domenica 31 gennaio 2021

Debrecen 1979. 85. Speranze fasulle e discorsi politici seri

Barbara Guidi, La rocca "Lago Di Garda"
Mi tornò in mente la gita scolastica di Ifigenia che portò un paio di classi sul lago di Garda, il Benacus che si alza con flutti e si fa sentire con fremito marino. Era il maggio odoroso: davanti avevamo tutta l’estate piena di promesse. Al ritorno mi raccontò degli allievi, di un collega, dei primi turisti tedeschi che prendevano il sole e degli abitanti autoctoni della venusta Sirmione. Tutti gli uomini, mi disse, la guardavano incedere tra le rovine e gli olivi dove camminava con una sottana rossa e trasparente che lasciava intravvedere le magnifiche cosce separate dalle mutande colore del cielo sereno. Mi domandavo se fosse una stella superiore alle miserie umane o anche lei una carta destinata a bruciarsi nella luce ardente dove si trovava, quindi a cadere nel fiume torbido che porta al Mare Nero del nulla. Avrei voluto evitarglielo.

Mentre osservavo lo sfollarsi degli argini, pensavo che se Ifigenia, bella com’era, avesse avuto uno stile elegante e dignitoso come quello della casta Isabella, le avrei chiesto non solo di fare l’amore centinaia di volte nei nove mesi passati insieme ma anche di mettere al mondo una bambina che prendesse il meglio da ciascuno di noi.

Esaurito il pensiero ipotetico e poco reale, mi avvicinai a Isabella che stava sopra di me. Ci raggiunse Silvia e venne a chiederci se volevamo fare una camminata insieme e fermarci a bere una birra e parlare un poco prima di andare a dormire.

Questa ragazza bionda era capace di parlare politicamente. Era la penultima sera della borsa di studio e tornammo sugli argomenti della nostra prima conversazione all’Obester di Debrecen, all’inizio del corso.

Ogni evento della vita passa  ma non è vero che non lascia traccia alcuna se  è un incontro che ha significato qualcosa, se ha toccato la sfera emotiva oltre quella mentale.

Silvia ribadì che il suo paese era diventato una provincia dell’impero sovietico. Ulbricht poi  Honecker erano  fantocci manovrati dal Cremlino  e sostenuti da un esercito di occupazione di mezzo milione di soldati per lo più asiatici e semibarbari.

Pensai alla ciuvassa Faina che era una persona buona, civile, educata. Lei mi disse che il suo popolo aveva ricevuto progresso dai sovietici, perfino da Stalin. Aveva potuto innanzitutto studiare, poi fruire di assistenza medica.  Benefici sconosciuti ai suoi nonni. Lo dissi a Silvia e aggiunsi che per tali aiuti alla vita si può rinunciare a un poco di libertà. Insomma non era del tutto d’accordo con l’amica tedesca che seguitava a infamare la D.D.R. Diceva che se criticavi il regime potevi essere denunciato alla Stasi e finire in prigione.

Tutt’altra campana avevo sentito da Martina che tre anni prima mi aveva ospitato  in un appartamento carino, pieno di libri a Berlino est nella Unter den Linden vicino al Museo di Pergamo ed era soddisfatta di Honecker. Vero è che il padre era un dirigente della televisione, ma nessuno di loro viveva nel lusso.

Silvia ammise che a Berlino vigeva una certa uguaglianza economica tra le persone. Le feci notare che l’uguaglianza richiede una fase di costrizione e repressione di quanti vogliono la disuguaglianza: se non li tieni a freno costoro isorgono, organizzano un colpo di Stato e compiono stragi come era accaduto in Cile l’11 settembre, quello 1973. Allende per aiutare i poveri aveva dovuto tassare i ricchi e ridurre il colonialismo subito dal suo paese. I colonizzatori avevano preparato e sostenuto i militari golpisti, una canaglia di felloni assassini.

Silvia riconobbe che in Ungheria dove c’era meno repressione e più libertà, erano ritornate le sperequazioni economiche.

