sabato 30 luglio 2016

Alcesti. XIII parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Un altro esempio di tale genere di realismo si trova nell'Elettra euripidea che dice:
"guarda la mia chioma sordida e questi stracci del mio peplo" (vv. 184 - 185).

Ma Admeto non soffre solo per la perdita dell'ottima sposa; patisce anche la pessima fama di cui si è coperto chiedendo il sacrificio della vita alla giovane moglie:
"Dirà, chiunque, essendo malevolo, mi incrocerà:
guarda quello che vive vergognosamente, che non ebbe il coraggio di morire/
ma avendo dato al suo posto per viltà colei che sposò
schivò l'Ade. E poi crede di essere un uomo?
E odia i genitori, proprio lui che non vuole
morire. Tale reputazione avrò oltre le sventure. (vv. 954 - 959).

E' la "civiltà di vergogna" dunque, oltre quella della colpa che rendono preferibile il morire al vivere di Admeto e gli fanno professare la triste saggezza del Sileno:
"Perché dunque, amici, sarebbe preferibile vivere
per me che ho cattiva fama e me la passo male? " (vv. 960 - 961).

Nel Terzo Stasimo (962 - 1005) il Coro eleva un inno alla Necessità (Ananche), vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti gli dèi:
"Io attraverso le Muse
 mi lanciai nelle altezze, e
ho toccato moltissimi ragionamenti,
ma non ho trovato niente più forte
della Necessità - (krei`sson oujden jAnavgka" hu|ron)
 né alcun rimedio
nelle tavolette tracie che
scrisse la voce di
Orfeo, né tra quanti farmaci
diede agli Asclepiadi Febo
dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti
per i mortali afflitti dalle malattie (962 - 972).

Si ricorderà che alla parte (Moira) assegnata dal destino nemmeno Zeus può sfuggire secondo Eschilo ( Prometeo incatenato, 518), mentre Platone sostiene che l'asse dell'Universo è il fuso di Ananche ( jAnavgkh~ a[trakton, 616c) il quale si volge sulle ginocchia (617b) di lei, madre delle Moire: Cloto, Atropo e Lachesi che presiede alla distribuzione delle parti. Queste nella Repubblica vengono scelte dalle anime in prossimità di intraprendere un'altra vita ("non sarà il demone a sorteggiare voi, ma voi sceglierete il demone", 617e), ma esse sono comunque condizionate dal numero che ricevono con il turno della scelta e dalle esperienze dell'esistenza precedente: Agamennone per esempio "per avversione al genere umano e i dolori sofferti prese in cambio la vita di un'aquila" (620b).
In ogni caso Lachesi sostiene che"la virtù è senza padrone e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta, non la divinità" (617e).

 Più ineluttabile è dunque la Necessità nei poeti drammatici che nel filosofo:
"Di questa sola dèa
non è possibile recarsi agli altari,
né alle statue, né ascolta i sacrifici.
Signora, non venire da me
più potente di prima nella vita.
Anche Zeus infatti qualunque cosa decida,
con te la porta a compimento.
Tu domi con la tua forza
anche il ferri dei Calibi,
e non ha ritegno
 il tuo volere scosceso. (973 - 983).

Non c'è medicina dunque, non c'è alcuna forza che possa opporsi a tale potenza che ora sembra travolgere Admeto:
" La dea ha preso anche te nei nodi inestricabili delle sue mani. " (985)
Si rassegni allora il re, e si consoli pensando a quale sposa gli è toccata, una donna che non è morta del tutto poiché sarà oggetto di culto divino:
"Né la tomba della tua sposa sia considerata un tumulo
 di cadaveri consunti, ma venga onorata
come si fa con gli dèi, sia un luogo di culto.
E qualcuno entrando per il sentiero
sghembo dirà questo:
"ella una volta morì per suo marito,
ora è una dèa beata.
Salve o signora, possa tu darmi del bene". cai`r j, w\ povtnia, eu\ de; doivh~
Tali parole la saluteranno. (996 - 1005).

Compiuta la beatificazione di Alcesti, comincia
l'esodo (1006 - 1163) della resurrezione.
 Entra Eracle con una donna velata ed esordisce con una sentenza sull'amicizia:
"Ad un amico si deve parlare liberamente" (1008)
, quindi rimprovera (1017) l'ospite di non avergli detto la verità. Poi gli chiede un favore:
"prendi e custodiscimi questa donna,
finché io sia arrivato qui con le cavalle tracie
dopo avere ucciso il re dei Bistoni.
Ma se dovesse toccarmi ciò che non mi accada (possa io tornare infatti)
te la do perché serva nella tua casa" (vv. 1020 - 1023).
Chi è? Dove l'ha trovata?
 Dice di averla ricevuta come premio della vittoria, in aggiunta a del bestiame, non in una gara leggera ma in un cimento maggiore: quello di pugilato e lotta (1031).

Precisa anzi di non averla rubata ( ouj ga; r klopaivan, v. 1035), cosa che suggerisce a Kott un altro commento maligno: si giustifica in questa maniera poiché sa di essere considerato un ladro.


continua 

giovedì 21 luglio 2016

Alcesti. XII parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Quindi Eracle prosegue:
"ora mostra quale figlio generò a Zeus
Alcmena la Tirinzia figlia di Elettrione.
Infatti devo salvare la donna morta
poco fa, bisogna che restituisca Alcesti
a questa casa e renda il favore a Admeto.
Andrò a fare la posta al signore dei morti
dalle nere ali e credo che lo troverò
vicino alla tomba mentre beve il sangue delle vittime. (vv. 837 - 845)
Kott che tende a scovare il comico e la malignità di Euripide sostiene che Eracle" Essendo uno a cui piace bere, suppone che anche Thanato sia un ubriacone" (op. cit. , p. 132).
Comunque sia, Eracle pensa a una fiera lotta, anche a costo di scendere nel mondo sotterraneo per sottrarre la preda agli dèi inferi:
"Qualora poi fallissi questa caccia ed essa non venga
alla densa pozza di sangue, andrò alle case senza sole
degli inferi, di Core e del re,
e la chiederò, e sono convinto di riportare su
Alcesti così da porla tra le braccia dell'ospite
che mi accolse in casa sua e non mi mandò via
sebbene colpito da grave sventura
ma la teneva nascosta essendo nobile, per rispetto verso di me" (vv. 850 - 857).

Alcesti può essere interpretata come un dramma che esalta l’ospitalità” (Kott op. cit).
Viene elogiata di nuovo l'ospitalità di Admeto il quale subito dopo entra in scena ad avviare un Commos ( vv. 861 - 934) che non sembra preludere all'esito lieto della vicenda. Il vedovo infatti deplora il proprio destino e la condizione nella quale è giunto a vivere:
"Certo la madre mi generò con un destino pesante.
Invidio gli estinti zhlw` fqimevnou~, quelli io amo,
quelle laggiù sono le case che desidero abitare.
Infatti non godo più nel vedere i raggi del sole
né a posare i piedi per terra" (vv. 865 - 870).

