venerdì 26 febbraio 2021

Le estati tra 1967 e il 1971. Capitolo XIII. Il dolore per l’ingiustizia subita

Cittadella e le montagne
L’inappagato, doloroso bisogno di giustizia del giovane insegnante. Ma con il tempo arriva il contrappasso

 
Andai a cercare l’ufficio da dove mandare il telegramma che il preside mi aveva imposto senza dirmi dove si trovasse. Domandai a un bidello, un uomo più educato e cortese di lui. Avevo capito che il capo della scuola del mio debutto era contrario al mio stile, alla mia persona e mi sarebbe stato nemico a lungo anche perché oltretutto  avevo tolto il lavoro a una sua protetta.

 Non era  una previsione e una presofferenza sbagliata: in cinque anni che ho lavorato nella  scuola di tale capo istituto, costui tutte le volte che ha potuto mi ha dato dei fastidi. All’inizio è stata una prova dura per me. Ero giovane allora, ero del tutto solo nel Motel di Cittadella: non avevo altro che la scuola, i ragazzi tutti molto cari, i colleghi, in gran parte buoni, e quel preside, un cinquantenne, un democristiano che poteva essermi padre e avrebbe dovuto aiutarmi, per carità se non altro cristiana, invece di ostacolarmi . Di questa ostilità soffrivo come di un’ingiustizia tremenda. Ancora non ero abbastanza disincantato sui rapporti umani. Ne rimasi deluso e ferito. Avrei potuto volergli bene come a un padre e lavorare meglio. Per fortuna quando iniziai a insegnare nel liceo classico trovai due presidi galantuomini: Davide Ciotti al Rambaldi di Imola, poi Piero Cazzani al Minghetti di Bologna. Il primo mi incoraggiò a studiare con tutte le forze dicendomi che la scelta di insegnare latino e greco dopo i diversi anni di oblio dei quali mi ero autodenunciato, mi faceva onore siccome stavo iniziando bene, con impegno serio;  il secondo mi affidò due classi da preparare per l’esame di maturità dicendo di essere che le avrei informate e formate bene. Disse perfino che i ragazzi mi avrebbero ammirato, e ancora di più le ragazze siccome ero studioso e avevo un mio stile non ordinario.

Li vissi come due figure paterne.


 A Carmignano per fortuna, quando mi ebbe conosciuto e riconosciuto quale ero, mi aiutò la vicepreside della scuola, Antonia Sommacal, che mi fece da mamma vicaria. Siamo rimasti amici finché visse. E’ stata anzi l’amica più cara che ho avuto. Più cara e generosa delle amanti, sebbene ci dessimo del lei, più intelligente di molti tra i miei parenti.

Avevo bisogno di affetto e aiuto dai presidi e dai colleghi. Ho voluto bene a quanti mi hanno dato una mano. Mentre ho detestato e contraccambiato con mercede adeguata quanti hanno ferito la mia persona e offeso il mio senso della giustizia. Ora, a distanza di decenni, ho imparato a soffrire di meno perché mi sono incallito, e a perdonare di più, siccome impietosito davanti a tanta miseria; nei furori giovanili però ricorrevo al contrappasso, quello formulato dai miei autori[1].

Ne riferisco tre esempi nella nota.

Non ho mai inflitto violenza a nessuno, sia chiaro, ma usando solo l’arma della parola, ho sottolineato l’ingiustiza e l’ingnoranza dei malfattori “uomini a mal più che a ben usi”[2]. Li ho provocati, li ho fatti cadere pubblicamente nel ridicolo e nel discredito. Non è stato difficile poiché le persone cattive non sono intelligenti. Mai fino in fondo.


Giovanni ghiselli


 


[1] Nel doloroso canto (Commòs ) che precede l'epilogo dell'Agamennone di Eschilo il Coro dice queste parole: "paga chi uccide (ejktivnei d j oJ kaivnwn)./Rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"( mivmnei de; mivmnonto~   jen qrovnw/ Diov~ - paqei`n to;n e[rxanta: qevsmion gavr”, vv. 1562-1565). C’è una ripresa di questo nel kommos delle Coefore: dravsanta paqei'n, trigevrwn mu'qo" tavde fwnei' (313-314), subisca chi ha agito, un  detto tre volte antico suona così. Nell’Eracle di Euripide Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incamminato verso la morte:  (727) prosdovka de; drw'n kakw'"-kakovn ti pravxein (727-728), aspettati facendo del male di averne del male. 
[2] Cfr. Dante, Paradiso, III, 106.

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