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Aristotele sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è pertinente e appropriato al personaggio della tragedia (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta, Poetica 1450b, 5).
Collego questa ffermazione al ta; devonta di Tucidide: "E quanto a ciò che ciascuno disse con un discorso (lovgw/), o in procinto di fare la guerra o mentre già c'era dentro, era difficile sia per me ricordare la precisione alla lettera delle parole dette che io stesso ascoltai, sia per quelli che me le riferivano da qualche altro luogo; ma come mi sembrava che ciascuno avrebbe potuto dire nella maniera più plausibile le parole dovute (ta; devonta) sulle circostanze via via presenti, attenendomi il più vicino possibile al senso generale delle parole veramente dette, così sono state riportate" (I 22, 1)
Il discorso, continua Aristotele, entra nelle due categorie della politica e della retorica : infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (Poetica, 1450b, 7-8).
Nel IV secolo con la sottomissione di Atene alla Macedonia è finito il tempo della democrazia.
I personaggi della tragedia greca che alla democrazia ateniese è sincronica parlano politicamente.
Per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale.
Leggiamo Kierkegaard: "benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire, mentre nella tragedia contemporanea la rovina dell’eroe non è propriamente patire, ma atto"[1].
Patimento sommo è la solitudine (cfr. il Filottete) che invece diventerà un bene in varie epoche successive.
“E’ autenticamente greco che Filottete lamenti che nessuno conosce il suo patire, è un bisogno pofondamente umano volere che altri le provino”[2].
Il patire è un subire il male piuttosto che farlo
La propria passività viene proclamata da Edipo ai vecchi di Colono: "ejpei; tav e[rga mou-peponqovt j i[sqi ejsti; ma'llon h] dedrakovta" (Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state subite piuttosto che fatte.
Lo stesso afferma "the lunatic King "[3] di Shakespeare: "I am a man/more sinned against than sinning" (King Lear, III, 2), sono uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.
Allora l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”[4].
giovanni ghiselli
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