L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) si trova in Leopardi: Dialogo di Tristano e di un amico, del 1832.

Il corifèo compatisce il re e cerca di incoraggiare l'infelice che però ripete di essere inconsolabile: non trae conforto neppure dal bene che c'è stato tra lui e Alcesti, neanche dai figli avuti da lei:
" Dei mortali invidio quelli senza nozze né figli ( zhlw` d j ajgavmou~ ajtevknou~ te brotw`n)
infatti hanno una sola vita, e soffrire per questa
è un peso moderato.
Ma vedere le malattie dei figli
e il letto nuziale reso vedovo dai colpi della morte
 non è sopportabile quando è possibile vivere
sempre senza moglie e senza figli" (vv. 882 - 888).

Le nozze in effetti sono un mevga~ ajgwvn (Antifonte sofista)

Vani sono i reiterati tentativi di consolazione: Admeto ribadisce che avrebbe preferito morire:
"Perché mi impedisti di gettarmi nella
cava fossa della tomba e di giacere
spento accanto a lei, la migliore delle donne?
Invece di una, Ades avrebbe due anime
insieme, le più fedeli l'una all'altra e che insieme
avrebbero attraversato la palude ctonia" (vv. 897 - 902).

Il corifèo imbastisce una consolatio ricordando il caso di un suo parente (v. 904) che perse il figlio unico ma sopportò con moderazione il male pur essendo senza altri figli e con capelli bianchi (907 - 908).
Tale esempio di sopportazione sarebbe stato ispirato dal filosofo Anassagora che secondo una tradizione reperibile ancora in Cicerone (Tusculanae disputationes, III, 14, 19) alla notizia della morte dell'unico figlio avrebbe detto nel suo stile lapidario: " sciebam me genuisse mortalem ", sapevo di averlo generato mortale.
 A questa esemplarità del filosofo nei confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive: " il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[1] parola attraverso la maschera tragica" (La filosofia nell'età tragica dei Greci p 1O9).

Admeto dunque rievoca il giorno felice delle nozze quando la sposa, "improvida di un avvenir malfido", e lo sposo erano chiamati felici poiché si univano in matrimonio due nobili discendenti da nobili. Il momento presente sembra l'antitesi di quello, gioioso e lontano:
"Ora invece degli imenei il lamento funebre,
e al posto di bianchi pepli, negre gramaglie
mi accompagnano in casa
ai giacigli deserti del letto" (vv. 922 - 925).
Il corifèo invita ancora Admeto alla rassegnazione, ma il vedovo si dichiara più disgraziato della morta:
"infatti nessun dolore la toccherà mai
e ha posto fine a molti affanni con bella gloria.
Io invece, che non dovevo vivere, schivato il destino di morte,
passerò una vita dolorosa: ora comprendo - lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw" (vv. 937 - 940).
Secondo la maggior parte degli interpreti questa resipiscenza segna il momento della "conversione" e della salvezza di Admeto.
 Kott invece, che malignamente attribuisce malignità a Euripide, come abbiamo visto, nega che ci sia stata una rinascita morale. Ci sembra un'interpretazione troppo malevola verso il vedovo che ha fatto sì una pessima figura ma ora sembra in effetti comprendere qualche cosa:
"la solitudine rimasta là dentro mi scaccerà944
quando vedrò vuoto il letto della mia sposa gunaiko; ~ eujnav~kenav~)
e i seggi sui quali sedeva, e polveroso il suolo aujcmhro; n ou\da~
sotto il tetto, mentre i figli cadendomi
alle ginocchia piangeranno la madre, e i servi
rimpiangeranno la padrona che persero nella casa". 949

Il pavimento, se non altro, è sporco perché non è stato lavato, non perché sia insanguinato: altro segno di realismo domestico secondo Kott. La polvere è un segno contrario alla vita.


continua



[1] Di Anassagora. 

martedì 19 luglio 2016

Alcesti. XI parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Quindi Eracle entra ed espone la filosofia dell'attimo fuggente, una anticipazione del carpe diem oraziano e una specie di epicureismo prima di Epicuro:
"Tutti i mortali devono morire, (v. 782)
e non c'è nessuno degli uomini che sappia
se il giorno dopo sarà ancora in vita:
infatti non è chiaro verso dove procederà il cammino della sorte,
e non è possibile insegnarlo né si può apprendere con una tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ v. 786).

Si ricordi la confutazione delle tevcnai scoperte da Prometeo.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo. Tutte invenzioni il cui beneficio viene confutato da diversi autori: da Eschilo stesso a Leopardi, a Mary Shelley, a Svevo.

La tecnica dunque e nemmeno la scienza capiscono il destino e non comprendono tante altre cose, inclusa l'anima umana.
 Questo ha ripetuto il movimento del decadentismo, ma tale sfiducia, come si vede, era già presente nei Greci.
Eracle trae queste conseguenze:
"Dunque, avendo udito e imparato queste verità da me, (v. 787)
rallegrati, bevi, calcola come tua la vita
di ogni giornata, il resto invece della sorte.
Onora in particolare la più dolce delle dèe
per i mortali: Cipride, infatti è una dea benevola" eujmenh; ~ ga; r hJ qeov~. (v. 791)

Invero né Afrodite né suo figlio Eros sono sempre divinità benefiche. Si può pensare all’Ippolito di Euripide dove la dea distrugge il protagonista che l’aveva trascurata, o alle Argonautiche.
Nel poema d Apollonio Rodio l'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn ajlginovei"", 4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta.
Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh; n fresi; n e{mbale" a[thn)", Argonautiche, 4, vv. 445 - 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità.
Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).

Le conclusioni del discorso di Eracle anticipano piuttosto un verso delle Baccanti: "il sapere non è saggezza/né pensare cose non da mortali 395 - 396):
conviene bere afferma il figlio di Alcmena e:
"siccome siamo mortali bisogna pensare da mortali" (o[nta~ de; qnhtou; ~ qnhta; kai; fronei`n crewvn, Alcesti, 799).
Una morale questa che invece contrasta con l'idea stoica già presente nel Teeteto di Platone ( oJmoivwsi~ qew`/, 176b) della doverosa "assimilazione a dio". Questa avviene attraverso una fuga dalla realtà terrena che è colma di ingiustizia.
Ma Eracle che pur va compiendo fatiche sovrumane pensa che:
"per tutti quelli gravi e accigliati
se vuoi avvalerti del giudizio mio,
la vita non è realmente vita ma una disgrazia". (ouj bivo~ ajlhqw`~ bivo~ ajlla; sumforav, 799 - 801)

E' un poco anche il motivo che si trova nel carme 5 di Catullo del quale riporto i primi versi direttamente in traduzione:
"Prendiamoci la vita, mia Lesbia e facciamo l'amore,
e le critiche dei vecchi troppo seri (rumoresque senum severiorum)
valutiamole tutte un soldo soltanto.
I soli possono cadere nel buio e tornare;
noi, una volta caduta la breve luce,
dobbiamo dormire una notte eterna".

