sabato 29 febbraio 2020

La Nemesi




Titolo del quotidiano “la Repubblica” del 29 febbraio:
“L’epidemia colpisce l’auto: salta il salone di Ginevra” (p. 6).
A me sembra la nemesi o il contrappasso rispetto alle tante persone. pedoni e ciclisti, colpite dall’auto.
Le automobili fanno più morti di un virus cattivo e, se ce ne saranno meno in giro, calerà anche il numero degli uccisi, mutilati, feriti da chi guida l’automobile colpendo chi capita quasi sempre impunemente.
giovanni ghiselli

Le parole inintellegibili dei conduttori dei telegiornali



I titoli dei telegiornali vengono letti con una pronuncia  e una fretta tali che rendono indistinguibili e incomprensibili molte parole. Questo avviene non solo per ignoranza della dizione corretta, ma anche perché è stato ordinato ai conduttori di velare con tale nebulosità fonica le menzogne annunciate e magari anche per legare gli ascoltatori a quel notiziario con la speranza di capire qualche cosa durante i servizi.
Oppure, viceversa, per farli scappare e non ascoltare le immagini e le parole seguenti meno confuse e  talora meno false.  
Decidete voi qual è la risposta a questo dilemma e quale sia la causa più vera di tanta mancanza di pudore e di rispetto per chi vorrebbe essere informato
giovanni ghiselli.

venerdì 28 febbraio 2020

Controcanto


La rumorosa chiacchiera al contempo prepotente e servile, quella dei ciarlatani che, saliti alla ribalta, non si lasciano interrompere da alcuna obiezione, cerca invano d nascondere nullità culturale, morale, politica, mentre, viceversa, evidenzia la maleducazione, l'incompetenza, la malizia ingannevole del politico e del giornalista sfrenatamente loquace. Non condivido nessuna idea di Sallusti ma ne riconosco la qualità stilistica assai diversa, in meglio, dalla rozzezza di siffatta canaglia.

Elena. Parte 16. Il tuono alato di Zeus annuncia la gioia. L’ammiccamento di Priapo

Traversa, Ginestra ad alberello
Il tuono alato di Zeus annuncia la gioia. L’ammiccamento di Priapo

Arrivato nella piazza dell’ospedale universitario, Orvostudományegyetem, era già imbarazzante la scritta sul frontone della facciata principale, udii un tuono alato di Zeus che aprì il cielo del tutto e vidi Elena proprio io, con gli occhi miei[1], mentre con il suo incedere elegante si avvicinava al grande cancello d’ingresso: la candida veste e l’incarnato bianchissimo risplendevano al sole che, annunciato poco prima da Iride, la grande sciarpa multicolore del cielo, e sviluppatosi completamente dalla bruma innaturale in quella stagione, dalle nuvole oscene, con la sua luce piena, eroica, restituiva i colori e significati buoni alle persone e alle cose.
La metamorfosi di Debrecen nella città dei Cimmeri coperti di nebbie e di nubi, si era ribaltata, e il grande bosco era tornato a essere la divina foresta spessa e viva del mio paradiso terrestre.
La luce donava il proprio valore a tutte cose, rendeva piena di significato anche l’ombra.
La caligine del mio  angoscioso disgusto era stata vinta dalla luce possente della fulgida estate tornata a confortare la terra.  
A me mostrava il bene massimo: la donna mia che camminando faceva danzare i raggi del sole mentre la illuminavano tutta.
La sua carne vibrava di luce, la potenziava magicamente, la moltiplicava.
Il cielo mi appariva di limpidezza translucida. Nelle aiuole ardevano fiori d’oro. Frusciavano liete le fronde del bosco, non si udivano più strillare uccelli sinistri.
I capelli corvini dalle iridescenze ultraterrene screziavano la pelle e il vestito di Elena con pennellate luminose, come l’ombra meridiana degli alberi variegava il verde vivo dell’erba di chiazze dense, scure, brillanti.
I binari del tram riverberavano i dardi festosi del sole.
Tutto sfolgorava di bellezza e di gioia, tutto imprimeva un moto allegro e vivace al mio sangue che pulsava rinato nelle vene del corpo e della mente resuscitata. Lucidi torrenti scorrevano fuori e dentro di me.
Ogni cosa era più viva, più bella, più ricca di segni divini.
Il sole, amico della bellezza, donava gocce d’oro, e aveva fatto fuggire nelle caverne le orrende creature della notte. La felicità aveva restituito alla madre terra le sue trecce verdi, le sue mammelle ubertose, a me la forza, la bellezza e la grazia di rinascita voluta da Dio. Ogni deformità era sparita.
La natura si riapriva, pullulava di vita.