 

Bologna 31 gennaio 2021 ore 21,29 

giovanni ghiselli


p.s

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Ritratti paradossali

Argomenti

Ritratti paradossali con la compresenza di vizi e virtù. Dal Catilina di Plutarco e Sallustio al Petronio di Tacito a Enrico V di Shakespeare, al seduttore di Kierkegaard, all’Andrea Sperelli di D’Annunzio.

 

 In Shakespeare il principe Enrico, un giovane  dissipato e gozzovigliatore[1] quando succede al padre e sale sul trono (nel 1413) diviene il  saggio re Enrico V, un  capo di eserciti valorosi e il  simbolo della grandezza nazionale.
Cfr. la battaglia di Agincourt del 1415 con l’appello agli happy few (Enrico V, del 1599, IV, 3, 60)


“E’ opportuno qui riportare, non solo per la sua grazia ma anche per la sua profondità, un passo celebre in cui Shakespeare cerca di spiegare come grandi qualità potessero celarsi nel principe libertino (Enrico V, atto I, scena 2[2], 60 sgg,):

The strawberry grows underneath the nettle,/ And wholesome berries thrive and ripen best/Neighbour’d by fruit of baser quality:/And so the prince obscur’d his contemplation/Under the veil of wildness; which, no doubt,/Grew like the summer grass, fastest by night,/Unseen, yet crescive in his faculty”.

E’ il vescovo di Ely che parla.

La fragola cresce sotto l’ortica e le bacche salutari prosperano e maturano meglio in compagnia di frutti di qualità inferiore: così il principe celò il suo spirito di osservazione sotto le apparenze del libertinaggio, e questo spirito senza dubbio deve aver fatto come l’erba estiva che cresce di notte non vista, ma proprio allora più soggetta alla forza di sviluppo che le è insita”

 E’ probabile che Shakespeare non debba nulla alla tradizione antica del ritratto “paradossale” di tipo “petroniano”[3]. Al “paradosso” della compresenza di vizi e virtù egli aggiunge un altro “paradosso”, secondo cui il vizio può essere condizione favorevole alla segreta crescita della virtù; chi mai nell’antichità avrebbe potuto accettarlo? Non è poca cosa, comunque, che storici antichi quali Sallustio e Tacito avessero messo a fuoco il problema: il loro travaglio di pensiero, che coglie le contraddizioni di una realtà sempre più ricca ed oscura, non li porta troppo lontano dal genio del poeta moderno”[4].

La Penna inserisce in questa lista di uomini ritratti come paradossali oltre Petronio, Silla, Catilina, Cleopatra, Otone e altri. Possiamo aggiungere Alcibiade.

 

Vediamo Alcibiade

Plutarco scrive di Alcibiade che per accalappiare le persone era capace di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del camaleonte ("ojxutevra"...tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non provato: "  jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h'jn ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton" : a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov"), si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"), perfino austera (skuqrwpov"); in Ionia invece appariva raffinato (clidanov"),  gaudente (ejpiterphv"), indolente (rJav/qumo");  in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto  e nel lusso la magnificenza persiana ("uJperevballen o[gkw/ kai;  poluteleiva th;n Persikh;n megaloprevpeian"[5]).

 

Insomma Alcibiade assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o per dirla con Cornelio Nepote era "temporibus callidissime serviens "[6] abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.

Anche Montaigne mette in rilievo questo aspetto di Alcibiade:"Ho spesso notato con grande ammirazione la straordinaria facoltà di Alcibiade di adattarsi tanto facilmente a usanze così diverse, senza danno per la sua salute: oltrepassando ora la sontuosità e la pompa persiana, ora l'austerità e la frugalità spartana; così moderato a Sparta come dedito al piacere nella Ionia"[7].

 

Passiamo a Catilina

Cicerone attribuisce a  Catilina nell'orazione Pro Caelio[8]

aspetti del carattere simile a questo e ad altri  di Alcibiade.

La sua indole multiforme sapeva adeguarsi alle circostanze "Illa vero iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare suam naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere, cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis luxuriose, vivere " (Pro Caelio, 6,13), quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire in quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con la compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle circostanze critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la fatica corporale, e se ce n'era bisogno anche con il delitto e l'ardimento, modificare la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente, con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali temerariamente, con i libidinosi dissolutamente.

