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Argomento
Le Baccanti di Euripide e la questione tebana
Non sempre
ho condiviso i giudizi critici del regius professor of Greek in the
University of Oxford e. R. Dodds così spesso da me citato.
Io credo che
le Baccanti di Euripide costituiscano, nell’intenzione
dell’autore un’accusa integrale e assoluta della città di Tebe, acerrima nemica
di Atene. Niente si salva in questo “paese guasto”: non la politica, non
la religione, non la famiglia. Agave che, invasata da Dioniso, ha ucciso il
proprio figliolo, ed esce di scena maledicendo il Citerone contaminato (miarov~ , v. 1385) dal sangue di
Penteo, dà voce all’orrore di Euripide e al risentimento di tutti gli Ateniesi
per il comportamento dei Tebani durante le guerre persiane e le guerre tra i
Greci.
“Dopo la battaglia di Egospotami il tebano Erianto avrebbe persino proposto
di radere al suolo Atene (Plutarco, Lys. 15)”[1].
Nel prologo ampiamente espositivo delle Fenicie il lungo racconto di Giocasta rivela l’intento di
Euripide “di chiarire i presupposti della contesa che oppone Eteocle e Polinice
e di dare rilievo alla maledizione che pende sul loro capo. La fluente esposizione
della regina, che indugia su Laio, su Edipo e sulle cause del dissidio tra i
due fratelli, lungi dall’essere un inutile preambolo allo svolgersi dell’azione
scenica, è in realtà parte integrante di un disegno complessivo di
rivisitazione globale del mito tebano: non a caso i successivi canti corali
saranno volti ad indagare il passato eroico di Tebe a partire dalle sue origini
e a mostrare agli spettatori come un’ininterrotta catena di sangue segni di sé
la storia della città, dalla fondazione di Cadmo sino alla lotta fratricida tra
gli ultimi discendenti di Labdaco”[2].
L’esecrazione di Tebe del resto non si trova solo nei drammi di Euripide.
Nell’ Edipo a Colono di
Sofocle, composta, come le Baccanti, nel periodo finale
della guerra del Peloponneso “Atene e Tebe, con i loro rispettivi ordinamenti
politici, si configurano come due universi politici contrapposti, in cui la
convivenza sociale è in un caso giusta e civile, nell’altro oppressiva e
illegittima. Questo tema costituisce un motivo forte del dramma, che si
sviluppa con coerenza lungo tutta la trama ed è del resto un elemento
strutturale dell’ideologia politica simboleggiata nel dramma attico, dove Tebe
costituisce per eccellenza l’anti - città, dove la vita civile assume aspetti
patologici rispetto a quella di Atene (…) La libertà è prerogativa di Atene, l’abitrio di Tebe”[3].
“Teseo
arriva ben disposto verso Edipo, di cui conosce la sorte e compiange la miseria
- in questo modo connotandosi sin dall’inizio come il rappresentante dei valori
civili (pietà, benevolenza verso lo straniero, accoglimento delle suppliche),
tipicamente ateniesi, in contrapposizione con la feroce Tebe, che non rinuncia
a perseguitare Edipo anche in esilio, ed è espressione di crudeltà e inciviltà,
come appare dai suoi rappresentanti, Creonte e Polinice, che compariranno
successivamente sulla scena”[4].
Tebe è la polis contaminata anche nel prologo dell’Edipo re: il
sacerdote che informa Edipo sulla situazione, dice: "la città infatti,
come anche tu stesso vedi, troppo/già fluttua (saleuvei) e di sollevare il capo /dai gorghi del vortice insanguinato non è più
capace" (vv.22 - 24).
Maledetta è anche la famiglia del fondatore della città.
“La stirpe di Cadmo è tutta e sempre marcata dal tratto della lotta fra
consanguinei. Tebe ha inizio con la lotta degli Sparti fra loro, continua con
il figlio che ammazza il padre e causa il suicidio della madre, e termina con
l'uccisione reciproca di due fratelli"[5].
Tebe è un inferno che pullula di mostri, e la frequentazione dei
mostri a lungo andare rende mostruosi.
Questa propaganda antitebana avrà delle conseguenze nella storia.
Nel 335 Tebe si rivolta al dominio macedone,
e Alessandro la rade al suolo.
