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Bruno Snell dà un’altra interpretazione di Euripide. La sua “snellezza” poetica avrebbe fatto scuola a Callimaco e ai neoteroi. Il ragionare dei personaggi non è una innovazione di Euripide: è già presente in Eschilo. Euripide non critica gli dèi per l’infame piacere di demolire ogni grandezza ma lo fa con intenzioni morali, cercando un senso di giustizia più vero.
Nietzsche vede nell’opera di Platone la filosofia che verrà semplificata e
volgarizzata dal cristianesimo: “Il cristianesimo è un platonismo per il
popolo"[1]
“Socrate e Platone come sintomi di decadimento, come strumenti della
dissoluzione greca, come pseudogreci, antigreci (“Nascita della tragedia”,
1872)”[2],
All’interpretazione di Nietzsche unilaterale e pure faziosa nei confronti
dei due “complici” Euripide e Socrate quali affossatori della grande tragedia, possiamo
contrappore un capitolo del volume di B. Snell: La cultura greca e le
origini del pensiero europeo[3] .
Il saggio che ci interessa è intitolato Aristofane e
l'estetica (pagine 166 - 189) Snell difende Euripide dalle accuse di
realismo, razionalismo e immoralismo[4], che gli vengono fatte dalla triade critica
Aristofane - A. W. Schlegel - Nietzsche, sottolineando prima di tutto
l'importanza culturale della sua opera che non solo ha segnato un'epoca, ma ne
ha anticipate e aperte altre, per lo meno nel campo dell'estetica e della
poesia. Infatti l'estetica di Callimaco prescrive quella Musa sottile ( Mou'san
… leptalevhn, Aitia , fr. 1 Pfeiffer,
v. 24) che il coro delle Rane attribuisce a Euripide, il
cincischiatore di concettuzzi, la cui lingua aguzza, inquisitrice di versi,
sminuzzerà (kataleptologhvsei ) le parole colossali di
Eschilo, grande fatica di polmoni (pleumovnwn polu;n povnon, v. 829 ).
Non solo: lo stesso personaggio Euripide nella medesima commedia, qualche
verso più avanti, si pregia di avere prima di tutto reso snella l'enfatica
poesia di Eschilo ( i[scnana
me;n prwvtiston aujthvn ) e di averle tolto gravezza con parolette e rigiri (kai;
to; bavro" ajfei'lon - ejpullivoi" kai; peripavtoi", Rane, vv.
941 - 942). Nelle Rane Euripide è rappresentato in gara con
Eschilo che lo vincerà
Negli Eraclidi, il coro dei vecchi ateniesi dà voce all’
antipatia dell’autore per la magniloquenza con l’affermare che gli araldi
ingrandiscono quanto è accaduto raddoppiandolo e innalzandolo come una torre (pa`si
khvruxi novmo~ di;~ tovsa purgou`n, v. 293).
Si tratta dell’araldo di Euristeo che ha minacciato Demofonte il quale lo
ha cacciato.
Callimaco dunque afferma dunque che i versi vanno valutati con il criterio
dell'arte, non con lo scheno[5] persiano (Aitia, vv. 17, 18), e
che ottima è un'offerta votiva se grassa (v. 23) , ma la poesia deve essere raffinata.
Le dichiarazioni di Callimaco poi assunsero valore programmatico per la
poesia ellenistica e per quella romana dei poetae novi , tra i
quali Catullo scrisse:
"Parva mei mihi sint cordi monumenta sodalis - at populus tumido
gaudeat Antimacho " (95, 9 - 10), a me stiano a cuore i piccoli
capolavori del mio amico, ma la plebe goda del gonfio Antimaco[6] .
Questo culto della snellezza poetica secondo Snell discenderebbe dalla
pratica Euripidea di “sottilizzare”.
Il razionalismo euripideo secondo i detrattori del tragediografo avrebbe
ucciso il mito, lo spirito dionisiaco, e la pietà tragica, ma la tragedia,
confuta Snell, non fu mai un’opera d’arte esclusivamente religiosa, e non bandì
mai le forze della ragione come volevano i romantici, e Nietzsche.
“La tragedia attica si elevò al grado di alta letteratura quando si staccò
dagli antichi legami del culto, quando tutto l’apparato magico di cori caprini
e di processioni falliche scomparve di fronte a un contenuto che proveniva da
un mondo totalmente diverso”[7].
Inoltre l’eroe tragico, diversamente dal personaggio dell'epica,
"riconosce per la prima volta se stesso come autore delle sue decisioni
(…) Nelle tragedie di Eschilo, l'uomo, mentre acquista coscienza della
propria libertà assume il peso della responsabilità personale di fronte
all'azione"[8] .
In effetti il Prometeo di Eschilo rivendica il proprio misfatto non meno
della Medea di Euripide: “eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai” (Prometeo
incatenato, v. 266), di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo
negherò.