 

Rileggiamo anche qualche parola di Sallustio che lo presenta appunto come un uomo misto di vizi e virtù: “ Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque (De coniuratione Catilinae, 5). Sarebbe stato tra l’altro un terrorista: “Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civiles grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat” .

Inoltre era un corruttore di giovani. Aveva la capacità di sedurli e insegnava loro a fare il male. Iuventutem (…) mala facinora edocebat (16)

 

Catilina attirava tutti scontenti della loro posizione socioeconomica: "omnino cuncta plebes, novarum rerum studio, Catilinae incepta probabat (…) Nam semper in civitate, quibus opes nullae sunt, bonis ìnvident, malos extollunt, vetera odere, nova exoptant odio suarum rerum, mutari omnia student, turba atque seditionibus sine cura aluntur, quoniam egestas facile habetur sine damno" (37)

Tutta quanta la plebe urbana, per amore di novità, favoriva l'impresa di Catilina (…) Infatti sempre in uno Stato quelli che non hanno mezzi invidiano gli ottimati, esaltano i malvagi, odiano le tradizioni antiche, bramano le novità per odio della popria condizione, desiderano sovvertire ogni cosa , si nutrono senza preoccupazione di insurrezione e ribellione poiché l’indigenza si possiede facilmente senza timore che venga danneggiata.

 

Alcibiade anticipa Catilina e anche l'esteta - seduttore di Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni, "l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da parte dello spirito proprio della carne"[9] che vive di preda e ama "il casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale è il momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è raffinato, tanto più sa trasformare l'istante del godimento in una piccola eternità"[10].

 

Anche  Andrea Sperelli del Piacere  di D'Annunzio può trovare un antenato in Alcibiade, soprattutto in quello della decadenza:"il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio (....) Gli uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così, l'asse  del loro essere interiore, intorno al quale tutte le passioni gravitano"[11].

 Sperelli stesso pensa di sè:"Io sono camaleontico , chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC . Sia fatta la volontà della legge"[12].

 

giovanni ghiselli

 



[1] Cfr. Dostoevskij, I demoni: “tutto ciò somigliava alla giovinezza del principe Harry che gozzovigliava con Falstaff” (p. 43). Lo dice Stepan Trofimovič a Varvara Petrovna a proposito del figlio di lei e allievo di lui Nikolaj Stavrogin  

[2]  Si tratta in realtà della scena 1 dell’atto II. Ndr.

[3] Egli,  premette Tacito (Annales, XVI, 18), di giorno dormiva  mentre passava la notte tra i doveri e i piaceri della vita, e come gli altri dall'operosità, quest'uomo era stato portato alla rinomanza dall'indolenza "habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu", ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uno dalla voluttà raffinata. Petronio aveva scelto lo stile della  semplicità: "Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam  praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur  le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, "le negligenze sue sono artifici" (II, 18).ndr.

[4] A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, pp. 220-221.

[5]Plutarco, Vita di Alcibiade,  23, 4- 5.

[6]Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, Alcibiades ,   1, 4.

[7] Montaigne, Saggi, p. 221.

[8] Del 56 a. C.

[9] S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 158.

[10]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..

[11]D'Annunzio, Il Piacere , Mondadori, Milano, 1990, pp. 42-43.

[12]D'Annunzio, Il Piacere , p. 278.

La polemica tra Concita e Nicola

A pagina 6 del quotidiano “la Repubblica” di oggi, 31 gennaio 2021, trovo un articolo fimato da Emanuele Lauria e intitolato “La polemica”. Questa si è svolta “Tra Zingaretti e De Gregorio - annuncia il titolo invero poco perspicuo - botta e risposta “idee elitarie”, “E’ giornalismo”.

 

Voglio, devo e posso prendere posizione.

Entriamo in medias res senza lungaggini per trarre luce dal fumo.