La polemica contro "gli accigliati" è assunta in un contesto estetico letterario da Petronio in difesa dei contenuti e della "bellezza semplice" del Satyricon (132):
"quid me constricta spectatis fronte Catones
damnatisque novae simplicitatis opus? ", perché mi fissate con la fronte corrugata o Catoni e condannate la mia opera di straordinaria semplicità?
Cfr. anche i tristes obscaeni di Giovenale (II, 9).

Segue una sticomitia tra Eracle e il servo il quale, incalzato, svela quanto il re aveva cercato di tenere nascosto:
"La morta è la sposa di Admeto, ospite". 821
Questo finalmente capisce che il lutto è grave:
"Oh misero, quale compagna hai perduto!"824, e il servo lo aggrava ancora:
"Siamo morti tutti, non solo lei" (825).
Eracle, pentito di avere gozzovigliato"con il capo cinto di corone" (831 - 832), domanda al servo dove possa raggiungere Admeto. Vuole recarsi anch'egli presso il sepolcro della sposa per strapparla a Thanatos con aspra lotta, anche scendendo nel regno dei morti se necessario:
"o cuore che molto hai sopportato e mano mia" ( w\ polla; tla`sa kardiva kai; cei; r ejmhv, 837), sprona se stesso con un'apostrofe di derivazione omerica.

Odisseo nel vedere le tresche delle ancelle con i proci, dice al suo cuore: “tevtlaqi dhv, kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh~ “, Odissea, XX, 18), hai gà sopportato un male più cane.

 Questa allocuzione al cuore ha una bizzarra parodia nel Satiricon, nello stesso capitolo citato poco fa (132):

"quid dicis - inquam - omnium hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est ", cosa ne dici, faccio, vergogna degli uomini e degli dèi tutti? Infatti neppure nominarti tra le cose serie è lecito. La bizzarria di questa apostrofe è che viene indirizzata al pene languido. Poco dopo del resto Encolpio autorizza questo suo strano polemizzare ricordando i modelli classici: "Quid? non et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos suos tamquam audientes castīgant? " E che? Non litiga forse Ulisse con il suo cuore e certi personaggi tragici non se la prendono con i loro occhi come se li ascoltassero? Per Ulisse abbiamo già indicato il ventesimo canto dell'Odissea (vv. 18 e sgg.), per i tragici ovviamente si deve pensare all'Edipo re quando il figlio di Laio si accieca (v. 1270).


continua 

domenica 17 luglio 2016

Twitter, CCXXXVI antologia. Il colpo di Stato dei militari felloni e fantocci

A ogni colpo di Stato (cfr. Algeria, Egitto prima di questo tentativo) che  esautora un governo eletto dai cittadini e uccide  quanti vogliono difendere il proprio voto, non può che conseguire un accrescimento del terrorismo con tutti i suoi orrori.
I generali felloni manovrati da fuori, i felloni fantocci che sparano sul Parlamento, vanno condannati dalle democrazie europèe.

Gli stessi che organizzano e provocano colpi di Stato contro governi eletti dal popolo incentivano quel terrorismo che poi deprecano o fingono di deprecare. Dobbiamo dire no ai generali felloni e fantocci.

Gioisco del fallimento di questo tentativo di negare validità al voto del popolo che va rispettato, qualunque esso sia.


giovanni ghiselli  

venerdì 15 luglio 2016

Twitter, CCXXXV antologia

15 luglio

Sul terrorismo
Per combattere il terrorismo bisogna insegnare ai popoli che la felicità non viene dalle cose né dal potere, ma dall’amore della bellezza e dall’amore per la vita.
Di questa cultura biofila, etica ed estetica non sono certamente capaci i banchieri, i finanzieri, e gli uomini d’affari che ora dominano il mondo.
Costoro sono complici, se non addirittura i mandanti del terrorismo

Voglio ricordare quanto Alfieri aveva già capito alla fine del Settecento
Cito la conclusione della satira XII, Il commercio
     
  155 Cambiatori, e Finanzieri;
     156   Gli Eroi son questi, ch'oggi fa la Piazza:
     157      Questi, in cifre numeriche sì alteri,
     158   Ad onta nostra, dall'età future
     159   Faran chiamarci i Popoli dei Zeri.
     160      Ma morranno anco un dì queste imposture,
     161   Come tant'altre ch'estirpò l'Obblìo:
     162   E si vedrà, basi mal ferme e impure
     163      Aver gli Stati, ove il Commercio è Dio;
     164   E tornerassi svergognato all'Orco,
     165   Donde, uccisor d'ogni alto senso uscio,
     166      Quest'obéso impudente Idolo sporco.

Le satire furono scritte fra il 1786 e il 1797.


Sulla catastrofe ferroviaria
Quando non funziona più la scuola, non funziona più niente.
La scuola di oggi, anche se c’è chi la chiama “buona”, non
 educa più all’attenzione, alla precisione, allo spirito di sacrificio. Avalla piuttosto l’egoismo, l’ignoranza e l’idiozia. I ragazzi vengono lasciati nel pantano fangoso e fascista del “me ne frego”. Non educati al bello e al bene, trascurano i doveri, anche quelli minimi, nei confronti degli altri e pure verso se stessi. Vivono a casaccio in mezzo a disordinate trasgressioni del buon gusto e della morale.
Bisogna riformare sul serio la scuola e renderla veramente formativa.
Questo dovrebbero scrivere gli scarabocchiatori che fanno disinformazione
giovanni ghiselli

p. s
si parva licet componere magnis, nemmeno gli agoni sportivi funzionano più.  

giovedì 14 luglio 2016

Alcesti. X parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016


Tornando all'Alcesti, Ferete ritorce sul figlio l'accusa di pusillanimità:
"Poi parli della mia
Viltà (ajyucivan), o pessimo, vinto da una donna
che è morta per te, il bel giovanotto!
Hai trovato un modo ingegnoso per non morire mai
se persuaderai la moglie che hai di volta in volta
a morire al tuo posto: poi insulti dei tuoi
quelli che non vogliono fare questo, mentre tu sei un vigliacco? (kakov~)
Taci: considera che, se tu ami la vita
tua, tutti l'hanno cara! " (696 - 704).

Segue una sticomitia, dialogo serrato durante il quale i personaggi recitano un verso a testa, in maniera concitata (vv. 710 - 729).
Ferete non è pentito della sua scelta:
"avrei sbagliato di più se fossi morto al tuo posto" (710), mentre Admeto non si vergogna della richiesta fatta al padre, anzi continua a considerarla legittima:
"E' dunque la stessa cosa che muoia un uomo nel fiore degli anni e un vecchio? " (711). E il vecchio risponde che la vita è unica, per tutti:
"dobbiamo vivere una sola vita, non due" (712).

Nell’Eracle il coro di vecchi tebani auspica più di una giovinezza e più di una vita per le persone buone.
 “Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi" - kai; sofiva) secondo i criteri umani donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv. 661 - 669).
Marziale afferma che l’uomo buono, privo di rimorsi, gode del frutto del suo passato e accresce lo spazio della propria esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7 - 8).

