Alcesti al Teatro Greco di Siracusa, 2016 |
Quindi
Eracle entra ed espone la filosofia dell'attimo fuggente, una anticipazione del
carpe diem oraziano e una specie di epicureismo prima di Epicuro:
"Tutti i mortali devono morire, (v. 782)
e non c'è nessuno degli uomini che sappia
se il giorno dopo sarà ancora in vita:
infatti non è chiaro verso dove procederà il
cammino della sorte,
e non è possibile insegnarlo né si può
apprendere con una tecnica (oujd j aJlivsketai
tevcnh/ v. 786).
Si
ricordi la confutazione delle tevcnai scoperte da Prometeo.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo
il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la
civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai
brotoi'sin ejk Promhqevw"
(v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo. Tutte invenzioni
il cui beneficio viene confutato da diversi autori: da Eschilo stesso a
Leopardi, a Mary Shelley, a Svevo.
La
tecnica dunque e nemmeno la scienza capiscono il destino e non comprendono
tante altre cose, inclusa l'anima umana.
Questo ha ripetuto il movimento del
decadentismo, ma tale sfiducia, come si vede, era già presente nei Greci.
Eracle
trae queste conseguenze:
"Dunque, avendo udito e imparato queste verità
da me, (v. 787)
rallegrati, bevi, calcola come tua la vita
di ogni giornata, il resto invece della sorte.
Onora in particolare la più dolce delle dèe
per i mortali: Cipride, infatti è una dea
benevola" eujmenh; ~ ga; r hJ qeov~. (v. 791)
Invero
né Afrodite né suo figlio Eros sono sempre divinità benefiche. Si può pensare
all’Ippolito di Euripide dove la dea distrugge il protagonista che
l’aveva trascurata, o alle Argonautiche.
Nel
poema d Apollonio Rodio l'infelicità è connessa all'amore prima ancora che
questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato
salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole
ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn ajlginovei"",
4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e
preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore
luttuoso.
Questo
presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce
orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di
lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di
infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini
("Scevtli
j [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin")
da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si
agitano per giunta.
Ármati
contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso
nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh; n fresi; n e{mbale"
a[thn)", Argonautiche, 4, vv. 445 - 449). L'amore sembra
legato alla pena da un vincolo di necessità.
Si
ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio: “Improbe
Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Le
conclusioni del discorso di Eracle anticipano piuttosto un verso delle Baccanti:
"il sapere non è saggezza/né pensare cose non da mortali 395 - 396):
conviene
bere afferma il figlio di Alcmena e:
"siccome siamo mortali bisogna pensare
da mortali" (o[nta~ de; qnhtou; ~ qnhta; kai; fronei`n crewvn, Alcesti, 799).
Una
morale questa che invece contrasta con l'idea stoica già presente nel Teeteto
di Platone ( oJmoivwsi~
qew`/, 176b) della doverosa "assimilazione a dio". Questa
avviene attraverso una fuga dalla realtà terrena che è colma di ingiustizia.
Ma
Eracle che pur va compiendo fatiche sovrumane pensa che:
"per tutti quelli gravi e accigliati
se vuoi avvalerti del giudizio mio,
la vita non è realmente vita ma una disgrazia".
(ouj bivo~
ajlhqw`~ bivo~ ajlla; sumforav, 799 - 801)
E' un
poco anche il motivo che si trova nel carme 5 di Catullo del quale riporto i primi versi direttamente in traduzione:
"Prendiamoci la vita, mia Lesbia e facciamo l'amore,
e le critiche dei
vecchi troppo seri (rumoresque senum
severiorum)
valutiamole tutte
un soldo soltanto.
I soli possono
cadere nel buio e tornare;
noi, una volta
caduta la breve luce,
dobbiamo dormire
una notte eterna".
La polemica contro "gli
accigliati" è assunta in un contesto estetico letterario da Petronio in difesa dei contenuti e
della "bellezza semplice" del Satyricon (132):
"quid
me constricta spectatis fronte Catones
damnatisque
novae simplicitatis opus? ",
perché mi fissate con la fronte corrugata o Catoni e condannate la mia opera di
straordinaria semplicità?
Cfr. anche i tristes obscaeni di Giovenale (II, 9).
Segue una sticomitia tra Eracle e il servo
il quale, incalzato, svela quanto il re aveva cercato di tenere nascosto:
"La morta è la sposa di Admeto, ospite". 821
Questo finalmente capisce che il lutto è
grave:
"Oh misero, quale compagna hai perduto!"824, e il servo lo
aggrava ancora:
"Siamo morti tutti, non solo lei" (825).
Eracle, pentito di avere
gozzovigliato"con il capo cinto di
corone" (831 - 832), domanda al servo dove possa raggiungere Admeto.
Vuole recarsi anch'egli presso il sepolcro della sposa per strapparla a
Thanatos con aspra lotta, anche scendendo nel regno dei morti se necessario:
"o cuore che molto hai sopportato e mano mia" ( w\ polla; tla`sa
kardiva kai; cei; r ejmhv, 837),
sprona se stesso con un'apostrofe di derivazione omerica.
Odisseo nel vedere le tresche delle ancelle
con i proci, dice al suo cuore: “tevtlaqi dhv, kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh~ “, Odissea, XX, 18), hai gà sopportato un male più
cane.
Questa allocuzione al cuore ha una bizzarra
parodia nel Satiricon, nello stesso capitolo citato poco fa (132):
"quid dicis - inquam - omnium
hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est ",
cosa ne dici, faccio, vergogna degli uomini e degli dèi tutti? Infatti neppure
nominarti tra le cose serie è lecito. La bizzarria di questa apostrofe è che
viene indirizzata al pene languido. Poco dopo del resto Encolpio autorizza
questo suo strano polemizzare ricordando i modelli classici: "Quid? non
et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos suos tamquam
audientes castīgant? " E che? Non litiga forse Ulisse con il suo cuore e certi
personaggi tragici non se la prendono con i loro occhi come se li ascoltassero?
Per Ulisse abbiamo già indicato il ventesimo canto dell'Odissea (vv. 18
e sgg.), per i tragici ovviamente si deve pensare all'Edipo re quando il
figlio di Laio si accieca (v. 1270).
continua
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