domenica 21 febbraio 2021

Debrecen 1966. XXV parte. L’infelicità sessuale dei ventenni della mia generazione

La secessione dalla compagnia che “in due si scema”

 

Sorseggiata la palinka, conclusi la mia lezione di pedagogia erotica dicendo con aria professorale: “ le ragazze non amano il chiasso e le scene infantili, ma parole precise, corrispondenti a fatti concreti. Cercano sicurezza non priva di tenerezza e ciascuna vuole sentirsi prescelta, anche se di fatto scelgono loro, quando ne hanno la possibilità”.

 

Non avevo ancora quasi nessuna esperienza di femmine umane amanti, ma le donne ero già predisposto a capirle: mi avevano fatto scuola quelle di casa: maestre imperiose, dure che non perdonavano l’insuccesso del maschio.

Davanti a loro ero uno scolaro che deve trovare e difendere la propria identità con una  lotta continua e strenua. Tale palestra era un luogo non soltanto di fatica e dolore ma anche di addestramento e ammaestramento prezioso. Avevo detto parole non prive di senso riguardo ai gusti delle femmine umane.

 

Danilo però se ne risentì, e, perduta la pacatezza acquisita durante il breve simposio, gridò: “Tu sei proprio malato mio caro, caro da Dio. Hai studiato troppo. Oppure non hai bevuto abbastanza. Non vedi che bea che xe?”. Le sue parole mi parvero ebbre e non seppi cosa rispondergli.

Fulvio, che aveva ascoltato con attenzione le parole mie e le aveva capite,  disse: “ Hai ragione, Gianni. Anzi, facciamo una cosa: andiamo a cercarne due da un’altra parte. La piscina è grande e pullula di belle ragazze. Noi qui perdiamo tempo “curando”[1]  in quattro una che nemmeno ci degna”.

“E’ ovvio - replicai - sempre più incoraggiato - non può rispondere a tutti. Vieni Fulvio: andiamo in giro a puntare come si deve”.

Veramente non sapevo come si fa, ma oramai avevo preso la posa del logico, dell’intenditore, e dovevo sostenere la parte. Intanto improvvisavo bluffando, poi l’avrei imparata sul campo. Così Fulvio e io  cominciammo a muoverci, mentre Danilo, rivolto a Ulderico gridava: “Cosa hanno quei due da bravare? Dimmi tu se con una toseta tanto bea, e una bocia di graspa a disposision, si deve criticare facendo i fighetti saccenti! Borghesi padani! Non sanno cosa significhi vivere un’esistenza marxista leninista! Io bevo palinka magiara, vodka russa, tutt’al più polacca, e fumo solo roba albanese!”

Poi si placò un’altra volta e con labbia rabbonita di nuovo, ripresa in mano la bottiglia diletta, concluse: “Be’, d’altra parte facciano come gli pare, cari da Dio, benedeti putei. Adesso qui c’è più spasio e meno concorrensa”. Non so se si riferisse alla fresca ragazza o alla palinka all’albicocca. “Beviamoci sopra”. Quindi s’attaccò alla bottiglia e  tacque.

 

Mentre ci allontanavamo da lì, Fulvio mi domandò se avessi già avuto esperienza di sesso. Non l’avevo, e non volevo simulare con lui né dissimulare, anzi aggravai il peso che mi opprimeva rispondendogli: “No, mi fanno troppa paura”. Poi, con aria desolata, gli chiesi: è grave?”.

 Fulvio, per sua umanità, mi rispose senza irrisione né biasimo: “No, non avrai ancora incontrato una congeniale. Ma qui ti rifai. Guarda che mare di passera c’è in questa piscina”.

Così cominciammo a scrutarle, ad avvicinarle, ad abbordarle, per invitarle a uscire con noi, magari di sera.

Eravamo goffi però e, per avere successo, contavamo, tristissimamente, sul fascino dello straniero, occidentale per giunta e dotato di un’automobile: la scassata Seicento che nell’Ungheria di quegli anni era comunque cosa rara, quasi da ricchi. Del resto tra noi e le ragazzette di Debrecen, non c’era dialogo per la diversità degli idiomi.

Compresi subito che per il “puntaggio” era terreno più adatto quello delle studentesse, le compagne di scuola dell’università estiva.

In quel mese lontano capii  molte cose sulle donne e pure sugli uomini. Volevo imparare a qualsiasi costo: anche pagando con grandi dolori e con l’espormi al ridicolo suscitato dall’ostensione dei miei grossi difetti, la conoscenza delle creature senza le quali sentivo di non poter vivere umanamente e felicemente qui sulla terra.

 Tra i ventenni della mia generazione sessualmente infelice, molti non avevano avuto esperienze erotiche; i maschi però vantavano gran copia di amori e di femmine.  Si gloriavano perfino delle prostitute. Io invece capivo che la miseria e l’infelicità sessuale ci riguardava tutti più o meno, maschi e femmine, perciò, mentre mi esponevo al ludibrio degli altri pitocchi del sesso con l’epifania e l’apocalisse della mia infelicità estrema, li compativo siccome avevo capito che loro, negando le debolezze e le angosce comuni, dovevano averle ancora più grosse delle mie: immense dovevano essere, ossia non più misurabili né attraversabili per giungere a rive e porti di salvezza. Io invece volevo varcare quell’oceano di tempestoso dolore, anche se avevo a disposizione soltanto un canotto bucato, o una zattera dal legno infradiciato e rischiavo non uno ma cento naufragi. Per l’esame di “greco uno” avevo dovuto leggere tutta l’Odissea e avevo imparato dal “poeta sovrano (…) che sovra li altri com’aquila vola”[1] non solo i tecnicismi linguistici richiesti dai professori dell’epoca.  

 Insomma volevo percorrere, a qualsiasi costo, qualunque tragitto mi avrebbe portato prima dentro il corpo, poi nella mente e nel cuore delle femmine umane belle e fini.

 La mia Itaca era un’isola con tante donne amorevoli nei miei confronti.

Come la mamma, la nonna e le zie dopotutto.



Bologna 21 febbraio 2021, ore 11,28. giovanni ghiselli

p. s.

Sempre1092412

Oggi76

Ieri277

Questo mese7109

Il mese scorso12853

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[1] Un vocabolo rivelatore della parmensitas mai dissimulata da Fulvio. In questo contesto significa “corteggiare” che però è meno espressivo. Fa parte del carattere sano la fedeltà alla propria nascita linguistica. Vivo a Bologna da più di 55 anni ma conservo la mia pisaurensitas nel parlare. La riconoscono dal fatto che allunghiamo le vocali, tipo : “cosa diiici, cosa faai,  sei maatto?”. Sono i plebei mentali quelli che dopo un paio di mesi di trasferimento in età adulta scimmiottano penosamente e ridicolmente la pronuncia della nuova città per sentirsi integrati e “arrivati”. E’ un segno di miseria.

[2] Cfr. Dante Inferno, IV, 88 e 96. Ho fatto queste due citazioni come pure altre, non per misero sfoggio delle mie modestissime conoscenze, ma per significare che gli autori accrescitori della nostra umanità,  devono ancora e sempre venire letti e ricordati se vogliamo evitare l’imbestiamento. Con buona pace degli animalisti. Ogni specie ha una sua funzione nel mondo creato dall’ottimo Demiurgo.

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