Il figlio rimprovera di avidità e vigliaccheria il padre il quale però gli fa presente che Alcesti non è morta per salvare lui o sua moglie; quindi aggiunge con sarcasmo:
"cerca molte mogli perché ne muoiano di più!" (720).
Poi Ferete, per difendersi dall'accusa di impudenza, riduce l'eroismo di Alcesti a follia:
"questa non era impudente: questa l'hai trovata matta" ( ejfhu`re~ a[frona, v. 728).
In un mondo di opportunisti dunque l'eroismo è visto come pazzia. Infine Admeto manda via il padre in malo modo:
"Vattene e lascia che io seppellisca questo cadavere" (729).
Ferete si allontana accusando il figlio di essere il carnefice di Alcesti:
"me ne vado: la seppellirai tu che sei il suo assassino (foneuv~),
e ne renderai anche conto ai suoi familiari" (730 - 731).
Fa il nome del fratello Acasto che se è un uomo punirà l’assassino della sorella.
Admeto risponde imprecando contro il padre e la madre:
"Vai in malora tu e quella che vive in casa con te,
senza figli dovete invecchiare, come vi meritate,
pur avendone uno" (734 - 736).
Quindi esce di scena per andare a porre la salma sul rogo (740). Il coro saluta Alcesti ripetendo espressioni di stima e affetto, non senza una speranza di beatificazione:
"o nobile e di gran lunga la migliore,
addio! benigno ti accolga Ermes ctonio
e Ades. Se anche laggiù
c'è qualche vantaggio per i buoni, partecipandone
tu possa sedere accanto alla sposa di Ades" (742 - 746).

Questi versi, evocando la divinità minore che siede accanto a quella principale, come Attis a Cibele o Adone ad Afrodite, fa pensare che Alcesti in origine fosse una dea degli inferi subordinata a Persefone.

Quindi la scena si vuota ed entra un servo che recita un monologo (vv. 747 - 772) per informarci sullo strano comportamento dell'ospite nerboruto:
"molti ospiti e da ogni paese
ho già visto venire nella casa di Admeto,
e li ho serviti a tavola; ma non abbiamo mai accolto
a questo focolare un ospite peggiore di questo" (747 - 750).

Poi Eracle viene descritto con tratti buffi da commedia: si è comportato fin dal primo momento senza la delicatezza e la discrezione richieste dal lutto, e si è messo a bere vino puro di uva nera (v. 757), usanza considerata scitica o ciclopica, insomma barbarica dai Greci che erano soliti diluirlo con acqua. Perciò si è ubriacato e non ha più avuto freni:
"cinge il capo con ramoscelli di mirto
 e abbaia latrati senza musica (a[mous j uJlaktw`n); ed era possibile udire due tipi di canto: quello infatti cantava senza nessun riguardo per i mali
di Admeto, noi servi invece piangevamo
la padrona, ma non mostravamo all'ospite gli occhi
bagnati, poiché Admeto comandava così.
Ed io ora in casa servo a tavola
un ospite, un ladro capace di tutto e predone,
mentre lei è andata via dalla casa, né l'ho seguita
né le ho teso la mano levando lamenti
sulla mia padrona che per me e per tutti i servi era
madre (mhvthr): infatti ci proteggeva da infiniti mali
mitigando le ire del marito. Dunque non ho ragione
di odiare l'ospite giunto in mezzo ai mali? " (vv. 759 - 772).

Eracle è descritto come volgare, ma fra poco si rivelerà benefico, poiché non sempre la cattiva educazione formale corrisponde a una sostanza cattiva. Alcesti invece è sostanzialmente buona e fine: ha con i servi quel comportamento amichevole riservato loro dall'alta aristocrazia di tutti i tempi: da Seneca ai Guermantes di Proust.
Si ricordi la lettera 47 di Seneca. Gli schiavi sono chiamati humiles amici, contubernales, persone sulle quali la fortuna può tanto quanto può nei confronti di ogni uomo.

 Inoltre nella regina momentaneamente morta che stornava "infiniti mali" dalle teste dei servi devoti, ed era come una madre (v. 770), si possono trovare elementi superumani, forse residui di un culto dedicato a un' antica divinità, la magna mater. 


continua

martedì 12 luglio 2016

Twitter, CCXXXIV antologia


Le mie lezioni a Boscochiesanuova

Ripeto: sto dalla parte dei poveri, dei desolati, dei dimenticati da tutti: il meglio dell’umanità.
Per fare un esempio: i due pescatori indiani fucilati e ignorati  sono vicini al mio cuore molto più dei fucilatori cari alla gente non buona.

L'assuefazione assopisce il sentimento del tempo e accorcia la vita. Per ravvivarsi bisogna cambiare abitudini. E governo.

Nel linguaggio dei servi, l'uomo politico "avverte".
Proprio come il demone infernale Flegias il quale, pur miserrimus,/ omnis  admonet et magna testatur voce per umbras:/ discite iustitiam moniti et non temnere divos ( Eneide, VI,  618-620  )  infelicissimo
avverte tutti e a gran voce testimonia  in mezzo alle ombre:
“Imparate la giustizia avvisati e a non disprezzare gli dèi” 620. 

La musica è una forma di educazione che plasma il carattere, lo armonizza e sintonizza con il bello, se è bella. Se invece è frastuono spacciato per musica, infonde disordine e violenza  nelle anime.

II terrorismo peggiore è quello di coloro che inducono i giovani a perdere la nostra cultura con la sua identità nobile e antica.  Tali persuasori deleteri sono pagati per favorire l’ignoranza e con essa il consumo di schifezze in questo sinistro carnevale cosmopolitico di brutte merci imposte da un mercato osceno. E’ come se un buffone o un pazzo avesse arrangiato le cose in modo da fare sembrare l’alba tramonto e viceversa. Acta retro cuncta.

A Boscochiesanuova terrò un breve corso e, a proposito delle due lingue moderne che conosco, una discretamente (l’italiano), l’altra meno bene (l’inglese), dirò che non capirei il senso vero (to; e[tumon) delle parole se non conoscessi il greco: i vocaboli simbolo e problema, p. e., symbol and problem, vengono compresi solo in parte da chi non conosce i significati di sumbavllw “metto insieme” e probavllw “ getto davanti.
Se non si conosce l’etimo delle parole che diciamo, ascoltiamo e leggiamo, non si capisce niente del tutto. Il greco e il latino vanno difesi, studiati e rilanciati se vogliamo salvarci dalla miseria mentale e dalla tirannide.
Pesaro 11 luglio 2016


giovanni ghiselli 

lunedì 11 luglio 2016

Alcesti. IX parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Tornando all'Alcesti, Ferete ritorce sul figlio l'accusa di pusillanimità:
"Poi parli della mia
Viltà (ajyucivan), o pessimo, vinto da una donna
che è morta per te, il bel giovanotto!
Hai trovato un modo ingegnoso per non morire mai
se persuaderai la moglie che hai di volta in volta
a morire al tuo posto: poi insulti dei tuoi
quelli che non vogliono fare questo, mentre tu sei un vigliacco? (kakov~)
Taci: considera che, se tu ami la vita
tua, tutti l'hanno cara! " (696 - 704).

