Una scena del film del 1960 che si basa sul Faust di Goethe.
A sinistra Faust (Willi Quadflieg), a destra Mefistofele (Gustav Gründgens)
Nietzsche sul demonico Socrate
Faust, Mefistofele e Socrate
Secondo Nietzsche il demone dissuasivo di Socrate ebbe la forza di cambiare il corso della cultura greca, di snaturarla: “Chi è costui, che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dioniso, attraverso l’abisso più profondo e la cima più alta è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che può ardire di rovesciare nella polvere un tal filtro incantato? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti dei più nobili fra gli uomini deve gridare “Ahi! Ahi! Tu lo hai distrutto, il bel mondo, con polso possente; esso precipita, esso rovina!”[1].
Il coro di spiriti è quello del Faust di Goethe.
A Faust si è presentato Mefistofele dicendo: “Ich bin der Geist, der stets verneint”, io sono lo spirito che nega sempre (Faust I, Studio 1, 1338).
Allora Faust gli fa: “Così tu opponi alla forza eternamente attiva, salutare e creatrice, quel tuo pugno di ghiaccio diabolico, che invano si serra maligno! Tròvati da dar qualcos’altro, strano figlio del Caos! - Des Chaos wunderlicher Sohn!” (Faust I, Studio 1, 1379 - 1384)
Quindi il Coro di spiriti prorompe nel lamento citato da Nietzsche su Die schöne Welt il mondo bello distrutto zerstört con pugno potente mit mächtinger Faust (Faust I, studio 2, 1609 - 1610)
Socrate con “la superfetazione del logico e quella cattiveria del rachitico che lo contraddistingue”[2] puntò sulla tragedia “l’unico grande occhio ciclopico (…) quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico”[3]. Egli nell’arte tragica vedeva qualche cosa di “assolutamente irrazionale…inoltre il tutto era così variopinto e vario, che a un’indole assennata doveva riuscire ripugnante mentre per le anime eccitabili e sensibili era una miccia pericolosa”[4]. Socrate comprendeva solo la favola esopica, quindi indusse Platone, che voleva diventare suo scolaro, a considerare l’arte tragica tra quelle lusingatrici, e a bruciare tutta la poesia che aveva composto da giovane. Ma la necessità artistica spinse questo discepolo di Socrate a una nuova forma d’arte: il dialogo che avrà un seguito nella satira menippea e nel romanzo: “Il dialogo platonico fu per così dire la barca in cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature; stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un mondo nuovo (…) Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo, questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico (…) cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate. Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica. Nello schematismo logico si è chiusa in un involucro la tendenza apollinea: così in Euripide abbiamo dovuto constatare qualcosa di corrispondente, e inolre una traduzione del dionisiaco nella passione naturalistica”[5].
M. Bachtin individua un collegamento tra satira menippea e romanzo, nella fattispecie quello di Dostoevskij[6].
giovanni ghiselli
[1] La nascita della tragedia , capitolo 13
[2] Crepuscolo degli idoli, Il problema di Socrate, 4.
[3] La nascita della tragedia , capitolo 14.
[4] La nascita della tragedia , capitolo 14.
[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 14.
[6] M. Bachtin, Dostoevskij, p. 222.
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