giovedì 18 febbraio 2021

Debrecen 1966. parte XIX. L’ orto botanico

Debrecen – The University Botanic Garden
Il giardino era pieno di vita, eppure non la sentìi vivere anche dentro di me fino alla notte magica in cui lo percorsi abbracciato alla Sarjantola biancovestita che adunava nel volto sereno la luce della graziosa luna e di tutte le vaghe stelle, e, mentre  cantava Summertime con voce calma, manifestava l’armonia che finalmente mi aveva accolto offrendomi le sue meraviglie impersonate da lei, donna dotata di stile,  capace di infondermi nell’anima  la verità semplice bella e santa che vivere, soprattutto d’estate, è facile, piacevole e gioioso, se non abbiamo commesso delitti inespiabili o sbagli irrimediabili.

Allora pensai: “sum, o superi, beatus, nullique potestas hoc auferre homini” , sono felice e nessuno ha la possibilità di togliermi questo.

L’orto botanico divenne un pezzo di paradiso terrestre solo dopo la conoscenza di quella femmina umana  rara. Helena mi aprì la strada verso le altre muse di questa mia vita mortale. In lei ho previsto le seguenti e nelle migliori di queste ho ricordato lei. Perché la Sarjantola che una sera mi disse: “io non sono materia” e mi fece provare vergogna dell’ ingiustizia che stavo per infliggerle, ha risvegliato in me l’idea dello spirito, e attraverso il suo petto, il suo cuore, mi ha fatto auscultare i palpiti dell’universo. Ma questo sarebbe avvenuto cinque anni più tardi, nell’estate felice del 1971.

Nel luglio del ’66, mentre percorrevo i sentieri ghiaiosi dell’orto botanico, le piante, le erbe e i fiori dei quali pure leggevo con curiosità superficiale e distratta i nomi latini incisi nei cartelli di latta inchiodati su pezzi di legno piantati nella terra contigua al sentiero ghiaioso dove camminavo con passo stanco, da vecchio anzi tempo, quei vegetali denominati Heuchera Sanguinea, o Campanula Karpatica, per me erano soltanto materia e non risvegliarono la mia fantasia, né mi infusero  il gusto della vita con cui potessi difendermi dal marcio sapore di morte che avevo in bocca e nel cuore.

L’anima mia storpia era sempre gravata dalla paura di non trovare una donna, né alcun affetto, e, in quel momento in particolare, di non inserirmi nel nuovo ambiente pieno di giovani meno infelici e disperati di me. La mente sciancata dal peggiore dei vizi, l’autodisprezzo, era diventata uno spettro svigorito, desolato inquilino di un corpo gonfio e infiammato dal cibo.

Con l’amore di Helena, invece, nell’ orto botanico avrei visto trionfare la vita: alberi strani e altri già noti, piccole piante esotiche irretite da ragnatele azzure filate con arte, stagni vivaci dove nell’acqua guizzavano  pesci pieni di vita come gli uccelli contenti che sfrecciavano nel cielo, e rane abbicate  alla terra che  ripetevano il loro verso ringraziando il creatore. Quella donna mi ha fatto capire che la vita stessa mi amava, la vita che è la verissima amante degli uomini buoni i quali non possono non contraccambiarla.

Prima di Helena non ero in grado di notare la parentela di tutto con tutto: non mi accorgevo che le ninfèe distese sopra lo stagno sembravano  pezzi di un mosaico strano,  né assomigliavo le tartarughe a soldati vecchi ma ancora validi, collocati a difesa del luogo con lo scudo dorsale che non avrebbero mai potuto abbandonare. Mi sarebbero venuti in mente i Germani di Tacito e dissi a Elena che pure quelle testuggini dovevano avere tale senso dell’onore militare: “scutum reliquisse praecipuum flagitium”1.

“Sei intelligente e colto- fece lei-Ho fatto bene ad amarti”.

“Hai fatto molto bene a me”, le risposi.

“E tu a me”.   Pauca sed bona dicta.

 

giovanni ghiselli

Bologna 18 febbraio 2021 ore 21, 10

p. s.

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Nota

 1 Tacito, Germania, 6.

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