Segue una sticomitia, dialogo serrato durante il quale i personaggi recitano un verso a testa, in maniera concitata (vv. 710 - 729).
Ferete non è pentito della sua scelta:
"avrei sbagliato di più se fossi morto al tuo posto" (710), mentre Admeto non si vergogna della richiesta fatta al padre, anzi continua a considerarla legittima:
"E' dunque la stessa cosa che muoia un uomo nel fiore degli anni e un vecchio? " (711). E il vecchio risponde che la vita è unica, per tutti:
"dobbiamo vivere una sola vita, non due" (712).

Nell’Eracle coro di vecchi tebani auspica più di una giovinezza e più di una vita per le persone buone.
 “Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi" - kai; sofiva) secondo i criteri umani donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv. 661 - 669).
Marziale afferma che l’uomo buono, privo di rimorsi, gode del frutto del suo passato e accresce lo spazio della propria esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7 - 8).

Il figlio rimprovera di avidità e vigliaccheria il padre il quale però gli fa presente che Alcesti non è morta per salvare lui o sua moglie; quindi aggiunge con sarcasmo:
"cerca molte mogli perché ne muoiano di più!" (720).
Poi Ferete, per difendersi dall'accusa di impudenza, riduce l'eroismo di Alcesti a follia:
"questa non era impudente: questa l'hai trovata matta" ( ejfhu`re~ a[frona, v. 728).
In un mondo di opportunisti dunque l'eroismo è visto come pazzia. Infine Admeto manda via il padre in malo modo:
"Vattene e lascia che io seppellisca questo cadavere" (729).
Ferete si allontana accusando il figlio di essere il carnefice di Alcesti:
"me ne vado: la seppellirai tu che sei il suo assassino (foneuv~),
e ne renderai anche conto ai suoi familiari" (730 - 731).
Fa il nome del fratello Acasto che se è un uomo punirà l’assassino della sorella.
Admeto risponde imprecando contro il padre e la madre:
"Vai in malora tu e quella che vive in casa con te,
senza figli dovete invecchiare, come vi meritate,
pur avendone uno" (734 - 736).
Quindi esce di scena per andare a porre la salma sul rogo (740). Il coro saluta Alcesti ripetendo espressioni di stima e affetto, non senza una speranza di beatificazione:
"o nobile e di gran lunga la migliore,
addio! benigno ti accolga Ermes ctonio
e Ades. Se anche laggiù
c'è qualche vantaggio per i buoni, partecipandone
tu possa sedere accanto alla sposa di Ades" (742 - 746).

Questi versi, evocando la divinità minore che siede accanto a quella principale, come Attis a Cibele o Adone ad Afrodite, fa pensare che Alcesti in origine fosse una dea degli inferi subordinata a Persefone.

Quindi la scena si vuota ed entra un servo che recita un monologo (vv. 747 - 772) per informarci sullo strano comportamento dell'ospite nerboruto:
"molti ospiti e da ogni paese
ho già visto venire nella casa di Admeto,
e li ho serviti a tavola; ma non abbiamo mai accolto
a questo focolare un ospite peggiore di questo" (747 - 750).

Poi Eracle viene descritto con tratti buffi da commedia: si è comportato fin dal primo momento senza la delicatezza e la discrezione richieste dal lutto, e si è messo a bere vino puro di uva nera (v. 757), usanza considerata scitica o ciclopica, insomma barbarica dai Greci che erano soliti diluirlo con acqua. Perciò si è ubriacato e non ha più avuto freni:
"cinge il capo con ramoscelli di mirto
 e abbaia latrati senza musica (a[mous j uJlaktw`n); ed era possibile udire due tipi di canto: quello infatti cantava senza nessun riguardo per i mali
di Admeto, noi servi invece piangevamo
la padrona, ma non mostravamo all'ospite gli occhi
bagnati, poiché Admeto comandava così.
Ed io ora in casa servo a tavola
un ospite, un ladro capace di tutto e predone,
mentre lei è andata via dalla casa, né l'ho seguita
né le ho teso la mano levando lamenti
sulla mia padrona che per me e per tutti i servi era
madre (mhvthr): infatti ci proteggeva da infiniti mali
mitigando le ire del marito. Dunque non ho ragione
di odiare l'ospite giunto in mezzo ai mali? " (vv. 759 - 772).
Eracle è descritto come volgare, ma fra poco si rivelerà benefico, poiché non sempre la cattiva educazione formale corrisponde a una sostanza cattiva. Alcesti invece è sostanzialmente buona e fine: ha con i servi quel comportamento amichevole riservato loro dall'alta aristocrazia di tutti i tempi: da Seneca ai Guermantes di Proust.
Si ricordi la lettera 47 di Seneca. Gli schiavi sono chiamati humiles amici, contubernales, persone sulle quali la fortuna può tanto quanto può nei confronti di ogni uomo.
 Inoltre nella regina momentaneamente morta che stornava "infiniti mali" dalle teste dei servi devoti, ed era come una madre (v. 770), si possono trovare elementi superumani, forse residui di un culto dedicato a un' antica divinità, la magna mater.

Quindi Eracle entra ed espone la filosofia dell'attimo fuggente, una anticipazione del carpe diem oraziano e una specie di epicureismo prima di Epicuro:
"Tutti i mortali devono morire, (v. 782)
e non c'è nessuno degli uomini che sappia
se il giorno dopo sarà ancora in vita:
infatti non è chiaro verso dove procederà il cammino della sorte,
e non è possibile insegnarlo né si può apprendere con una tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ v. 786).

Si ricordi la confutazione delle tevcnai scoperte da Prometeo.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo. Tutte invenzioni il cui beneficio viene confutato da diversi autori: da Eschilo stesso a Leopardi, a Mary Shelley, a Svevo.


continua 

sabato 9 luglio 2016

Alcesti. VIII parte

Jacques Louis David,
Eracle torna dall'Ade riportando Alcesti al marito Admeto

Comunque catturare quelle cavalle non sarà uno scherzo. L'eroe scambia delle battute con il corifèo che lo ha incontrato davanti al palazzo:
Corifeo" Non è facile mettere il morso a quelle mascelle". (492)
Eracle"Se non spirano fuoco dalle narici"
corifeo"No, ma fanno a pezzi gli uomini con voraci mascelle"
Eracle"Cibo di bestie selvagge, non di cavalli è questo che dici"
 Corifeo "Potresti vedere le greppie intrise di sangue" (496).

