben,
Und der Cherub steht vor Gott!Froh, wie seine Sonnen fliegen
Durch des Himmels prächt'gen Plan,
Laufet, brüder, eure Bahn,
Freudig, wie ein Held zum Siegen.
Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuss der ganzen Welt!
Brüder, über'm Sternezelt
Muss ein lieber Vater wohnen
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such' ihn über'm Sternenzelt!
Über Sternen muss er wohnen!

Alla gioia

Gioia, bella scintilla divina,
figlia degli Elisei,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
La tua magia ricongiunge
ciò che la moda ha rigidamente diviso,
tutti gli uomini diventano fratelli,
dove la tua ala soave freme.
L'uomo a cui la sorte benevola,
concesse di essere amico di un amico,
chi ha ottenuto una donna leggiadra,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, - chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c'è riuscito, lasci
piangente e furtivo questa compagnia!
Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;
tutti i buoni, tutti i malvagi
seguono la sua traccia di rose!
Baci ci ha dato e uva,
un amico, provato fino alla morte!
La voluttà fu concessa al verme,
e il cherubino sta davanti a Dio!
Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio (vada) al mondo intero
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!

 

 

Bolugna 27 febbraio 2021 giovanni ghiselli



[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 1.

La bellezza della terra. V parte

Tibullo
La bellezza della terra sciupata dalle
tevcnai di Prometeo
 
La beata età dell'oro di Tibullo non aveva le invenzioni di Prometeo. 
Sotto il regno di Saturno, al tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le navi, non c'era il commercio, né  l'aggiogamento del toro, né l'imbrigliamento del cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi vivevano senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat externa navita merce ratem.// illo non validus subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis//  Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves" (I, 3, 37-46), ancora il pino non aveva sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[1]: né il marinaio errante cercando profitti in terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere.
In quel tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c'era pietra conficcata nei campi che segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce  offrivano il miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte in mano a quegli uomini senza preoccupazioni.
 
U. Galimberti ricorda alcuni versi del Prometeo incatenato a proposito della catastrofe che ha colpito l'Asia il 26 dicembre 2004:
" Rassicurato dalla sua mente e dai prodotti della sua mente interrogò[2] Prometeo, che aveva donato la tecnica agli uomini, ponendogli questa domanda: "E' più forte la tecnica o la necessità che governa le leggi della natura?". Prometeo, amico degli uomini e inventore delle tecniche, dà la sua risposta lapidaria: "La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi della natura". Così riferisce Eschilo nel Prometeo incatenato[3], e Sofocle, di rincalzo, nell'Antigone dice che l'aratro ferisce la terra, ma questa si ricompone dopo il suo passaggio. Allo stesso modo la nave fende la calma trasognata del mare, ma le acque si ricompongono perché la natura è sovrana. Noi abbiamo dimenticato la sovranità della natura ( …) Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo al dominio della terra, abbiamo trasformato il suo uso in usura (…) La terra per noi è diventata materia prima e niente di più, il suolo coltre da perforare per estrarre energia dal sottosuolo, la foresta legname da utilizzare, la montagna cava di pietra, il fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da esplorare per futuri sfruttamenti, l'aria spazio dove scaricare i veleni rarefatti delle nostre opere (…) Non dimentichiamoci la potenza della natura e non abituiamoci a pensare che essa non è altro che materia prima, o deposito di rifiuti"[4]. 

giovanni ghiselli

 


[1]Quello delle vele, quasi fossero donne sfacciate.
[2] Il soggetto immaginato da Galimberti è l'uomo che costruisce argini, difese e inventa la tecnica previsionale per allontanare il più possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
[3] Cfr. v. 514 (n. d. r.)
[4] U. Galimberti, La natura inumana, in "la Repubblica" 27 dicembre 2004, p. 23.

La bellezza della terra. IV parte

Lawrence Alma Tadema, Sappho and Alcaeus
PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUI


A proposito del rapporto tra bellezza e genio, virili imprese, virtù, Leopardi afferma la supremazia del kalovn nell'Ultimo canto di Saffo[1] dove la poetessa dà voce a Leopardi affermando che il potere è dei belli.


Il canto parte dalla constatazione della bellezza del cielo e della terra:

“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

Sei tu rorida terra. Ahi di cotesta

Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l’empia

Sorte non fenno. Ai tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta,

e dispregiata amante, alle vezzose

tue forme il core e le pupille invano

supplichevole intendo  (19- 27…..)

Alle sembianze il Padre,

alle amene sembianze eterno regno

diè nelle genti; e per virili imprese,

per dotta lira o canto,

virtù non luce in disadorno ammanto," (vv. 50-54).

 

Bellezza della terra e bellezza della donna che la imita

Vero è che la donna imita la terra per dirla con Platone[2], ma può succedere che non la sappia imitare bene, allora la bellezza della Grande Madre di tutti agli occhi di alcuni uomini come Ippolito , supera quella della donna.

La nutrice rivela l'amore di Fedra  a Ippolito il quale, dedito principalmente a intrecciare ghirlande con fiori colti da prati immacolati (Euripide, Ippolito,vv.73-74) per donarle ad Artemide, una dea vergine, dà in escandescenze, e si scaglia contro  le femmine umane tutte, biasimate in ogni possibile versione, tanto che per ciascuna viene auspicata come naturale la convivenza con le bestie mute (v.646).


giovanni ghiselli

  

 


[1] Del 1822.

[2] "ouj ga;r gh' gunai'ka memivmhtai kuhvsei kai; gennhvsei(nella gravidanza e nel parto), ajlla; gunh; gh'n"(Menesseno,238a),

Ippolito di Euripide IV parte. conclusione del prologo.

    Veniamo alla terza e ultima parte del prologo (vv. 88-120) Esce dal palazzo un servo che si rivolge a Ippolito con il vocativo ...