Neppure Eschilo era irrazionalista: il suo Oreste deve
fare una scelta sofferta, e pensata, tra diverse esigenze e varie divinità.
“Quando due divinità pongono all’uomo diverse
esigenze, questi si trova, in un certo senso, abbandonato a se stesso. I valori
univoci vengono messi in forse, l’uomo si arresta nello svolgimento naturale
della sua azione e deve decidere da sé che cosa sia giustizia e che cosa
ingiustizia. Un’umanità nuova e una nuova naturalezza si rivelano in lui: la
consapevolezza della libertà e dell’azione autonoma”[9].
Il giovane divenuto assassino della madre per
vendicare il padre, dunque già nell’Orestea, deve scegliere: è
riflessivo e dubitoso, seppure non ancora quanto l’Oreste di Euripide nella
tragedia di cui è eponimo né quanto Amleto, che ha visto uno strappo nel cielo
di carta del teatrino ed è rimasto "terribilmente sconcertato da quel buco
nel cielo".
Se Oreste, sostiene il signor Anselmo Paleari di
Pirandello, vedesse “uno strappo nel cielo di carta del teatrino (…)
diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e
la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”[10].
In questo contesto si tratta del personaggio dell’Elettra di
Sofocle, che è l’Oreste più ligio al volere di Apollo[11], mentre quello di Eschilo dopo il
matricidio vede le Erinni della madre (Coefore, v. 1061), ossia cade in
preda ai rimorsi con i quali deve fare i conti, a lungo.
Ancora più travagliato dal dolore del pensiero e dal
senso di colpa, e già molto simile ad Amleto, è l'Oreste di
Euripide: allo zio Menelao che gli domanda:"quale malattia ti
distrugge?" (Oreste, v. 395), il matricida risponde: "l'intelligenza,
poiché so di avere perpetrato crimini orrendi" (v.396).
In questo
Oreste euripideo si vede "la tragica contraddizione di incorrere nel
crimine per eseguire il comando del Dio purificatore per eccellenza.
L'alienazione derivante dall'aver seguito la voce del dio fuori da se stessi,
dalla propria anima. Oreste avrebbe commesso il massimo crimine, se avesse
ascoltato soltanto la voce della sua anima, se avesse ascoltato se stesso? E
non è forse indispensabile ascoltarsi per conoscere se stessi?"[12].
Ma torniamo a Bruno Snell
Come Oreste, come Prometeo, anche Medea deve prendere delle decisioni. La scena decisiva della
tragedia secondo Snell è “il grande monologo in cui Medea si rende ancora una
volta conto della sua azione e in cui si rafforza nella sua decisione di
uccidere. E’ già caratteristico il fatto che Medea giunga a questa decisione
attraverso un monologo. E’ soltanto con Euripide che abbiamo i primi veri
monologhi nella tragedia. In Eschilo, Oreste, nel momento più angoscioso
d’incertezza, si rivolge a Pilade, all’amico. Medea è sola e da sola deve
decidere del suo destino. Qui non si tratta di eseguire un comando
soprannaturale, sono i sentimenti del cuore umano che lottano tra loro. Il
sentimento predominante in Medea è quello della vendetta a cui è portata dalla
passione; ma accanto ad essa si manifesta un sentimento migliore che, come essa
stessa confessa, si oppone all’azione orribile (1078 sgg.):
E capisco quale abominio sto per osare,
ma più forte dei miei proponimenti è la passione
che è causa dei mali più grandi per i mortali[13].
In questi versi si esprime per la prima volta un senso morale moderno,
psicologico e individualistico, che s’imporrà più tardi, per cui la moralità è
sentita come un fatto puramente interiore, come un freno. Non è per caso che
filosofi moralisti di epoche posteriori citano particolarmente volentieri
queste parole”[14].
Snell sostiene che Euripide critica le tradizioni
e le figure del mito non “per l’infame piacere di demolire ogni grandezza”, ma
“lo fa con un’intenzione morale: le credenze antiche vengono smascherate e
demolite, ma per far posto a un senso di giustizia più vero e per porre un
fondamento a questo nuovo dovere”[15] .
Vediamo allora alcuni versi con i quali Euripide,
sulla scia di Pindaro tenta di purificare e nobilitare le favole, talora poco
morali che riguardano gli dèi.
In diverse occasioni Pindaro afferma il credo che non
bisogna dire male degli dèi. Per esempio nell'Olimpica IX leggiamo:"diffamare
gli dei è odiosa sapienza (ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv" - ejcqra; sofiva, vv. 37 - 38), con un ossimoro che denuncia la
critica filosofica dei miti, una lapidaria affermazione di ultratradizionalismo
che sarà ripresa dall'Euripide postfilosofico o antifilosofico delle Baccanti :"Il
sapere non è sapienza"(v.395), canta il coro delle menadi, quindi si
augura di "tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari,
per accettare quello che il popolo più semplice pensa e crede"(vv. 427 - 432).