Raggiunsi l’amabile amata e le chiesi se potevo aiutarla.
Il petto le sfavillava e fluttuava ad ogni passo, immillando i sorrisi del sole.
Rispose direttamente e con nobile semplicità “sì, certo”, non senza un lieve sorriso di gratitudine, poi spiegò che si era mossa da sola perché dopo le ore di scuola non mi aveva visto arrivare, ma sperava che l’avrei raggiunta presto: continuava a pensare che il mio aiuto le sarebbe stato prezioso.
“Avrei voluto portarti una collana di fiori freschi raccolti da un prato immacolato del sottobosco sfiorato dal sole e intrecciati  con queste mie mani che pero mi tremavano troppo per la paura di non trovarti.
Del resto il fiore supremo, il più desiderato e difficile a cogliere sei tu”,
Elena rendeva lucida e profumata l’aria del mezzogiorno estivo con i suoi sospiri. Dopo gli occhi che l’avevano vista da lontano, ora ne gioiva, da vicino, l’olfatto. “Di dolcissimo odor mandi un profumo che il mio cuore consola[2]”, pensai
Le dissi che l’avevo aspettata sul prato che separa e unisce i collegi, poi l’avevo cercata con una certa apprensione, ed ero felice di averla trovata e di potere aiutarla. Avevo un’aria da uomo pio, protettivo, quasi paterno.
Aggiunsi che non poteva avere alcun morbo, in quanto la malattia è cancro della bellezza e la sua risplendeva priva di macchie.
Così entrammo insieme, prima nel giardino del complesso ospedaliero, poi nella “Clinica delle donne pregnanti e malate” dove un medico nero la visitò, poi ci disse in ungherese che la signora aspettava un bambino.
Disse anche “ambulantia” che significa “ambulatorio”, ma Elena credette che significasse “autoambulanza” a mi supplicò di portarla con l’automobile mia. Glielo assicurai, con un tono di mondana leggerezza, senza chiarire l’equivoco perché mi sembrava inutile, e pure, a dire il vero che non mi fa onore, per aumentare l’importanza del soccorso mio. Residui di calcolo poco nobile, da affarista. L'equivocazione ogni tanto riaffiorava dalla zona gesuitica della mia psiche.
Aggiunsi pure una battuta: “ti pare che potrei non darti un passaggio? Per te attraverserei a nuoto l’Ellesponto come Leandro, e senza affogare. Tu mi dai la forza della vita”. Sorrise compiaciuta
La nostra intesa aumentò.
La bella donna, aperte le braccia con lieto sembiante, mi baciò due volte la faccia.
Mentre uscivamo, osservai una statua situata vicino all’ingresso. Non so quale luminare della medicina di Debrecen rappresentasse, ma la interpretai come un’immagine del dio Priapo, un dio davvero grande e importante[3], che ammiccava lascivo rasentando la malizia e alludendo a una sorta di complicità. Accipio omen gli dissi con aria da maschio vicino al trionfo, protetto da tanto nume. Sentivo che Cloto aveva impiegato fili forti per tessere la trama della mia vita.

giovanni ghiselli

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[1] Cfr Satyricon, 48, 8 "nam Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: "Sivbulla tiv qevlei"; " respondebat illa: " jApoqanei'n qevlw". Infatti la Sibilla di sicuro a Cuma l'ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli: 'Sibilla, cosa vuoi? ' rispondeva lei. 'morire voglio'.
[2] Cfr. Leopardi, La ginestra, 36-37.
[3] E’ il dio dell’erezione, per chi ancora non lo sapesse e invece di pregarlo dalla mattina alla sera, prende il viagra, vergognosamente. L’ira santa di Priapo colpisce questi farabutti snervati

Il virus versatile (raccolta di pensieri)

Anonimo, Il Trionfo della Morte
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23/02/2020
Il virus versatile
Odisseo è poluvtropo", Ulisse è versutus.
Anche la sventura è versatile (Apollonio, Argonautiche III, 600- a[thn poluvtropon) anche il virus recente lo è. La direzione finale però, è volta a Itaca, al ritorno nel luogo da dove siamo venuti.
E’ la meta che dobbiamo ritrovare con un impiego di fatiche, di errori, sbagli e peregrinazioni, di successi e insuccessi. Abbiamo adoperato tutto quello che avevamo dentro in partenza per giungere al traguardo di questo ajgw;n mevgisto", ajgw;n deinov" che è la vita.
I Lestrigoni non li troverai se non li porti dentro.
Baci e salute ai buoni!
Gianni

24/02/2020
Il virus è capriccioso: salta ora qua ora là
Nell’esodo delle Troiane di Euripide Ecuba considera stupido chi si lascia andare alla gioia poiché la buona fortuna è comunque e sempre provvisoria:
“Stolto tra i mortali è chi credendo di stare bene
senza mai scivolare, gioisce (caivrei): infatti le sorti con le loro maniere - toi'" trovpoi" ga;r aiJ tuvcai - come un uomo capriccioso, saltano ora qua ora là - a[llot j a[llose - pedw'si - , e nessuna persona rimane mai sempre lei fortunata koujdei;" aujto;" eujtucei' pote (1203 - 1206).
Maniere versatili appunto e i versi sono vari.

25/02/2020
Ancora sul virus. De consolatione innocentiae
Quando arrivano le catastrofi, dai terremoti alle pandemie, molti pensano all’ira di Dio per le nostre malefatte. Tra gli umani che credono questo però, certuni possono confortarsi ricordando quanto i fedeli di Iside dicono a proposito di Lucio che, restituito a se stesso, ha meritato la beatitudine
“Felix hercules et ter beatus qui vitae scilicet praecedenti innocentia fideque meruerit tam praeclarum de caelo patrocinium”-
L’efficace protezione celeste dunque si merita innocentia fideque, con il non avere fatto del male e non avere ingannato negli anni passati. Le raccomandazioni terrestri in questi casi non sono efficaci.
Gianni

26/02/2020
Ifigenia, i sacrifici umani e il corona virus
Ifigenia fra i Tauri di Euripide. Secondo episodio 467-642
Ifigenia chiede di slegare gli stranieri sacri alla dea. Non sa chi siano e a chi la loro morte arrecherà dolore: “pavnta ga;r ta; tw`n qew`n-ej~ ajfane;~- e{rpei koujde;n oi\d j oujdei;" safev" tutte le cose degli dèi infatti procedono verso l’oscurità e nessuno sa nulla di certo. (476-477)

26/02/2020
Il contagio inventato in una tragedia di Euripide
Ifigenia fra i Tauri di Euripide: che tutti restino in casa
Ifigenia si inventa un’infezione contagiosa affinché la propria fuga dalla Tauride con il fratello Oreste e il cugino Pilade possa avere successo.
Dunque ordina al re Toante di mandare in città qualcuno che prescriva “ejn dovmoi" mivmnein a[panta"” (Ifigenia fra i Tauri, 1210), che tutti restino in casa
Toante domanda se questo è necessario per non imbattersi nel contagio.
La principessa greca, divenuta custode del tempio Artemide e addetta ai sacrifici umani, risponde: “Musara; ga;r ta; toiavd j ejstiv” (1211) sì perché tali circostanze sono infette.
Quindi Ifigenia ripete l’ordine per i cittadini ejkpodw;n tou'd j e[cein miavsmato" (1226) di tenersi alla larga da questo contagio.
Ma è una menzogna. Una scusa per avere la possibilità di fuggire dal luogo inameno e barbaro dove si trovava e dove il re innamorato di lei voleva trattenerla.

