martedì 19 luglio 2016

Alcesti. XI parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016

Quindi Eracle entra ed espone la filosofia dell'attimo fuggente, una anticipazione del carpe diem oraziano e una specie di epicureismo prima di Epicuro:
"Tutti i mortali devono morire, (v. 782)
e non c'è nessuno degli uomini che sappia
se il giorno dopo sarà ancora in vita:
infatti non è chiaro verso dove procederà il cammino della sorte,
e non è possibile insegnarlo né si può apprendere con una tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ v. 786).

Si ricordi la confutazione delle tevcnai scoperte da Prometeo.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo. Tutte invenzioni il cui beneficio viene confutato da diversi autori: da Eschilo stesso a Leopardi, a Mary Shelley, a Svevo.

La tecnica dunque e nemmeno la scienza capiscono il destino e non comprendono tante altre cose, inclusa l'anima umana.
 Questo ha ripetuto il movimento del decadentismo, ma tale sfiducia, come si vede, era già presente nei Greci.
Eracle trae queste conseguenze:
"Dunque, avendo udito e imparato queste verità da me, (v. 787)
rallegrati, bevi, calcola come tua la vita
di ogni giornata, il resto invece della sorte.
Onora in particolare la più dolce delle dèe
per i mortali: Cipride, infatti è una dea benevola" eujmenh; ~ ga; r hJ qeov~. (v. 791)

Invero né Afrodite né suo figlio Eros sono sempre divinità benefiche. Si può pensare all’Ippolito di Euripide dove la dea distrugge il protagonista che l’aveva trascurata, o alle Argonautiche.
Nel poema d Apollonio Rodio l'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn ajlginovei"", 4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta.
Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh; n fresi; n e{mbale" a[thn)", Argonautiche, 4, vv. 445 - 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità.
Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).

Le conclusioni del discorso di Eracle anticipano piuttosto un verso delle Baccanti: "il sapere non è saggezza/né pensare cose non da mortali 395 - 396):
conviene bere afferma il figlio di Alcmena e:
"siccome siamo mortali bisogna pensare da mortali" (o[nta~ de; qnhtou; ~ qnhta; kai; fronei`n crewvn, Alcesti, 799).
Una morale questa che invece contrasta con l'idea stoica già presente nel Teeteto di Platone ( oJmoivwsi~ qew`/, 176b) della doverosa "assimilazione a dio". Questa avviene attraverso una fuga dalla realtà terrena che è colma di ingiustizia.
Ma Eracle che pur va compiendo fatiche sovrumane pensa che:
"per tutti quelli gravi e accigliati
se vuoi avvalerti del giudizio mio,
la vita non è realmente vita ma una disgrazia". (ouj bivo~ ajlhqw`~ bivo~ ajlla; sumforav, 799 - 801)

E' un poco anche il motivo che si trova nel carme 5 di Catullo del quale riporto i primi versi direttamente in traduzione:
"Prendiamoci la vita, mia Lesbia e facciamo l'amore,
e le critiche dei vecchi troppo seri (rumoresque senum severiorum)
valutiamole tutte un soldo soltanto.
I soli possono cadere nel buio e tornare;
noi, una volta caduta la breve luce,
dobbiamo dormire una notte eterna".

La polemica contro "gli accigliati" è assunta in un contesto estetico letterario da Petronio in difesa dei contenuti e della "bellezza semplice" del Satyricon (132):
"quid me constricta spectatis fronte Catones
damnatisque novae simplicitatis opus? ", perché mi fissate con la fronte corrugata o Catoni e condannate la mia opera di straordinaria semplicità?
Cfr. anche i tristes obscaeni di Giovenale (II, 9).

Segue una sticomitia tra Eracle e il servo il quale, incalzato, svela quanto il re aveva cercato di tenere nascosto:
"La morta è la sposa di Admeto, ospite". 821
Questo finalmente capisce che il lutto è grave:
"Oh misero, quale compagna hai perduto!"824, e il servo lo aggrava ancora:
"Siamo morti tutti, non solo lei" (825).
Eracle, pentito di avere gozzovigliato"con il capo cinto di corone" (831 - 832), domanda al servo dove possa raggiungere Admeto. Vuole recarsi anch'egli presso il sepolcro della sposa per strapparla a Thanatos con aspra lotta, anche scendendo nel regno dei morti se necessario:
"o cuore che molto hai sopportato e mano mia" ( w\ polla; tla`sa kardiva kai; cei; r ejmhv, 837), sprona se stesso con un'apostrofe di derivazione omerica.

Odisseo nel vedere le tresche delle ancelle con i proci, dice al suo cuore: “tevtlaqi dhv, kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh~ “, Odissea, XX, 18), hai gà sopportato un male più cane.

 Questa allocuzione al cuore ha una bizzarra parodia nel Satiricon, nello stesso capitolo citato poco fa (132):

"quid dicis - inquam - omnium hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est ", cosa ne dici, faccio, vergogna degli uomini e degli dèi tutti? Infatti neppure nominarti tra le cose serie è lecito. La bizzarria di questa apostrofe è che viene indirizzata al pene languido. Poco dopo del resto Encolpio autorizza questo suo strano polemizzare ricordando i modelli classici: "Quid? non et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos suos tamquam audientes castīgant? " E che? Non litiga forse Ulisse con il suo cuore e certi personaggi tragici non se la prendono con i loro occhi come se li ascoltassero? Per Ulisse abbiamo già indicato il ventesimo canto dell'Odissea (vv. 18 e sgg.), per i tragici ovviamente si deve pensare all'Edipo re quando il figlio di Laio si accieca (v. 1270).


continua 

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