Ebbene il tradizionalismo aristocratico di Pindaro è meno lontano dalle
credenze popolari che dalla sapienza intellettualistica degli "uomini
straordinari". Del resto la sapienza non è a portata di tutti ma è
"scoscesa"(Olimpica IX, 108).
Nell’Eracle di Euripide, l’eroe prima
critica la gelosia di Era: “chi potrebbe pregare una dea siffatta, una che, per
una donna, gelosa dei letti di Zeus (levktrwn[16] fqonou'sa
Zhniv, v. 1309) ha distrutto i benefattori
della Grecia che non erano colpevoli di nulla? (vv. 1308 - 1310). Poi però il
figlio di Alcmena, mandato in rovina dalla moglie di Zeus, ma confortato da
Teseo, rifiuta la tradizione che attribuisce nefandezze agli dèi : “io non credo
che gli dèi amino letti illeciti e che attacchino catene alle braccia, e non
l’ho mai considerato degno di loro né mi lascerò persuadere che uno imponga il
dominio sull’altro, infatti il dio, se è veramente dio, non ha
bisogno di nulla (dei'tai ga;r oJ qeov~, ei[per e[st j
ojrqw'~ qeov~, - oujdenov~[17]) e questi sono miserabili racconti di aedi" (Eracle vv.1341
- 1346).
Cfr. questo rifiuto dei miti immorali con quello di Pindaro che nega
veridicità alla favola tràdita secondo la quale Pelope sarebbe stato mangiato
dagli dèi cui il padre Tantalo lo aveva imbandito: “ Poiché tu eri sparito, né
alla madre ti/portarono gli uomini sebbene ti cercassero molto,/ subito uno dei
vicini invidiosi spargeva di nascosto la diceria/che ti avevano tagliato membro
a membro con il coltello/nel culmine bollente dell'acqua sul fuoco,/e al
momento dell'ultima portata sulle mense si / spartirono le tue carni e le
divorarono./Per me è inconcepibile chiamare/ghiotto uno dei beati: me ne tengo
lontano;/una perdita tocca spesso ai malèdici. (Olimpica I, vv. 45 - 54)
giovanni ghiselli
[1] Di là dal bene e dal male ,
Prefazione.
[2] Crepuscolo degli idoli, Il
problema di Socrate, 2
[3] Una raccolta di saggi che leggo nella
traduzione italiana (Einaudi, Toino, 1951
[4] “Soltanto in un punto caratteristico
Nietzsche si differenzia da A. Schlegel; Socrate non è per lui l’immoralista,
ma piuttosto il moralista, e appunto come moralista e spirito teoretico
distrugge quel che c’era di vivo e sacro nel mondo antico. La morale diventa
qui un veleno dissolvitore” (La cultura greca e le origini del pensiero
europeo, p. 174).
[5] Unità di misura di sessanta stadi
(circa 10 Km.).
[6] Poeta epico ed elegiaco che visse tra
il V e il IV secolo e scrisse La Tebaide, un poema
epico e la Lide una grande elegia che Callimaco definì pacu;
gravmma kai; ouj torovn (fr. 398 Pf.), opera grossa e non penetrante -
[7] B. Snell, La cultura greca e
le origini del pensiero europeo, p. 176.
[8] B. Snell, La cultura greca e
le origini del pensiero europeo, p. 177,
[9] B. Snell, La cultura greca e
le origini del pensiero europeo, p. 177
[10] Pirandello Il fu Mattia Pascal , p.173.
[11] Ed
è aizzato da un’ Elettra tanto determinata quanto spietata: al fratello, che ha
già colpito a morte la madre, grida :"colpisci un'altra volta se ce la
fai!" (Elettra, v.1405).
[12] M. Zambrano, L'uomo e il
divino, pp. 320 - 321.
[13] Ho impiegato la mia traduzione dei
vv. 1078 - 1080 della Medea.
[14] B. Snell, La cultura greca e
le origini del pensiero europeo, p. 180.
[15] B. Snell, La cultura greca e
le origini del pensiero europeo, p. 179
[16] Nel commento alla Medea vedremo
quanto grande sia il ruolo del letto “il mobile più importante della casa”.
[17] C’è
un’ espressione parallela a questa nei Memorabili di Senofonte dove Socrate si difende dall'accusa mossagli da Antifonte
sofista di essere un pezzente con queste parole: “mi sembra Antifonte, che tu
creda che la felicità sia lusso e la possibilità di spendere molto; io invece
credo che sia tipico del divino non avere bisogno di niente (ejgw;
de; nomivzw to; me;n mhdeno;~ devesqai qei'on ei\nai) e l’avere bisogno del meno possibile è la
condizione più vicina al divino"(I, 6, 10). Similmente nel De
tranquillitate animi di Seneca: “Respice agedum mundum: nudos
videbis deos, omnia dantes, nihil habentes” (8, 5), avanti, guarda
l’universo: nudi vedrai gli dèi che tutto danno e nulla possiedono.
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