Cito il cronista: “Nicola Zingaretti ha scelto il mezzo più immediato, Facebook, per replicare al racconto di Concita De Gregorio, che su Repubblica lo ha descritto come un “ologramma , che sorride e svanisce”. 

So bene di essere un pover’uomo, tuttavia “so leggere di greco e di latino-e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù”[1].

Ho passato buona parte della mia vita sui libri ma non capisco l’espressione “ologramma , che sorride e svanisce”. Ologramma è  formato da o{lo" tutto, tutto intero e gravmma, “lettera” come segno di scrittura e come missiva. Dunque l’espressione pretenziosa è vuota di senso appropriato.

 

Socrate nel Fedone avverte Critone che parlare male è una stonatura e fa male all’anima[2]. Aggiungo che leggere espressioni incomprensibili ingenera fastidio.

Zingaretti ha risposto generosamente alla esimia giornalista, rispamiandole l’addebito del nulla linguistico.

Quando è passata a parole non prive di senso Concita non si è peritata di ricorrere all’insulto: “L’Italia ebbe Berlinguer, oggi ha Zingaretti. Sono i tempi-ha scritto De Gregorio- che fanno i leader”   

Leggiamo la risposta di Zingaretti: “Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole sempre dare lezioni a tutti ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo”. 

Concita non lascia macerie, queste no, perché di quanto scrive e dice, da un po’ di tempo, non rimane nulla.

Un tempo non era così. Allora mi piaceva. La invito a buttare via la penna del luogo comune tutt’altro che chic e a riprendere quella che usava una decina di anni fa.

 

giovanni ghiselli   



[1] G. Carducci Davanti San Guido,  35 e 25-26.

[2] euj ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

Plutarco e Shakespeare. 8

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I ritardi della punizione divina che arriva comunque

 

Nella Tempesta  (1611-12) di Shakespeare,  Ariele fa sparire il cibo preparato per un banchetto dai malfattori che il mare ha vomitato sull’isola.

Tutti estraggono le spade, ma the spirit too delicate (I, 2, 272)  eppure in  grado di cavalcare le nubi ricciute  (to ride over the curled clouds I, 2, 191-192).  dice che quelle armi non possono ferirlo più dei venti ululanti.

Ricorda le malefatte di  quei farabutti: Alonso il re di Napoli,  Antonio il fratello usurpatore di Prospero legittimo duca di Milano,  Sebastiano fratello di Alonso, e dichiara che sono state the powers, delaying, not forgetting (III, 3, 73)  le potenze, che rimandano ma non scordano,  ad aizzare gli elementi contro la loro pace.

 

Su questo differire vediamo uno scritto dei Moralia di Plutarco:  I ritardi della punizione divina PERI TWN UPO TOU QEIOU BRADEWS TIMWROUMENWN

 De sera numinis vindicta

Un  personaggio del dialogo ambientato a Delfi cita questo proverbio  criticandolo: “i mulini degli dei macinano tardi”

ést' oÙc Ðrî, t … cr»simon œnesti to‹j Ñy d¾

toÚtoij ¢le‹n legomšnoij mÚloij tîn qeîn kaˆ poioàsi

t¾n d … khn ¢maur¦n kaˆ tÕn fÒbon ™x … thlon tÁj kak…aj

(549D), sicché non vedo quale  vantaggiio ci sia in  questi cosiddetti mulini degli dei che macinano tardi e rendono oscura la giustizia e inefficace il timore del castigo.

La formulazione completa è che essi macinano tardi, però macinano finemente.

L’autore dei Moralia risponde citando il Timeo di Platone (47b-c) quando Timeo dice che la natura ci ha dato la vista perché l’anima, davanti allo spettacolo meraviglioso dei corpi celesti prenda l’abitudine di amare e ricercare il decoro e l’armonia, mentre impara ad aborrire le passioni disordinate e instabili.

 

La  lentezza della punizione dunque si spiega con la volontà divina di dare un esempio “per eliminare la violenza e il furore delle nostre vendette. Il dio insegna a non aggredire chi ci ha offeso, come se dovessimo appagare la fame o la sete, a non reagire con ira quando l’animo si agita infiammato saltando al di sopra della ragione -

 m¾ sÝn ÑrgÍ mhdÓte m£lista flšgetai kaˆ sfad®zei

phdîn Ð qumÕj tîn frenîn ¢nwtšrw” (550 E).