26/02/2020
Sono ingannevoli le purificazioni?
Ancora Euripide: il messo riferisce a Toantte: dovlia d j h\n kaqavrmata (Ifigenia fra i Tauri, 1316), ingannevoli erano le purificazioni.
E’ così anche oggi? Probabilmente no, tuttavia ripetitive, noiose, spesso contraddittorie e pure reticenti sono le informazioni mediatiche e le chiacchiere di commento che sentiamo sul virus dalla mattina alla notte senza interruzione. Molti parlano e straparlano di tutto quanto riguarda il morbo senza saperne niente.
Baci gianni

27/02/2020
Meno male che il virus ammazza solo i vecchi! parole dei media
Abominevole è la sistematica precisazione che i morti per corona virus erano già vecchi e malati. Quasi un bene: meno pensioni da pagare.
I giovani, invece, per fortuna, guariscono sempre tutti. E la loro vita certo vale di più, siccome costa di meno, dato che lavorano quasi gratis. Manca il pudore, la vergogna di tali feroci bestialità. Lo dico da vecchio, da vecchio umano e amantissimo della vita, tanto che scalo in bicicletta salite dure come San Luca e lunghe come lo Stelvio, il Parnaso e il Taigeto.
Saluti
giovanni ghiselli

27/02/2020
La prospettiva dell’economia annienta quella della carità
Due canti di orrore
Nel prologo dell’Alcesti di Euripide, Thanatos dalle ali neri accusa Apollo che vuole sottrarre il re Admeto alla Morte. Rinfaccia al dio di stabilire una legge in favore degli abbienti: “pro;" tw'n ejcovntwn, Foi'be, to;n novmon tivqh"” (v. 57).
I media invece apprezzano il virus che stabilisce regole sfavorevoli ai vecchi malati.


27/02/2020
La genesi del virus da Sofocle a T. S. Eliot
C’è un filone nella letteratura europea, da quella antica alla moderna, che attribuisce a un mivasma [1], una contaminazione, scatenata dalle malefatte degli uomini la peste odiosissima - loimo;" e[cqisto" [2] - che rende desolata una regione.
Che ne dite? Sofocle, T. S. Eliot e gli altri sono impazziti di nuovo [3]?

[1] Sofocle, Edipo re, 97 mivasma cwvra", contagio della regione
[2] Sofocle, Edipo re, 28.
[3] Hieronymo’s mad again, T. S. Eliot The Waste Land, 431. In questo contesto Geronimo può essere inteso come il grande frate di san Marco bruciato vivo il 23 maggio del 1498 pochi giorni prima dell’insediamento di Machiavelli come segretario della seconda cancelleria della repubblica soderiniana.

27/02/2020
La causa più vera ma meno chiarita a parole[1]
Sentiamo qual è la causa più vera, ma meno chiarita a parole secondo Ganimede, uno dei liberti presenti nel mostruoso cenone del Satyricon:
"Ego puto omnia illa a diibus fieri. nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17-18)
Io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati.

[1] ajlhqestavthn provfasin, ajfanestavthn de; lovgw/ (Tucidide, I, 23, 6, a proposito della uerra del Peloponneso).

28/02/2020
Siamo tutti mortali
Noi tutti su questa terra siamo mortali. Abbiamo a disposizione un passaggio assai breve. Dunque è vero che noi vecchi siamo solo dei morti non ancora entrati in funzione, ma questa definizione, di un realismo crudele, riguarda tutti noi poveri mortali appunto. Le distinzioni fasulle non rendono immortale nessuno.

giovedì 27 febbraio 2020

Elena. Parte 15. Altre immagini orrende. Mi vidi scuoiato come San Bartolomeo. La reazione

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Altre immagini orrende. Mi vidi scuoiato come San Bartolomeo. La reazione

In quella non sacra oscurità ronzavano zanzare assetate, ubique, sifoni abietti, che miravano a riempirsi di sangue. Scorpioni raccapriccianti riempivano il mio scalzo cammino drizzando minacciosi le chele letali.
Il lucus della gioia radiosa e della speranza si era mutato in un bosco sconsacrato, divenuto il luogo nebbioso dello sconforto e della disperazione. L’orrida selva fremeva presagi esiziali. Dai suoi stagni di acqua marcita, coperta di schiuma schifosa, provenivano aliti fetidi e soffocanti.
Lugubri gufi facevano lunghi, paurosi lamenti da quegli alberi strani.
Upupe immonde con luttuoso singulto annunciavano la fine dell’amore che avrebbe potenziato la mia vita per sempre. Civette obese e ripugnanti lanciavano annunci interminati di un’apocalisse vicina.
Altri suoni malaugurosi venivano da orribili sistri rosi dalla ruggine, agitati da mani sinistre. L’inferno doveva essere rimasto vuoto poiché tutti i suoi demoni avevano riempito il grande bosco di Debrecen.