Quindi entra Admeto con il capo rasato a lutto (512). Eracle ne domanda la ragione, e il re di Fere cerca di nasconderla: afferma che i figli e i genitori stanno bene; per quanto riguarda Alcesti invece dà una risposta ambigua:
"Su di lei mi è possibile fare un doppio discorso (diplou`~ mu`qo~) " v. 519
L’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”

 Eracle non è avvezzo a certe sottigliezze sofistiche e vuole una risposta concreta:
"Hai parlato di una morta o di una viva? " (520),
ma Admeto rimane in quella ambiguità che secondo Kott è il cardine della tragedia:
"C'è e non c'è più, e mi fa soffrire" (521).
L'eroe dorico replica con il buon senso:
"Non ne so più di prima: infatti dici parole oscure" ( a[shma ga; r levgei~, 522). Sono parole senza segno. Probabilmente è scritto contro la micrologica e pur ridondante ciancia dei sofisti.
Il vedovo continua a parlare per enigmi:
"E' morto chi sta per morire, e pur essendo qui non c'è più" ( v. 527),
Eracle lo confuta con quel parlare schietto del quale il re di Fere non sembra capace:
"Essere e non essere sono considerate cose diverse" (528).

Si può pensare al parricidio compiuto da Platone nei confronti di Parmenide
Nel Sofista di Platone, lo straniero di Elea chiede a Teeteto di non credere che sia diventato quasi un parricida ( Mh; me oi|on patraloivan uJpolavbh/~ givgnesqaiv tivna, 241d) se dovrà sostenere, contro il padre Parmenide, che ciò che non è, in un certo senso, è esso pure, e ciò che è, a sua volta in un certo senso non è.
Il senso è che il genere dell’essere si specifica con il genere del non essere. Lo straniero ha disobbedito a Parmenide andando molto al di là del suo divieto e ha dimostrato non solo che il non essere è (ta; mh; o[nta wJ~ e[stin ajpedeivxamen, 258d) ma anche quale sia la forma del non essere. Il non essere è il diverso e il contrapposto all’essere. Parmenide dice che non è possibile che siano le cose che non sono. Invece il diverso dall’essere, il non essere, c’è. Così l’essere a sua volta, in tanti casi non è.

 Admeto non si lascia correggere: ammette che c'è un morto, specifica che si tratta di una donna, ma alla domanda:
"Era un'estranea o una nata nella tua stirpe? ", risponde:
"estranea ma in altro modo legata alla casa" (533).
Alla domanda successiva il vedovo risponde ancora con una mezza verità per nasconderla intera:
"Mortole il padre, era allevata qui come orfana" (535).
Sentendo che si tratta di un lutto domestico, Eracle propone di andarsene:
"mi metterò per via verso il focolare di altri ospiti" (538), ma il re non lo consente, e anzi, per tagliare corto, dà un primo segno di oblio nei confronti della morta:
" Sono morti i morti: su entra in casa" (541).
Kott ne inferisce che Admeto cominci a dimenticare Alcesti: "Dio ha dato, Dio ha tolto".
Quindi il re decide che Eracle non può andarsene, e dà ordine a un servo di accompagnarlo nelle stanze degli ospiti:
"Non è possibile che tu vada al focolare di un altro uomo.
Fagli da guida tu aprendogli le stanze degli ospiti
appartate dal palazzo e dì agli addetti
che ci sia una gran quantità di cibo, e chiudete bene
le porte che danno nella corte principale. Non sta bene che mentre sono a banchetto/
gli ospiti sentano lamenti e si addolorino" (545 - 550).
Questi versi costituiscono un punto di sostegno per chi afferma che nella schenè (fondo di legno del palcoscenico), oltre una porta centrale ce n'erano due laterali più piccole.
Poi il corifèo chiede ragione di tanta insistenza nell'offerta dell'ospitalità con un morto in casa. Admeto difende la sua scelta con la ragione sicuramente nobile della gratitudine:
"io trovo in questo un ottimo ospite
Ogni volta che giungo all’assetata (diyivan) terra di Argo"
 ( 559 - 560).
 L’aggettivo riferito ad Argo è un epiteto esornativo che si trova nell'Iliade (IV, 171) e nella La città morta di D'Annunzio.
Admeto spiega che ha tenuto nascosta la verità all'ospite perché non se ne andasse rifiutando l'ospitalità:
"il mio tetto non sa
respingere né spregiare gli ospiti" (566 - 567).
Il rispetto degli ospiti fa parte del codice tripartito che sancisce i doveri dell’uomo greco, del greco civile.

Nelle Eumenidi, le Erinni che incalzano il matricida, lo minacciano di trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti si sono resi colpevoli verso un dio, o un ospite o hanno mancato di rispetto ai genitori (vv. 269 - 271).

Nel Terzo Stasimo (568 - 605) il Coro elogia l'ospitalità di Admeto e canta la bella natura che circonda Fere la quale fu anche nobilitata dal soggiorno di Apollo. Le ultime parole costituiscono una benedizione del carattere di Admeto:
"Il nobile
è portato al rispetto. To; ga; r eujgene; ~ - ejkfevretai pro; ~ aijdw`.
Nei buoni c'è fior di saggezza. Sono preso da ammirazione:
nel mio cuore risiede la certezza
che l'uomo pio otterrà il riconoscimento divino" (600 - 605).

Il rispetto (aijdwv"), il pudore che impedisce di trasgredire le leggi morali e quelle della polis, è un valore senza il quale, diceva già Esiodo (Opere, 200), la società umana precipita negli orrori del caos.
Chi si occupa di letteratura greca non può non sentire la forza educativa di questi autori, o, per dirla con Serenus Zeitblom, il professore di lettere classiche del Doktor Faustus di T. Mann non può "far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia antica e un sentimento vivamente amoroso della bellezza, della dignità razionale dell'uomo" (p. 12).

Nel Terzo Episodio (vv. 606 - 961) assistiamo allo scontro fra Admeto e il padre Ferete.
 Kott mette in rilievo il fatto che nella tradizione comica, dalle Vespe di Aristofane a diversi drammi di Plauto, a Molière. quando si incontrano padre e figlio, è il padre a essere svergognato e ridicolizzato poiché vuole proibire al figlio ciò che ha concesso a se stesso o per gli atteggiamenti maniacali che assume;
 Euripide invece rappresenta il giovane ancora più egoista e vigliacco del vecchio: " E' dunque il figlio che viene deriso. Questo inatteso capovolgimento sembra quasi una trovata brechtiana" (Mangiare Dio, p. 124.)
Io la chiamerei piuttosto una trovata euripidea.

Viene dunque annunciato Ferete il quale" avanza con vecchio piede" (611) per portare i doni funebri alla nuora che sta per essere sepolta. L'anziano fa le condoglianze al figlio e l'elogio di Alcesti che ha salvato il marito e
"ha reso più gloriosa la vita a tutte le donne
 avendo il coraggio di compiere questa nobile azione" (623 - 624).
 Solo una donna di tale levatura eroica, conclude, è degna di essere sposata:
"io dico che tali nozze convengono
 ai mortali, altrimenti non vale la pena di sposarsi" (627 - 628).

 Ferete invero rappresenta una cultura pragmatica e valuta il matrimonio con il criterio dell'utile: una moglie come Alcesti è stata un ottimo affare.