Arriano tende
a giustificare il giovane
figlio e successore di Filippo: la grande strage di Tebe fu fatta risalire
all’ira divina non inverosimilmente “oujk e[xw tou` eijkovto~ ej~ mh`nin
th;n ajpo; tou` qeivou ajnhnevcqh” ( Arriano I, 9, 6) per il tradimento dei Tebani
durante le guerre persiane, e per i fatti di Platea del 427. La strage dei
Plateesi voluta dai Tebani non era cosa da Greci, oujk JEllhnikh`~
genomevnh~ dia; Qhbaivou~ sfagh`~ (I, 9, 7).
Nel 427 ci fu un processo che per qualche aspetto prefigura quello di
Norimberga: i Tebani vollero la condanna degli assediati e sconfitti Ateniesi e
Plateesi, fedeli alleati di Atene, quali criminali di guerra.
“I Tebani
non hanno mai raggiunto, per lunghi secoli, l’egemonia perché non hanno mai
avuto ajgwghv o paideiva: malgrado essi per natura avessero
doti militari, avessero un ajreth; kata; povlemon potenziale, che non è da
confondersi con l’ajrethv che risulta dalla paideiva, l’ajrethv insomma per la quale, secondo
Isocrate (Filippo 132), Eracle, l’eroe modello dell’egemone greco,
fu assunto tra gli dèi (“dia; th;n ajreth;n eij~ qeou;~ ajnhvgage”). Ai Tebani mancò dunque
l’educazione che potesse trasformare l’ajrethv rozza, primitiva, nell’ajrethv che è segno del massimo
sviluppo civile. Ci fu una sola eccezione: il breve periodo di Epaminonda. Ma
appunto Epaminonda, per la sua cultura filosofica, era fornito di quella paideiva che mancava generalmente ai
suoi cittadini. Il “culto degli eroi” estremamente diffuso
nell’individualistico IV secolo permette a Eforo[6] di credere che un uomo solo abbia
potuto fare ciò a cui la sua città era negata. L’abituale posizione secondaria
di Tebe nel corso della storia greca, come la sua breve e rapida ascesa sono
così per Eforo, chiare: in funzione del concetto di paideiva messo da Isocrate a
contraddistinguere la vera civiltà greca. Non resta che dare la documentazione
di questi concetti. Già in uno dei primi libri della sua storia, nella parte
cioè etnografica, Eforo enunciava le due opposte caratteristiche dei
Beoti: ajrethv naturale, assenza di paideiva. E ne traeva la conseguenza sulla
eccezionalità della egemonia tebana: kai; fhsi pro;~ hJgemonivan eujfuw'~
e[cein , ajgwgh'/ de; kai; paideiva/ mh; crhsamevnou~, ejpei; mhde; tou;~ ajei;
proistamevnou~ proidei'n aujth'~, eij kaiv pote katwvrqwsan, ejpi; mikro;n to;n
crovnon summei'nai, kaqavper [Epameinwnda~ e[deixe (fr. 119 Jacoby = Strab., IX,
2, 2), Eforo dice
che i Beoti sono naturalmente ben conformati per l’egemonia, ma che, non avendo
mai avuta ajgwghv e paideiva, poiché nemmeno i loro capi se ne
curarono, se anche mai ebbero buona fortuna, vi durarono poco, come mostrò
l’esempio di Epaminonda”. A. Momigliano, La storiografia greca, p.
221.
Euripide è
concluso giovanni ghiselli
[1] Avezzù Guidorizzi, Edipo a Colono, p.
319.
[2] Di Marco, Op. cit., p. 203.
[3] Avezzù - Guidorizzi, Edipo a
Colono, p. 218 e p. 260.
[4] Avezzù - guidorizzi, Edipo a
Colono, p. 272.
[5] M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto
e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983,
p. 139.
[6] Eforo (IV
secolo), allievo di Isocrate, scrisse le Elleniche, una storia
greca dal ritorno degli Eraclidi ai suoi tempi. Si trattava di una storia
universale ellenocentrica eppure aperta alla storia delle altre nazioni.
“Polibio considerava Eforo suo predecessore come storico universale” (V, 33)” A. Momigliano, La
storiografia greca, p. 51
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