Provai ad alzare il viso al cielo scomparso, ma brutte forme di sogno volteggiavano opache davanti ai miei occhi atterriti.
Il mondo, colpito da infezione diffusa, si presentava sconciato e degradato in uno squallore abominevole, trasformato in un guazzabuglio che negava l’amore e la vita.
Il cosmo mi chiudeva le porte. Si aprivano quelle infernali del caos cieco che se mi avesse sottratto Elena avrebbe compiuto il suo capolavoro. Da quella ianua inferni traspariva l’antimondo tetro e sinistro della morte.
Vedevo l’interno della mia tomba con il mio cadavere già decomposto.
Gli occhi erano buchi neri, le ossa rami secchi e fratturati: la mia persona, ben tenuta con cura durante gli ultimi anni di mia vita mortale, non si era mutata in nulla di prezioso e raro.
Apparve draco ille magnus , serpens anticuus, qui vocatur Diabolus et Satanas - oj kalouvmeno" Diavbolo" kai; oJ Satanav"[1]. Si mise a fischiare, poi  , fuori di sé cercava di fendermi il collo sotto l’orecchio gridando “bestiaccia, bestiaccia!”. Infine sogghignò e disse: “buon giorno!”
Corsì ai gabinetti per guardarmi allo specchio e vidi l’immagine più orrenda di tutte: me stesso scuoiato con un coltello nella mano sinistra e la pelle, la vagina delle membra mie, nella destra come il San Bartolomeo del Giudizio Universale dove Michelangelo ha raffigurato se stesso per significare la repulsa della propria identità terrena. Ma lo spellato deforme che vedevo nello specchio ero io.
Stavo per svenire, ma cercai di reagire. Non dovevo darla vinta a Satana.
Pensai che questo dramma, in quanto tale doveva essere agito[2],, non solo sofferto da me. L’etimologia mi aveva dato una spinta, mi aveva aiutato, come già altre volte. Tornai sul prato della sventura ma non vi restai: decisi che non dovevo tornare a sedermi su quell’erba sciagurata a soffrire, che dovevo allontanarmi da quel luogo del tutto inameno: il compito assegnatomi dal destino era cercare e ritrovare la bella donna, la sola creatura capace di illuminare la vita del mondo, renderle tutti i colori, di restituirmi al gianni che volevo diventare facendomi tornare nella mia pelle rinnovata e rigenerata. Un aiuto in questo senso me lo aveva dato già Fulvio nel 1966 quando arrivai a Debrecen scuoiato da gente cattiva di Pesaro e di Bologna. Già allora cambiai pelle e costumi. dovevo farlo di nuovo se Elena mi aiutava
Sentivo la necessità di contrapporre alle visioni infernali che mi opprimevano, il volto santo e il corpo immacolato, reale di Elena.

Era necessario che andassi a cercarla per confutare la deformità che mi aveva assalito, o per confermarla. Lo avrebbe deciso lei. Dovevo ritrovare e riaprire la ianua caeli, la porta del cielo e della realtà. Elena poteva restaurare la mia mente disfatta, rilegare il mio animo morso e rimorso dai tormenti come un libro mangiato dalle tarme.
Era arrivato il momento della rivolta: di dire “no!” al quel rimuginare doloroso, maniacale. Ne avrai le scatole piene anche tu, caro lettore.
“Io oramai vengo chiamato dal destino” mi dissi sentendomi un eroe tragico, quindi sollevai la testa dal gorgo degli affanni, mi alzai di scatto dal prato dell’acciecamento e scappai via senza nemmeno salutare i compagni vestiti di nebbia folta e grossa: prima corsi verso il collegio numero uno fino alla porta di camera sua dove bussai ripetutamente con mani frenetiche, invano; poi, invece di fermarmi a intonare un paraklausivquron3, mi diedi a correre in direzione delle cliniche universitarie, che comprendevano il reparto delle “donne pregnanti e malate”, com’era scritto sopra l’ingresso dell’istituto già visitato e osservato con cura durante un prolungato intervallo tra le lezioni di lingua ungherese che mi importavano molto meno di quella femmina finnica, non per lascivia e dissolutezza, ma poiché sapevo che l’idioma magiaro avrebbe avuto un’importanza minore dell’amore di lei riguardo alla mia crescita umana e ai bisogni del demone mio, scelto a suo tempo da me. Un’elezione che non potevo tradire.

La clinica non era lontana dal nostro collegio e si poteva raggiungere facilmente pure a piedi, ma vi lavoravano medici strani: era insomma un ambiente dove la bella donna, forse già in quel momento, sottostava a una visita imbarazzante, per giunta senza potersi spiegare con il ginecologo asiatico o africano, che magari era bravo e gentile, ma, se non sapeva parlare inglese né finlandese, le avrebbe fatto domande incomprensibili, mentre le palpeggiava il bianchissimo ventre con mani nere oppure olivastre.
“Certo”, pensavo, “se i dottori neri, o gialli, o bianchi, parlano solo ungherese o altre lingue da lei sconosciute, Elena avrà bisogno di aiuto”.
Rimuginando, correvo lungo i binari del tram resi scivolosi da una pioggerella viscida.
Ne ero innamorato; del resto le avevo promesso che l’avrei accompagnata in ospedale per aiutarla, perciò l’avrei fatto anche se mi fosse stata indifferente o nemica.
Che cosa speravo realmente? Che fosse incinta davvero, che abortisse, che venisse in Italia con me?
Non lo so. Col tempo, tanto tempo, ho capito che la sua funzione “storica” nei miei confronti era nutrirmi lo spirito per il tempo veloce e prezioso di un mese scarso, e accrescere la mia autostima con le qualità non comuni di cui l’avevano dotata benignamente gli dèi. Perché ne facesse dono a me.
Correvo e mi ponevo domande: “Elena deve donarmi il corpo e l’anima sua. E io come la contraccambio? ” Mi davo anche delle risposte: “Intanto oggi l’aiuto a spiegarsi con il ginecologo senegalese o vietnamita o uzbeko, e le faccio sentire la mia solidarietà, poi magari la renderò immortale raccontando questa storia nobile e bella di aiuto reciproco. Ci metterò la verità e la bellezza necessarie l’arte”.