Admeto risponde al padre con ira e disprezzo, dando un esempio classico di narcisismo, se il narcisista è colui che considera reali soltanto i propri bisogni. Egli anzi rifiuta di riconoscersi figlio di chi non ha dato la vita per lui manifestando egoismo e viltà:
"non eri davvero padre di questo corpo,
né quella che andava dicendo di avermi partorito ed era chiamata
mia madre mi partoriva, ma nato da sangue di schiavi
fui messo di nascosto sotto il seno di tua moglie.
arrivato alla prova hai dimostrato chi sei
e non credo di essere figlio tuo per natura.
Tu certo brilli tra tutti per vigliaccheria" ( diaprevpei~ ajyuciva/, vv. 636 - 642).
Anche qui Admeto dà prova di imbecillità: se lui è nato da schiavi, l’ignobile, anche biologicamente, è lui.
Sicché l'unica persona degna di essere considerata padre e madre è Alcesti:
"tu non hai voluto né osato morire
al posto di tuo figlio, ma lo avete lasciato fare a questa
donna estranea, la sola che io potrei considerare
a buon diritto madre e padre" (vv. 644 - 647).
Qui abbiamo ancora il capovolgimento dello schema usuale: non è il padre che ripudia il figlio ma è questo che ricusa i genitori.

Quindi Admeto è figlio spirituale della sola Alcesti, e Ferete non ha un erede cui potrà lasciare ricchezza di affetti e dal quale riceverà onori funebri:
"infatti io non ti seppellirò con questa mia mano:
siccome per quanto dipese da te, sono morto" (665 - 666).
Il corifèo cerca di mettere pace:
"smettetela, basta già la disgrazia presente:
o figlio, non irritare l'anima del padre!" (673 - 674).
Ma Ferete non può fare a meno di rispondere per le rime rinfacciando al figlio egoismo, vigliaccheria, irrazionalità:
"Io ti ho generato quale padrone della mia casa,
e ti ho allevato, ma non ti devo il morire per te:
infatti non ho ricevuto questa legge dagli antenati,
che i padri muoiano per i figli, e non è uso greco) novmon
 J Ellhnikovn
Per te stesso infatti, fortunato o disgraziato,
sei nato e quello che dovevi ottenere da noi, ce l'hai" (vv. 681 - 686).

Erodoto racconta novmoi diversi da quelli greci e commenta tale discrepanza scrivendo che ha fatto bene Pindaro a dire che il novmo~, la consuetudine, è regina di tutte le cose (III, 38, 4).
Nel terzo libro troviamo un episodio che afferma il valore della tolleranza. Lo riferisco poiché mi sembra uno dei più alti insegnamenti della storiografia antica. Il re Dario dunque aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oi{ tou; " goneva" katesqivousi" ( III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando forte, lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che Pindaro abbia fatto affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai").
 Il frammento di Pindaro è citato nel Gorgia (484b) di Platone da Callicle il quale invero dà alla parola novmo" il significato di legge naturale che giustifica la violenza, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza averli pagati né ricevuti in dono ("ou[te priavmeno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta; " bou'"").

Gli ultimi versi servono a sganciare l'individuo dalla stirpe e porta un'innovazione rispetto alle tragedie di Eschilo e di Sofocle dove le colpe dei padri ricadono sui figli ( rispettivamente Sette a Tebe e Antigone).
Quindi il vecchio fa un elogio della vita, quel bene supremo che Admeto avrebbe voluto sottrargli:
"Tu godi nel vedere la luce: credi che il padre non ne goda?
certo, io calcolo un lungo tempo da passare
sotto terra, mentre breve è la vita, ma dolce lo stesso" (to; de; zh`n smikrovn ahjll j o{mw~ glukuv, 691 - 693).

In queste parole, sebbene irate, si può trovare un'anticipazione di quell'ottimismo che si trova nelle Supplici euripidee e pure nell'Eracle dove Megara domanda ad Anfitrione
"hai bisogno di altro dolore o ami così la luce? ", e il vecchio risponde:

"godo di questa e amo le speranze"; allora la moglie di Eracle replica: "anch'io" (90 - 92). 


continua

mercoledì 6 luglio 2016

Alcesti. VII parte

Frederic Leighton, Heracles wrestling with Death


Nell'Eracle, Megara protegge i figli suoi e dell'eroe, minacciati dall'usurpatore Lico: "come un uccello salvo i piccoli sotto le ali" (uJpo; pteroi`~ swvzw neossou; ~ o[rni~ w{~, vv. 71 - 72 72).
Questa attenzione per i bambini, come del resto per i vecchi, anch'essi latori di pathos, e per il mondo della natura si accentuerà con l'Ellenismo.

Il bambino Eumelo però non si esaurisce nell'aspetto naturalistico: egli, come ogni personaggio euripideo è anche un ragionatore:
"o padre 411
sono state vane vane le tue nozze e non sei giunto
al termine di vecchiaia con questa.
Infatti è morta prima, e andata via tu,
madre, la casa va in rovina". 415
Un altro ragionamento lo fa il corifèo, cercando di consolare il vedovo con l'argomento dell'hoc non tibi soli.
"Admeto, è necessario sopportare questa disgrazia: 416
infatti non sei certo il primo né l'ultimo dei mortali
ad avere perso una buona moglie; renditi conto del resto
che tutti noi dobbiamo morire". 419

Quindi Admeto dà disposizioni per il funerale della moglie, degna di onori eccezionali:
rimanete qui e intanto intonate
il peana all'inesorabile dio di laggiù (423 - 424).
Il peana di solito è un canto di vittoria (cfr. Agamennone di Eschilo, vv. 246) ma qui e in Edipo re (v. 5) è una preghiera funebre, forse del resto in previsione della vittoria finale.

Admeto continua a dare disposizioni per il funerale:
"A tutti i Tessali sui quali io comando (v. 426)
ordino di associarsi al lutto per questa donna
con la chioma recisa e l'abbigliamento dei pepli neri;
e voi che aggiogate cavalli alle quadrighe e curate
i corsieri da sella, recidete con il ferro la criniera dalle cervici.
Nella città non ci sia clamore di flauti
né di lira per dodici lune intere.
Infatti non seppellirò un altro morto più amico
né migliore verso di me: è degna di onore
da parte mia poiché lei sola morì per me. (v. 434)

L'ammirazione del marito dunque dipende in gran parte dall'enorme favore ricevuto dalla donna incensurabile; più disinteressata è quella del Coro che nella prima strofe del Secondo Stasimo (vv. 435 - 475) porta avanti il processo di beatificazione raccomandando Alcesti agli dèi infernali:
"Sappia Ades il dio (v. 438)
dalla negra chioma, e quello
che siede al remo e al timone,
 il vecchio conduttore dei morti
che è di gran lunga, sì di gran lunga la migliore delle donne quella che ha trasportato sulla palude acherontea
sulla barca a due remi. (v. 444)

Nella prima antistrofe il coro propone l'eroina all'attenzione delle Muse e dei poeti:
"Molte volte i servitori delle Muse (v. 445)
ti canteranno sulla montana lira
dalle sette corde e celebrandoti negli inni senza lira,
a Sparta quando con il volgere delle stagioni
torna la festa ciclica del mese Carneo,
quando è alta la luna per tutta la notte,
e nella splendida ricca Atene.
Tale materia di canto
lasciasti morendo ai poeti (v. 453).