 

Torniamo a The tempest  di Shakespeare.

Solo heart sorrow, sincero pentimento e clear life, una vita irreprensibile potranno salvare i farabutti (III, 3, 81-82) ammonisce Ariele che poi svanisce in mezzo ai tuoni mentre gli spettri scompaiono tra gli sberleffi portando via la tavola. Prospero approva la grazia divorante a devouring grace di Ariele  (III, 3, 84)

Il legittimo duca di Milano rivendica pure la propria parte: miei grandi incantesimi funzionano (my high charms work, III, 3, 89e i nemici sono paralizzati nel loro sconcerto

Alonso  il re di Napoli complice dell’usurpatore di Milano dice che lo sentiva. La natura offesa mandava dei segni: “O, è mostruoso, mostruoso! - mi sembrava che le onde parlassero e me lo dicessero, the winds did sing it to me, che i venti me lo cantassero, e il tuono profonda e spaventosa canna d’organo, ponunciasse il nome di Prospero - and the thunder. - that deep and dreadful organ-pipe, pronounc’d - the name of Prosper” (III, 3, 95-99)

Gonzalo, il vecchio consigliere onesto,  aggiunge che la grande colpa come veleno dato per funzionare molto tempo dopo comincia a morderli nell’anima  great guilt è like poison given to work a great time after now gins to bite the spirits (III, 3, 105-106)


Bologna 31 gennaio 2021. ore 12, 55

giovanni ghiselli

 

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Padri e figli. La responsabilità della colpa collettiva nella famiglia e pure nella città

foto di Vittorio La Verde: Pasolini e la madre Susanna
Argomento

Le colpe dei padri ricadono sui figli?
Shakespeare, Plutarco, Eschilo, Sofocle, Pasolini

 
Un personaggio (senatore ateniese) del Timone d’Atene di Shakespeare (1605) sentenzia: “Crimes like lands/are not inherited” (V, 4), i delitti non si ereditano, come la terra. Lo dice ad Alcibiade che vorrebbe ogni Ateniese per le pene subite da loro.
 Alcibiade invece deve liberare il gregge dalle pecore rognose ma non uccidere tutti quanti.
Intanto Timone, il misantropo è morto da misantropo e Alcibiade ne onora la tomba.
 
Il misantropo Timone è preso da Plutarco il quale nella Vita di Alcibiade (16) racconta che Tivmwn oJ misavnqrwpo~ imbattutosi un giorno in Alcibiade  che tornava dall’assemblea popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era solito fare con gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e gli disse: “fai bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r au[xei  kako;n a{pasi touvtoi~, così accresci di molto il male a tutti questi. Anche Timone non faceva distinzioni: le colpe nei suoi confroni erano collettive.
 
Un problema grande nell’uomo greco è quello della ereditarietà delle colpe dei padri. Sentiamone alcune espressioni:  Eteocle nei Sette a Tebe di Eschilo non è personalmente colpevole ma deve pagare le colpe di Laio e di Edipo
 Nel secondo stasimo di questa tragedia il coro di ragazze tebane canta: "dico la trasgressione antica/dalla rapida pena/che rimane fino alla terza generazione palaigenh' ga;r levgw - parbasivan wjkuvpoinon, aijw'na d j ejς trivton- mevnei:/quando Laio faceva violenza/ad Apollo il quale diceva tre volte,/negli oracoli Pitici dell'ombelico/del mondo, di salvare la città/morendo senza prole;/ma quello vinto dalla sua dissennatezza/generò il destino per sé,/Edipo parricida,/quello che osò seminare/il sacro solco della madre, dal quale nacque/radice insanguinata,/e fu la pazzia a unire/gli sposi dementi" (i Sette a Tebe, vv.742 - 757).
 