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[1] Cfr. Giovanni, Apocalisse, 12, 9.
[2] dra'ma da dravw “agisco”.
[3] Lamento davanti alla porta chiusa.

mercoledì 26 febbraio 2020

Tra Wagner e Verdi, non mettere Bellini! di Giuseppe Moscatt


Tra Wagner e Verdi, non mettere Bellini!
di Giuseppe Moscatt

In un nostro precedente intervento sul viaggio di Wagner in Sicilia - pubblicato su questo giornale il 18 novembre - avevamo segnalato come il vate tedesco aveva intrapreso, sulla via di Goethe, un viaggio nella terra dei limoni per superare la crisi creativa che lo aveva afflitto dopo “I maestri Cantori di Norimberga” e “Il Tristano e Isotta”, che per la prima volta non lo avevano soddisfatto , anche alla luce delle polemiche con la scuola verdiana fin dal 1867, quando erano state finalmente introdotte in lingua italiana proprio a Bologna, terra verdiana per eccellenza. Abbiamo anche ricordato come la Sicilia era stata la “location” di un'opera quasi dimenticata, “Il divieto di amare”, la cui stesura lo impegnò fra il 1834 e il 1836, con esiti non proprio favorevoli per il giovane musicista di Lipsia. Mentre Verdi stava ancora al Conservatorio di Milano, poco più che trentenne, a comporre la sua prima opera, l' “Oberto", Wagner pendolava fra Magdeburgo e Würzburg, dove nei vari teatri di corte fungeva da modesto maestro di cappella, cosa che gli permise di conoscere più da vicino il repertorio melodrammatico italiano. In particolare, conobbe l'arte di Bellini, notoriamente legata allo spirito romantico dell'epoca e al quale rimase fedele per sempre.

Robert Gutman, uno dei maggiori biografi di Wagner, ci dice che durante il soggiorno a Würzburg aveva apprezzato positivamente la figura di Romeo de "I Capuleti e i Montecchi" del Bellini, qualificando quest'opera come toccante e che gli fece intendere che la composizione de “Il divieto di amare”, che stava approntando, doveva abbandonare la tradizionale orchestrazione prevalente di stampo bachiano, per conferire al cantante un vero e proprio oceano sonoro, abbracciando la sensuale cadenza del maestro italiano. E di Bellini Wagner aveva già un ottimo giudizio quando già nella prima opera del 1831 - "Le fate" - nelle fasi conclusive aveva già espresso con archi melodici coinvolgenti un notevole concentrato di lirismo che forse aveva maturato nelle taverne di Würzburg, quando nelle sue ore libere dal servile lavoro di maestro di cappella, si era sorpreso del sentimento romantico presente nelle canzonette italiane che risuonavano la sera durante le sue cene solitarie. Nondimeno, la passione immutata per Bellini riemerse nel suo diario di viaggio in Italia, quando nel 1876, nel viaggio di ritorno dopo la parentesi siciliana che sappiamo, volle fermarsi con la famiglia a Napoli per incontrare al Conservatorio tracce di Bellini, sia per sfatare la leggenda del suo disprezzo per la musica italiana contemporanea, sia per confermare quell'amore di gioventù mai represso. Wagner aveva fatto per il suo maestro e amico von Weber. L'incontro è narrato dallo stesso Richard, non senza enfasi nell'episodio dell'abbraccio col Filoramo, splendido ottantenne, al grido di “Bellini! Bellini", dove l'emozione dei due superò le false notizie di ruggine e diffidenze indifferenziate del vate tedesco per la scuola lirica italiana.
Bellini
Incontrò qui Francesco Filoramo, che proprio in quell'anno aveva traslato da Parigi a Catania le spoglie di Bellini, quasi ripetendo quello che il
Ma occorre ora dire che la polemica di Wagner aveva avuto come unico interlocutore Giuseppe Verdi, altrettanto critico del collega. Sappiamo della roventi battaglie di stampa, che oggi però giudichiamo piuttosto provinciali, dopo la prima esecuzione in Italia del “Lohengrin” nel 1871, avvenuta a Bologna, città che non aveva visto alcuna prima delle sue opere. A leggere il successivo pamphlet sui rapporti tra i due giganti - scritto dal Conte Gino Monaldo in una città, Roma nel 1887, dove ormai la querelle andava a stemperarsi - si sottolineò a favore del Wagner che la sua arte era stata alquanto originale per lo spirito metafisico che la impregnava, in armonia sia allo spirito classico e agli usi e costumi di quel popolo, nonché al clima cupo di quella nazione. Forse - continua il Monaldi - la tendenza di quel pubblico allo sbadiglio, la sua resistenza non assoluta alla teatralità imponente della trilogia, lo fecero apprezzare soltanto agli intellettuali stanchi di contrasti sociali che entusiasmavano il pubblico verdiano, dove il dolore d'amore di Violetta, l'offesa al senso paterno di Rigoletto, perfino la drammaticità della guerra de "Il trovatore" e de “La forza del destino" sembravano le circostanze contestuali che le rendevano ormai distanti dal sentimentalismo mediterraneo, ritornato nel quotidiano borghese dell'Italia umbertina. Il lungo silenzio creativo di Verdi fra l' "Aida" (1871) e l' "Otello" (1887), fu visto come un effetto del calo di consensi sul maestro di Busseto, pervenuto forse ad un compromesso creativo con quest'ultimo capolavoro e replicato poi dal “Falstaff” nel 1893. Queste ultime scelte, vennero valutate ben presto come una fase di semplice mediazione rispetto alle grandi opere del passato, quasi un cedimento a favore di quella musica oggettiva propagandata dai fautori di Wagner, più che da Wagner stesso, primo fra tutti il Boito, discepolo sì di Verdi, ma caldissimo introduttore e pretenzioso mediatore fra i due geni. Eppure, la tendenza della musica a divenire più dissonante e a superare la consonanza armonica romantica, era figlia dell'inquietudine storica maturata in tutte le arti di fine '800, come lo provavano la filosofia di Nietzsche, le poesie di D'Annunzio, la sociologia di un Weber e la letteratura di un Mann, fino all'espressionismo culturale di primo '900, con Freud in testa. Insomma, questi ultimi esponenti della cultura a cavallo fra l'800 e il '900, ebbero il coraggio di differenziare, ma non di contrapporre rigidamente i due grandi maestri della musica. Wagner, sulla base di un'idea fissa di rilancio della fantasia e dell'irrequietezza tutta romantica, conquistava l'inesplorato e l'ignoto dell'universo musicale, Verdi invece risaliva alla storia e viveva il suo tempo di contrasti e speranze ormai disilluse nell'età della belle epoque. L'uno nevrotico e creativo, col suo io al centro, le sue paure e le sue poche certezze, vivendo alla giornata e saltando da un lato all'altro delle barricate - anche letteralmente, quando cioè combatté con i democratici a Dresda nel 1848 e poi negli anni successivi scrivendo e guadagnando la fiducia dello schizoide Luigi di Baviera, acquistando credito fra le mure di Bayreuth e attirandosi le ire del suo discepolo Nietzsche, esempio del figlio che odia il padre e ama la madre, qui nel caso la moglie di Richard, Cosima Liszt.
E Verdi, invece, lungi dal raggiungere la pace dei sentimenti, li esasperava nelle opere di mezzo secolo - “Aida", "Simon Boccanegra", "Don Carlos”- tutte legate ai profondi sconvolgimenti socio-culturali dell'Italia che andava a unificarsi politicamente ed economicamente sotto una borghesia non ancora maturata come classe dirigente unitaria, slegata dalla tutela temporale, piuttosto conservatrice e poco liberale, ma alquanto intrisa di reazionarismo culturale. E Bellini? Rimase relegato dalla cultura nazionalista nella “nicchia provinciale dove stava tutto solo”, come ebbero a dire Pizzetti e Papini in pieno Futurismo nel 1916 e come ribadì sostanzialmente Mila negli anni del secondo dopoguerra. Soltanto dopo il '68 si è visto un risorgere internazionale del nostro Cigno, una rinascita culturale favorita dal cinema - ricordate le splendide monografie cinematografiche di Carmine Gallone già nel periodo fascista - mentre le voci straordinarie della Callas, di Del Monaco, fino a Pavarotti per non parlare di Domingo e Carreras tornarono a incantare il pubblico locale e internazionale. Ci volle l'analisi spregiudicata degli anni della Camerata di Milano a risuscitare la figura internazionale di Bellini - e di Donizetti, altro sconosciuto autore contemporaneo di Vincenzo - per riscoprire un passo sconosciuto del giovane Wagner dove si afferma che “la musica di Bellini è strettamente legata al testo”, e dunque ritrovare nel binomio col librettista Felice Romani il forte lirismo dei dialoghi strettamente connessi alla musica, pilotata dal recitativo imperante, che richiamava contenuti poetici densi di richiami classici, di forte individualismo, magari senza quello spirito avventuroso nato dai conflitti sociali e famigliari, centrali nella dialettica verdiana, ma quasi sullo sfondo nel dramma wagneriano, tutto chiuso nell'animo dei protagonisti. Il comune terreno lirico, dunque, fra Wagner e Bellini, e il conflitto insanabile, ma non irrimediabile né infinito, con Verdi, peraltro rinforzato dalle scelte di Puccini, che seppe però meglio mediare nei colori popolari delle musiche la conflittualità dell'io col mondo. A voler rispolverare oggi la questione, è un dato statistico che nel 2019 335 spettacoli hanno visto primeggiare Verdi e solo 117 sono stati per Wagner (in Italia, Verdi a Wagner, 39 a 41). Un sostanziale pareggio, sperando che Bellini funga da terzo partito in una gara proporzionale che farebbe tanto bene alla rinascita della nostra musica nel mondo.

martedì 25 febbraio 2020

Elena. Parte 14. Il bosco sconsacrato

Filippo Cannata, Luce, Ombra, Penombra, Buio
Il bosco sconsacrato

La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché ero innamorato della Sarjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo risultato pedagogico, e pure erotico, quasi eroico una vera aristìa dolo tanta insensatezza amorosa”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro. “Il più importante successo della mia vita. Darà nuova forza alla mia identità. L’amore farà spuntare le ali. A me e a lei: “quid agi oporteat bonis successibus instruendi erimus”1.
Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.
Alle 11,30 dopo le lezioni, invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse presto alla finestra di camera sua, come la sera prima, oppure, apparsa dalla parte dell’Università, quella orientale da dove tante ore prima era spuntato il sole, venisse vicino a me. Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.
Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.