Queste parole esprimono un'esigenza euripidea: che i poeti cantino non solo l'eroismo maschile ma anche quello femminile. Al tempo dell'Alcesti invero l'aveva già fatto Sofocle con l'Antigone, la fanciulla tanto eroica e sublime che il ricordo di lei ci impedisce di amare qualsiasi donna vivente, ebbe a dire Shelley.
Euripide canterà l'eroismo di altre ragazze: con particolare impegno quello di Ifigenia in Aulide; ma il coro di donne corinzie della Medea nel Primo Stasimo lamenta la malevolenza storica dei poeti verso le donne (basta pensare a Esiodo e Semonide):
"Le Muse dei poeti antichi smetteranno (v. 421)
di cantare la mia malafede.
Febo infatti, il signore dei canti, non accordò al nostro spirito la voce divina della lira,
poiché avrei elevato un canto di risposta
 alla stirpe dei maschi. Una lunga epoca ha
molte cose da dire sul nostro ruolo tra i maschi (v. 427).

Il coro dell'Alcesti invece non tralascia alcuna benedizione per la sua santa:
"Oh se mi fosse consentito (v. 455)
se potessi ricondurti
alla luce dalle dimore di Ades
e dalle correnti del Cocito
con un remo adatto al fiume sotterraneo.
Tu infatti, tu sola o cara tra le donne
osasti
liberare lo sposo dall'Ade a prezzo
della tua vita. Che la terra
cada leggera su di te, o donna (kouvfa soi - cqw; n ejpavnwqe pevsoi, v. 463)
Queste ultime parole corrispondono al latino sit tibi terra levis: "e ti sia lieve il suol "leggiamo nell'Ode Per l'inclita Nice del Parini (v. 120).

Quindi il Coro minaccia Admeto di abomini se dovesse sposarsi di nuovo:
"Se lo sposo si prendesse un nuovo letto, certamente
verrebbe in odio a me e ai tuoi figli" (465).
Segue la seconda antistrofe (466 - 476) con altri elogi e benedizioni dell'impareggiabile Alcesti:
"mentre la madre non volle
per il figlio nascondere il corpo
sotto terra né il padre vecchio
quelli che lo generarono, non ebbero il coraggio di salvarlo,
gli sciagurati, pur avendo bianca la chioma.
Tu invece te ne vai
morendo nella giovinezza al posto di un giovane uomo.
Possa io incontrare una moglie
legata da simile amore, questo infatti
nella vita è un raro destino: certo con me starebbe
per tutta la vita senza dolore (a[lupo~).

Un altro elogio dell'ottima donna, fatto però dall'aspirante alle nozze con lei, Achille, pure lui un ottimo partito, si trova nell'Ifigenia in Aulide. La ragazza esprime il proposito eroico di morire per la Grecia:
"do il mio corpo per l'Ellade.
Sacrificatemi, distruggete Troia. Questo infatti è il mio monumento" (vv. 1397 - 1398).
 Il Pelide allora le fa la dichiarazione d'amore e la proposta di matrimonio
"O figlia di Agamennone, uno degli dei mi renderebbe
felice se ottenessi le tue nozze.
Invidio la Grecia per te e te per la Grecia.
Infatti hai parlato bene e in maniera degna della patria
e abbandonata la lotta con la divinità che su te prevale
hai considerato le cose buone e necessarie.
Il desiderio delle tue nozze mi invade ancora di più
considerando la tua natura: infatti sei nobile" (1404 - 1411).

 Lo stesso tipo di nobiltà manifesta Macaria negli Eraclidi, quando dice: "io vi annuncio
che sono pronta a morire per questi fratelli e per me stessa.
Infatti io non sono attaccata alla vita e ho fatto una
scoperta bellissima: lasciare la vita nella gloria" ( eujklew`~ lipei`n bivon, vv. 531 - 534).

Quindi comincia il Terzo Episodio. (476 - 567).
Entra in scena Eracle che, afferma Kott, si comporta come un soldato al bivacco. Passa di lì diretto in Tracia dove compirà l'ottava fatica:
"vado a prendere la muta dei destrieri del tracio Diomede" (483). Deve portare le cavalle antropofaghe a Euristeo il re di Tirinto (v. 491) che ha il potere di dargli ordini. Si tratta dell’VIII fatica.
 Eracle è l'eroe della razza dorica, colui che debella i mostri e porta la civiltà. In questo dramma, pur rimanendo una figura benefica, assume aspetti comici e grotteschi che forse nelle intenzioni del "maligno" Euripide, alludono alla rozzezza dei Peloponnesiaci, nemici no, poiché nell'anno della rappresentazione dell'Alcesti era ancora in vigore la pace del 446, ma incolti, maleducati sì e parecchio.
Del resto Eracle è un personaggio del mito che assume aspetti diversi: dal ragazzo giudizioso, al marito assenteista e donnaiolo, all’amico fedele.


G. B. Conte nota che ogni mito (con le sue varianti) possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno a una funzione tematica fondamentale. Ma quando un poeta utilizza un mito o un carattere mitico, egli opera attraverso una selezione, riorientando la storia nella direzione del suo testo. Viene fatto l'esempio di Eracle che è stato impiegato dai poeti come eroe civilizzatore, come maschio esuberante nelle faccende sessuali (fino al punto di diventare lo schiavo di Onfale) ma è anche un insaziabile mangiatore e un intemperante bevitore di vino; una figura tragica che impazzisce poi ammazza i figli e la moglie; il mitico progenitore dei re spartani e così via. Lo studioso procede in quella che chiama enumeratio chaotica, poi chiede: vi sareste aspettato che il sofista Prodico (come Senofonte riferisce nei suoi Memorabili II. 1. 21 - 34) avrebbe un giorno inventato una favola il cui protagonista era Eracle, ma questa volta come esempio di saggezza e autocontrollo, come paradigma di virtù morale? Prodico evidentemente ha fatto una scelta tra i vari aspetti di Eracle. Così Virgilio ha attivato alcuni lineamenti del mito a spese di altri e li ha adattati al suo testo. Sentiamo alcune parole del testo inglese di Conte: "For poets, myth is like a word contained in a dictionary: when it leaves the dictionary and enters their text, it retains only one of its possible meanings ", per i poeti il mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa lascia il dizionario ed entra nel testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati. Il Mito, continua il professore di Pisa, come una parola, deve essere modificato da declinazioni e coniugazioni per conformarsi al significato globale del discorso: la sua funzione è determinata dal contesto. Ogni poeta greco (e, a fortiori, ogni poeta latino, che inevitabilmente ha trovato se stesso confrontando una serie riccamente stratificata di varianti e adattamenti) si è sentito autorizzato a intervenire nella tradizione e ha "coniugato" liberamente il paradigma mitico.


continua 

IPPOLITO di Euripide del 428 Prima scena del prologo.

  La potenza di Cipride Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’ Ippolito : “ Pollh; me;n ejn brotoi'&...