Nel primo commo, il  Coro dell ’Antigone di Sofocle deplora la catastrofe della ragazza con queste parole: "Avanzando verso l'estremità dell'audacia,/hai urtato, contro l'eccelso trono della Giustizia,/creatura, con grave caduta,/ del resto sconti una colpa del padre" (vv. 853-856).
 
 Secondo P. P. Pasolini le colpe dei padri  sono la complicità col vecchio fascismo e l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?
“Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese [1].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[2].

 
giovanni ghiselli
 


[1] P. P. Pasolini, Lettere luterane, I giovani infelici, pp. 5-12.

[2] Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.

sabato 30 gennaio 2021

Debrecen 1979. 84. La casta Isabella e il momento eterno con Elena

Seurat, Donna seduta in un prato
Su uno scalino poco sopra il mio c’era  la casta Isabella seduta in maniera composta e dignitosa. Con le mani teneva la gonna, lunga e larga, aderente ai polpacci. Se si fosse posizionata in maniera diversa avrei potuto vederle cosce e mutande. Sarebbe stata una provocazione per la casta luna nel cielo e, nel senso opposto, per la libidine mia sulla terra. La cascata di luce le illuminava il volto bello e pulito. Le rivolsi un sorriso di stima e simpatia. Quando mi ebbe visto, la corteggiai elogiando la sua pudicizia elegante e rara. Sapevo che con gli elogi si possono sedurre anche le vestali.

“Seduta così castamente - le dissi non senza un po’ di ironia - fai onore alla tua dignità di donna e rispetti il tuo uomo”. Invero cercavo di stuzzicarla. La casta rispose con un sorriso. Osservavo i suoi occhi lucenti nella girandola conclusiva dei fuochi. Attraverso lo sguardo di lei  vedevo le profondità ancora pulite e non abissali  dell’anima di quella ragazza: non era il fondo del mare  insondabile, spesso latente anche perché coperto di sugna, ma la conca sassosa di un piccolo lago alpino, del tutto visibile per la limpidezza dell’acqua incontaminata e diafana al pari del cielo sopra le montagne dopo l’aurora di una giornata che si annuncia serena, quando il sole emergendo dalle pallide rocce le colora di rosa come fece il 30 luglio del’ 71 con gli alberi strani dell’orto botanico dell’Università di Debrecen, quando Elena cantava Summer time per significarmi che in quel momento vivere era facile e bello per noi due che ci amavamo, però avevamo poco tempo davanti e dovevamo assaporare quel momento, assimilarlo ai nostri corpi e alle anime nostre perché non sarebbe tornato mai più.

Come vedi ho raccolto l’invito Elena mia.

 

giovanni ghiselli 

Commento alla “Cara Lettera” del cardinale Matteo Zuppi. Seconda parte

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Cara Costituzione, tu ci ricordi che non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme. Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona - che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione - si pensi in maniera isolata e autosufficiente.

I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri. Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli”.


Commento

Non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme”

Il poeta ateniese Menandro, principale autore della Commedia nuova (IV secolo a. C.) nel dramma Duvskolo" (il Misantropo rappresentata nel 316) ci insegna che l’assoluta e totale autarchia non solo è disumana, ma non è proprio possibile.

Cnemone, il protagonista è un vecchio dal carattere reso duro, aspro, cattivo dalle cattiverie subite, come spesso accade. Si è rinchiuso in una solitudine rabbiosa con una figlia e una serva e prende a sassate chiunque si avvicini.

Menandro lo definisce

uomo disumano assai - ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra  (v. 6)

e intrattabile (duvskolo" appunto) con tutti, che non sta bene con la gente" (ouj caivrwn t j o[clw/, v. 7).

A un certo punto però cade in un pozzo, e le due donne non riescono a riportarlo fuori

Allora si fa avanti il figliastro Gorgia che Cnemone aveva allontanato in malo modo e il giovane nonostante i maltrattamenti subiti lo tira su e gli salva la vita.

A questo punnto il vecchio misantropo capisce.

Quindi il misantropo si ricrede e spiega come è passato dall’errore all’intelligenza dell’errore attraverso la disgrazia (713-735):

"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo

di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.

Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,

imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.

Infatti deve  sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.

