La prospettiva dalla collina
incantata e il progetto del disincantomoneta romana che elebra il ponte sull'Istro
Il sole aveva sbaragliato le nubi. Mi tolsi la maglietta per ripassare l’abbronzatura come rivedo le mie lezioni. Mi guardai il petto, e i fianchi. La vita da torero. Narciso. Sì ero snello come il giorno di Päivi cinque anni prima: magro, abbronzato con tutti i capelli neri, niger tamquam corvus, con i carismi dell’uomo piacente, se non proprio bello, invecchiato benissimo. Sentìi una grande energia anche dentro di me.
“Devo costruire qualcosa, assorbire la forza del sole, la bellezza del mondo e viverla, attuarla in una poēsis, una creazione educativa che sopravviva ai miei momenti di grazia. Salvare la bellezza dalla caducità. Intanto lasciar cadere i rami malati: non sostenerli con un vano dispendio di energie. Disperdere le debolezze e i vizi nati da antichi dolori che non hanno più ragione di esistere”, pensai.
Quindi mi allontanai dalla piazza camminando lungo la sponda del fiume secondo corrente, finché la riva divenne del tutto pulita. Giunto nel tratto mondo, lo riconobbi come quello del bagno del 1974. Un’estate, quella, piena di destino: mi aveva dato il viatico per la lunga strada dello studio serio, teso a imparare, a ricordare, a educare parlando e scrivendo. Päivi mi aveva reso studioso del vero e del bello. La bambina non nata mi aveva chiesto di compensarla mettendomi al servizo educativo dei figli degli altri.
Tornai nel gruppo. Ci portarono sulla collina del castello e del ristorante Silvanus dove cinque anni prima avevo cenato con Päivi, avevo ricevuto la rosa e il titolo augurale di Magister dalla studentessa Josiane di Strasburgo, e avevo osservato l’estro dionisiaco di Danilo amico mio e devoto di Bacco signore del vino.
L’Istro osservato da quella collina appare incurvato ta i monti e ameno quanto il lago di Como guardato dalla Madonna del Ghisello, o il lago di Pusiano visto dal Cornizzolo, alture dove salivo in bicicletta dopo una giornata spesa negli esami di maturità, al Parini, al Beccaria, ottimi licei milanesi e in altri.
Dovevo continuare a impegnarmi sul serio anche nell’ascesi somatica, acquistandone forza e voglia di vivere, voglia di fare, di attuare.
Il vento sollevava le tovaglie rosse dei tavoli, i capelli e le gonne delle ragazze. Dalle loro cosce tornite esalava un’aura , un presentimento di paradiso. Pensai a quelle perdute di Josiane e me ne rammaricai. Almeno l’indirizzo avrei potuto darglielo e chiederglielo dato il suo cortese interesse. La matita da Montagna incantata l’avevo
Ma temevo di fare uno sgarbo a Päivi che un mese dopo mi avrebbe piantato senza cortesia. Il mio dogma, perfino religioso o superstizioso, comunque fanatico, della fedeltà in amore, poche volte è stato ricambiato . Dovevo disincantarmi. Ifigenia non mi aveva scritto. Era il caso di trovarne le cause e trarne le debite conseguenze.
Ne avevo a bastanza di inganni, di fregature dovute ai miei errori. “Rusticus fui nimium” con quel che poscia è scritto.
Quell’estate non avevo corrisposto a Silvia, l’interessante tedesca di Berlino per mantenermi fedele a Ifigenia che tradiva le promesse fatte a me. Dovevo imparare da queste esperienze come stanno veramente le cose.
Il vento scuoteva anche i capelli rossissimi, avvelenati di una turista attempata. Sembrava volere strapparli siccome innaturali. “Porterà via pure i rami rinsecchiti e prosciugherà le paludi infette, i miasmi velenosi ancora residui nell’anima mia”, pensai.
giovanni ghiselli
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