A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era  fatta vedere ancora. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, e dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.
Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzi tempo in collegio dove oltretutto ero andato a prenderla tardi?
Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?
Oppure il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura, cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei, l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita una settimana fa, improvvida dell’incontro fallace? E io che la voglio prendere, sono ingenuo come un fanciullo che insegue un uccello che vola2, o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?” Questa ipotesi mi parve orrenda.
Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, a ognuno della brigata mia e a certuni di altre combriccole, domandavo se Elena si fosse vista, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Tristano neanche. Danilo giurò, sulla bottiglia di palinka che teneva in mano, di non averla vista, quindi aggiunse: “il liquore che sto per bere non è di questo mondo: è Dio in persona che innalza l’anima mia al di sopra di ogni meschinità”. Gli roteavano gli occhi come al leone che divora la preda.
La garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta non dava notizia di lei.
Il cynicus parmensis anzi proferì parole di malaugurio: “Chi, la cancerogena? No, non l’ho vista”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questo tu vizio assurdo da sordido anacoreta!”.
L’accento era emiliano, ma tutt’altro che bonacciona la voce di quel profetismo da iena, il gesto irridente e minaccioso. “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi verrà sbugiardato – pensai - se non oggi domani o domani l’altro. Al più tardi, nel giorno del Giudizio: “Iudex ergo cum sedebit-quidquid latet apparebit-nil inultum remanebit”3.

Il tono malignamente ominoso di quel sinistro messaggero di un brutto destino quella volta mi turbò. Aveva cercato di trascinare nel suo abisso, con un ghigno beffardo, un miracolo, una corona della creazione, una creatura che ravvivava la stessa vita.
“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura”4, gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.
A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando, benedetta, si incinse di un altro uomo, un finnico molto più grande, più grosso e più facoltoso di me. Temevo qualche metamorfosi negativa.
Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.
Nella mia testa malignamente incantata le immagini strane subivano un ribaltamento semantico: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.
Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere5 e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi vapori arroventavano l’aria.
Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si disseccava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori si riempivano di ombre come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, le loro viscere nodose partorivano ratti raccapriccianti, stagni mefitici esalavano miasmi immondi, gli amici contaminati diventavano orrendi e penosi: vedevo facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: alcuni erano già teschi mozzi strappati da streghe a denti di belve6.
Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi. Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme.

Potevo fare la fine del martire sulla croce dell’amore non contraccambiato.
Una preghiera nera formulata da spiriti maligni aveva chiesto e ottenuto il ritorno del Caos dove volteggiano i mostri.
Nel prato della sventura tutto si era sciolto dal vincolo dell’armonia: giravano teste senza collo, facce prive di occhi, braccia senza spalle né mani (Cfr. Empedocle. Poema fisico)
Perfino il sole, il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto, fino a sparire annientato da una densa caligine afosa.
Senza Elena il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti, il meglio del meglio nell’intero cosmo.
Il verso, altre volte gradito, delle tortore mi sembrava il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. Il cielo prendeva un aspetto deforme spariva.
Oscene cornacchie profetizzavano l’avverarsi di qualche remoto sfacelo, mai visto prima dalla terra e dal cielo, ripetendo continuamente il loro lamentevole kár kár 7.



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1 Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri XXXI, 21, 5, 6,
Impareremo dai buoni successi che cosa si debba fare.
2 Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv. 387 e sgg.) leggiamo, e impariamo: "Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che, sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".
3 Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente rimarrà invendicato. Sono versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo)
4 Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.
5 Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno, /vinctus eram versas in mea terga manus. / " (III, 24, 13-14) , afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.
6 Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.
7 Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragediája, 1826) ha scritto che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

lunedì 24 febbraio 2020

Elena. Parte 13. Cunctator amoris. La vena gesuitica. I bizzarri malviventi

Debrecen di notte
Cunctator amoris. La vena gesuitica. I bizzarri malviventi

Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male, viceversa è ciò che la danneggia.
Aggiunsi che volevo insegnare ai ragazzini anche il coraggio di confutare i luoghi comuni privi di fondamento razionale e reale. Cercavo di capire, di imparare, di fare tante cose, ma la meta più alta, il bersaglio sublime della mia ricerca era lei, Helena, la finlandese bruna bruna che un demone buono mi aveva fatto incontrare inopinata, misteriosa e meravigliosa, là, nel grande bosco in mezzo alla vasta pianura ungherese. Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato da lei.
La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di soddisfazione profonda.

Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, a un tratto Helena disse che stava imparando ad amarmi. Stavo per impazzire di gioia eppure, invece di baciarle le mani benedicendola, ebbro e frenetico di gratitudine, ricorsi a un’astuzia indegna dell’uomo che mi proponevo di sviluppare in me stesso, una mossa scacchistica di cui avevo sperimentato l’efficacia in passato.
“Ci risiamo!” dirai tu, lettore. Ti rispondo che quando non facevo calcoli prendevo fregature e bastonature da tutte le parti. E’ pur vero che Elena non meritava artifici.
Tuttavia calcolai che mi conveniva dissimulare la felicità. Questa poteva stordirmi e spingermi a tentare un affondo che magari lei si aspettava, ma dal quale voleva forse ancora sottrarsi gettandomi nella disperazione.
Rapidamente decisi che avrei sferrato l’attacco (1) finale in un momento in cui la bella donna fosse ancora più intenerita e priva oramai di ogni remora o scrupolo ritardante. Decisi di essere io quello che procrastinava, l’accorto cunctator amoria. Per l’affondo risolutivo sarebbe arrivato un momento migliore.
Dopo un paio di frasi generiche, quasi insulse, dissi che oramai si era fatto tardi, che il giorno dopo c’era lezione e, dunque, si doveva tornare in collegio. Quindi mi alzai, quasi di scatto, dalla panchina dove ci eravamo seduti. In realtà non era tardi: era, sì e no, mezzanotte, l’aria era calda, il cielo sereno, e comunque durante il mese “debrezino” di studio-vacanza, ma più vacanza che studio, non era abitudine mia né dei miei amici andare a letto prima delle due. Allora non provavo la fame urgente dello studiare per imparare, una fame che sentirò più tardi e ancora più tardi arriverò a soddiasfare, quando sarò arrivato all’accumulazione e alla sazietà dell’erudizione, del to; sofovn, il sapere neutro che non è sapienza e non sa di vita, non crea la vita come invece fa sofiva, la sapienza che è femminile (2)  Ora, alla resa dei conti, posso dire che ho imparato dalle mie amanti, Helena in primis, più che dai libri i quali pure mi hanno istruito e formato non poco.
Oso addirittura affermare che mi hanno aiutato a trovare le amanti migliori

Le parole e le idee me le hanno insegnate gli autori, ma la vita l’ho appresa e l’ho presa dalle donne, le donne mie benedette che Dio le rimeriti.
Rientrato in collegio, rimasi alzato a scherzare giovanilmente con Claudio, tornato soddisfatto dalla festa nel giardino dei crapuloni, e con Alfredo, contorto e lascivo, reduce dall’avere “puntato” non so quante Russe. Andava cercando di rimediare un po’ di sesso: “Qui a Debrecen - diceva - dovrebbero darci vittu (3) e alloggio, ma io finora ho avuto solo l’alloggio e muoio di fame”.
E Fulvio, il caro amico di Parma commentava: “Eh, che voglia di brugna!”
Talora ritardavamo il primo sonno fino al biancheggiare del cielo con l’alba che a Debrecen in luglio si fa vedere verso le tre.
Spesso la gioventù non conosce la giusta misura.
A volte i miei contubernali facevano irruzione nelle docce delle femmine russe che, molestate, strillavano a squarciagola, o ululavano, tutte nude.
Allora gli scavezzacolli fuggivano, poi, finita la mattana, venivano a raccontare. Io non partecipavo a quei ioci inconditi, buffonate bizzarre e porcate obbrobriose, anzi li disapprovavo a parole, e alle donne mie dicevo che sentivo disgusto profondo e vergogna di tali compagni di camera e della loro giocondità oscena; aggiungevo quasi compunto che i miei scherzi, quando mi va di farli, sono molto seri, ma in verità, arrivata la notte, mi spogliavo di quei paramenti da gesuita e  ascoltavo assai divertito i resoconti di quei lazzaroni, magari chiedendo di conoscerne tutti i dettagli peggiori. E in cuor mio auspicavo che simili scherzi continuassero, anche per riderne e sentirmi superiore ai gaglioffi che li mettevano in atto.
Come il Faust di Goethe, ero già troppo vecchio per partecipare a quei giochi insolenti, ed ero troppo giovane per non amare.
Aspettando l’amore, posavo a pensatore di giorno e sghignazzavo sulle porcate notturne.
Istrione e gesuita. In me scorre una vena gesuitica, magari  a rovescio.  

A volte, finiti gli scherzi e il loro resoconto, ai primi albori, partivamo dal collegio per andare a Hortobágy, sul ponte di nove arcate, a vedere il sole sorgere sopra la grande pianura deserta e priva di alberi.
Eravamo un drappello di dieci giovani: una carnevalesca processione di satiri ebbri e sileni panciuti talora accompagnati da menadi più o meno frenetiche.
Quella sera non andammo sulla puszta ma, tra una risata e l’altra, facemmo comunque le tre. Avevo giocato o “mistificato”, come si diceva all’epoca, con l’angelo mio dicendole diverse ore prima che avevo premura di andare a dormire.

Non avevo la forza di essere me stesso fino in fondo, di diventare quello che sono, accettando il mio vero volto, in quanto non ero ancora convinto che nessuna maschera avrebbe potuto renderlo più bello. Finiti i lazzi più o meno osceni con Claudio e Alfredo, fescennini obbrobriosi non privi di battute pesanti sulle donne presenti in quell’oasi felice di amore e di studio, meno studio che amore, andai a sedermi sul grande tavolo della stanza compresa tra le due camere a quattro letti, e scrissi che volevo fare l’amore con Helena impiegando tutte le forze dell’anima mia. Un’anima dissociata evidentemente. Nel salutarmi mestamente lei mi aveva detto che i suoi dolori di ventre si erano acuiti: perciò il giorno dopo sarebbe andate alla clinica delle donne “pregnanti e malate”. Tale scritta campeggiava sul frontone dell’edificio compreso nel complesso ospedaliero.
Allora, commosso e un poco pentito del mio calcolare, le avevo detto: “Conta su di me per qualsiasi cosa tesoro: in qualunque momento tu abbia bisogno di aiuto, io ci sarò”.
Durante il congedo davanti alla porta del suo collegio mi era apparsa piccola, indifesa, bisognosa, e avevo sentito per lei una sollecitudine autentica, piena, disinteressata. Mi ero ricordato di essere un uomo, non un buffone né un saltimbanco dell’amore (4) .
Quella femmina umana che si fidava di me, era mia figlia, e questo completava il sentimento d’amore che la figura materna già mi aveva ispirato.

Prima di andare a dormire, scrissi queste parole: “Helena mi piace come mai prima nessuna. Mi piace non meno di mia madre. Mi piace più parlare con lei che fare casino con Claudio e Alfredo. Mi piace perché è una mamma affettuosa e intelligente, è una sorella splendida, è una figlia adorata. Domani faremo l’amore, ne sono sicuro. Non lo scrivo profeticamente ma commisurando le nostre azioni”. Mi affacciai alla finestra completamente dimentico dei bizzarri malviventi nel mio collegio. L’aurora già scioglieva la nera notte e tingeva di rosa tutto l’oriente. Brillava la rugiada sui prati alla limpida luce.
Tutta la vita del bosco ricominciava con un sorriso.


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 (1) Eros, Amore, è spesso associato a Eris, la Contesa.
 (2) Cfr. "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti, v. 395) , il sapere non è sapienza.
 (3) Parola finlandese che significa “fica”.
 (4) Cfr. "Non mihi mille placent, non sum desultor amoris" (Ovidio, Amores I, 3, 15) a me non ne piacciono mille, non sono un saltimbaco dell'amore.


Ippolito di Euripide II.

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