domenica 14 febbraio 2021

Debrecen 1966. X. La cena immonda

All’Hungaria tornai a essere preda della dismisura insensata: mangiai molto, carne e tante patate in umido, senza fame siccome  durante il giorno, viaggiando, avevo inghiottito pane e cioccolata.

“Mangiare - pensavo - è il verbo più negativo che esista, e ingozzare come sto facendo è l’atto più tragico che esista. Ma non posso farne a meno”

Intanto dalla mia bocca usciva da una parte e dall’altra una zanna come di porco[1], e in più cariata.

Altra gente intorno a me ingoiava con ingordigia.

Unti entravano nelle fauci i bocconi. Per la fretta frenetica alcuni pezzi cadevano dalle labbra nel pavimento[2].

Ogni tanto qualcuno entrava in bagno con la pancia gonfia del cibo non digerito. Il più malandato di costoro non ne uscì con le sue gambe[3]. Vennero a prenderlo degli infermieri e lo portarono via disteso, poi lo caricarono sull’ambulanza. 

A un certo punto i miei intestini cominciarono a fare rumore e dovetti correre nella latrina. Nemo nostrum solide natus est [4], pensai liberando le budella dall’aria fetida. Sebbene degradato a condizione bestiale, non avevo osato avvalermi dell’editto preparato dall’imperatore Claudio , quo veniam daret flatum crepitumque ventris in convivio emittendi [5].

Tornai nella sala da pranzo, ructabundus e mezzo briaco.

Osservavo le facce attonite e rubiconde dei miei vicini.

Le loro vite e la mia avevano lo scopo di fare da filtro a cibi e bevande, fino che ci rendevano infermi, infarciti come eravamo di schifezze e porcherie.

 Il motivo di quel rimpinzarsi era l’infelicità esistenziale, in particolare quella sessuale. I felici non sono ghiotti. “Per me è impossibile chiamare vorace uno dei beati: me ne tengo lontano”,  avevo letto nell’Olimpica I di Pindaro[6]. Lo ricordai e lo riferìi a me stesso, con pena.

Facendo così, mangiando da porco immondo, rendevo sempre più difficile la soluzione del problema di fondo: il buon esito della ricerca di una femmina umana. Non ne avevo chiara coscienza, ma ne sentivo l’angoscia mentre mi ingozzavo senza fame né tregua. Non riuscivo a tenermi lontano da quel vizio  che faceva parte della generale perversione e contorsione-diastrofhv- della mia natura: finito il liceo aveva perduto l’ojrqo;" lovgo" la ragione che deve mantenersi diritta di fronte a qualsiasi lusinga  e pure a ogni dolore. Mi ero snaturato quasi del tutto. Il cibo funzionava come un anestetico pessimo che toglie ogni sensibilità tranne quella del dolore. Forse attraverso quel mangiare smodato volevo raggiungere il peso e l’insensibilità di un bove, poi scoppiare. :

"Semibovemque virum semivirumque bovem "[7], mormorai.

 Ci voleva una diovrqwsi", un raddrizzamento, una correzione, e questa poteva venire solo dall’amore di persone buone. Il seguito della storia di Debrecen me le farà conoscere e io a voi. Per educarvi.

Quando quel cibo pesante mi ebbe riempito fino alla gola, con fatica mi alzai e uscii.

 Tornai all’Aranybika e andai a letto con l’angoscia di non farcela il giorno seguente a trovare l’università, o, se pure l’avessi trovata, a inserirmi tra le ragazze e i ragazzi: tutti certamente più belli, meno infelici, meno grassi, meno miopi, meno cariati e sconciati, meno colpevoli e soprattutto meno insicuri di me.

La mattina mi alzai e uscii dall’albergo per tempo. C’era il sole e il corso brulicava di gente.

 Con l’automobile mi avviai nella direzione indicata seguendo i binari del tram numero uno, l’unico invero dell’unica linea tranviaria, che, girando ellitticamente, collega la stazione all’università e viceversa: Egyetem-Pályaudvar-Egyetem: i due fuochi dell’ellisse di ferro.

La luce mi confortò.     jAnovrqwson seautovn”sussurrai, “raddrizza te stesso: ‘adesso mi chiama il destino’, direbbe un personaggio della tue tragedie”.

Drammatizzarmi mitizzandomi è sempre stata una mia tendenza, ereditata o presa per mimesi da mamma e da zie. Le seduttrici mentali.


Bologna 14 febbraio 2021 ore 20, 48. giovanni ghiselli


p. s.

Statistiche del blog

Sempre1090256

Oggi225

Ieri264

Questo mese4953

Il mese scorso12853

 



[1] Cfr. Dante Inferno XXII, 35.

[2] Cfr. Persio, Satira III, 102 “Uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris”  

[3] Cfr. Giovenale, Satira I, 142-144

Poena tamen praesens, cum tu deponis amictus,

turgidus et crudum pavonem in balnea portas:

hinc subitae mortes, però la punizione è presente, quando deponi le vesti gonfio e porti nel bagno il pavone non digerito: di qui morti improvvise 

[4] Satyricon 47. Sono parole di Trimalchione

[5]  Svetonio Vita di Claudio, 32

[6] ejmoi; d j a[pora gastrivmagon makavrwn tinj eijpei'n: ajfivstamai (52-55)

[7] Ovidio Ars amatoria (II,24).

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLVIII. Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare.

  Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura. “Aiutami Sole, a trovare dentro questo lungo travagli...