Ma per Efesto  sono stato così guastato io

vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")

e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to; kerdaivnein)

 Non avrei pensato

che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica

mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo

nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,

né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.

Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?

io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?

neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io

muoio ora - e lo credo tanto sto male -

e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,

consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:

procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano

non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.

Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q  j wJ" bouvlomai)".

Incallito com’è nella solitudine non potrà cambiare vita, però ha per lo meno imparato a contraccambiare il bene con il bene, e non è poco. Il dolore lo ha aiutato a capire: è il “tw`/ pavqei mavqo" annunciato per la prima volta dal coro di vecchi Argivi nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo: attraverso la sofferenza la comprensione (v. 177)

 

Ora passo al commento di queste parole della lettera alla Costituzione

Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona - che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione - si pensi in maniera isolata e autosufficiente

Quando non c’è limite all’esercizio del potere vige la tirannide, una mala pianta denunciata e biasimata da molti testi classici. Un potere claudicante pur se assoluto. Mi limito a tradurre alcuni versi dell’ Edipo re di Sofocle:  la prima antistrofe del secondo stasimo afferma che il tiranno è figlio della prepotenza e che tutte le tirannidi sono zoppe: "la prepotenza fa crescere il tiranno (u{bri" futeuvei tuvrannon), la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli/ che non sono opportuni e non convengono (mhde; sumfevronta)[1]/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede" e[nq j ouj podi; crhsivmw/-crh'tai "(vv. 873-879).

 

Le responsabilità collettive, il dovere del polivth", del cittadino, di  partecipare alla vita  della povli", della città, viene affermato con chiarezza dal Pericle di Tucidide nel logos epitafios citato sopra. Questa partecipazione collettiva è una peculiarità della quale gli Ayeniesi possono onorarsi solo noi consideriamo (nomivzomen) non tranquillo (oujk ajpravgmona) ma inutile (ajll j ajcreĩon) chi non prende parte alla vita politica (tov te mhde;n tw̃nde metevconta). (Tucidide II, 40, 2)


Procedo con il commento di queste parole della lettera

I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri. Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli”.

 

L’isolamento viene di nuovo indicato con segno negativo.

Questa volta commento citando un latino di origine spagnola che cita un latino  di origine africana, quindi aggiungo un  moderno inglese:

Seneca afferma la naturalezza e la necessità dell'amore reciproco nell'Epistola 95:"natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi, ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Ille versus et in pectore et in ore sit:

homo sum, humani nihil a me alienum puto[2].

Ita habeamus: in commune nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur" ( 95, 52, 53), la natura ci ha messi alla luce legati da parentela, poiché ci ha fatto nascere dai medesimi elementi e per i medesimi scopi; questa ci ha messo dentro un amore reciproco e ci ha reso socievoli. Essa ha disposto l'equità e la giustizia; secondo il suo ordinamento è più deplorevole recare danno che riceverlo, in conseguenza dei suoi ordini le mani siano pronte per quelli che hanno bisogno di aiuto. Ci stia sempre nel cuore e in bocca quel verso famoso:

sono uomo, e non mi sento  ostile a nulla di umano.

Facciamo questa considerazione: siamo nati per metterci a disposizione reciproca. La nostra società è molto simile a una volta di pietre che, destinata a cadere se non se lo impedissero a vicenda, proprio da questo fatto è tenuta in piedi.

Questa idea dell'humanitas  che Terenzio trasmette dal  circolo scipionico  è stata e sarà ripresa nei secoli dei secoli : in Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne (1572-1631), per esempio,  leggiamo:" Nessun uomo è un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un promontorio (…) la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana ("for whom the bell tolls "[3] ); suona per te”.

giovanni ghiselli

 

 

 



[1] Queste parole possono smontare l’utile perseguito da Giasone.

[2]Terenzio,  Heautontimorumenos, v. 77.  Lo dice il vecchio Cremete al vecchio Menedemo, il punitore di se stesso

[3] E', notoriamente, il titolo di un romanzo di  Hemingway, 1940

I governanti sconci sconciano la nazione.

       “Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto ...