lunedì 25 gennaio 2021

Euripide. 45. Appendice

battaglia di Platea
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Argomento

Le Baccanti di Euripide e la questione tebana

 

Non sempre ho condiviso i giudizi critici del regius professor of Greek in the University of Oxford e. R. Dodds così spesso da me citato.

Io credo che le Baccanti di Euripide costituiscano, nell’intenzione dell’autore un’accusa integrale e assoluta della città di Tebe, acerrima nemica di Atene. Niente si salva in questo “paese guasto”: non la politica, non la religione, non la famiglia. Agave che, invasata da Dioniso, ha ucciso il proprio figliolo, ed esce di scena maledicendo il Citerone contaminato (miarov~ , v. 1385) dal sangue di Penteo, dà voce all’orrore di Euripide e al risentimento di tutti gli Ateniesi per il comportamento dei Tebani durante le guerre persiane e le guerre tra i Greci.

“Dopo la battaglia di Egospotami il tebano Erianto avrebbe persino proposto di radere al suolo Atene (Plutarco, Lys. 15)”[1].

 

Nel prologo ampiamente espositivo delle Fenicie il lungo racconto di Giocasta rivela l’intento di Euripide “di chiarire i presupposti della contesa che oppone Eteocle e Polinice e di dare rilievo alla maledizione che pende sul loro capo. La fluente esposizione della regina, che indugia su Laio, su Edipo e sulle cause del dissidio tra i due fratelli, lungi dall’essere un inutile preambolo allo svolgersi dell’azione scenica, è in realtà parte integrante di un disegno complessivo di rivisitazione globale del mito tebano: non a caso i successivi canti corali saranno volti ad indagare il passato eroico di Tebe a partire dalle sue origini e a mostrare agli spettatori come un’ininterrotta catena di sangue segni di sé la storia della città, dalla fondazione di Cadmo sino alla lotta fratricida tra gli ultimi discendenti di Labdaco”[2].

 

L’esecrazione di Tebe del resto non si trova solo nei drammi di Euripide.

 Nell’ Edipo a Colono di Sofocle, composta, come le Baccanti, nel periodo finale della guerra del Peloponneso “Atene e Tebe, con i loro rispettivi ordinamenti politici, si configurano come due universi politici contrapposti, in cui la convivenza sociale è in un caso giusta e civile, nell’altro oppressiva e illegittima. Questo tema costituisce un motivo forte del dramma, che si sviluppa con coerenza lungo tutta la trama ed è del resto un elemento strutturale dell’ideologia politica simboleggiata nel dramma attico, dove Tebe costituisce per eccellenza l’anti - città, dove la vita civile assume aspetti patologici rispetto a quella di Atene (…) La libertà è prerogativa di Atene, l’abitrio di Tebe”[3].

“Teseo arriva ben disposto verso Edipo, di cui conosce la sorte e compiange la miseria - in questo modo connotandosi sin dall’inizio come il rappresentante dei valori civili (pietà, benevolenza verso lo straniero, accoglimento delle suppliche), tipicamente ateniesi, in contrapposizione con la feroce Tebe, che non rinuncia a perseguitare Edipo anche in esilio, ed è espressione di crudeltà e inciviltà, come appare dai suoi rappresentanti, Creonte e Polinice, che compariranno successivamente sulla scena”[4].

 

Tebe è la polis contaminata anche nel prologo dell’Edipo re: il sacerdote che informa Edipo sulla situazione, dice: "la città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già fluttua (saleuveie di sollevare il capo /dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace" (vv.22 - 24).

 

Maledetta è anche la famiglia del fondatore della città.

“La stirpe di Cadmo è tutta e sempre marcata dal tratto della lotta fra consanguinei. Tebe ha inizio con la lotta degli Sparti fra loro, continua con il figlio che ammazza il padre e causa il suicidio della madre, e termina con l'uccisione reciproca di due fratelli"[5].

Tebe è un inferno che pullula di mostri, e la frequentazione dei mostri a lungo andare rende mostruosi. 

 

Questa propaganda antitebana avrà delle conseguenze nella storia.

Nel 335 Tebe si rivolta al dominio macedone, e Alessandro la rade al suolo.

Arriano tende a giustificare il giovane figlio e successore di Filippo: la grande strage di Tebe fu fatta risalire all’ira divina non inverosimilmente “oujk e[xw tou` eijkovto~ ej~ mh`nin th;n ajpo; tou` qeivou ajnhnevcqh” ( Arriano I, 9, 6) per il tradimento dei Tebani durante le guerre persiane, e per i fatti di Platea del 427. La strage dei Plateesi voluta dai Tebani non era cosa da Greci, oujk JEllhnikh`~ genomevnh~ dia; Qhbaivou~ sfagh`~ (I, 9, 7).

 

Nel 427 ci fu un processo che per qualche aspetto prefigura quello di Norimberga: i Tebani vollero la condanna degli assediati e sconfitti Ateniesi e Plateesi, fedeli alleati di Atene, quali criminali di guerra.

 

“I Tebani non hanno mai raggiunto, per lunghi secoli, l’egemonia perché non hanno mai avuto ajgwghv o paideiva: malgrado essi per natura avessero doti militari, avessero un ajreth; kata; povlemon potenziale, che non è da confondersi con l’ajrethv che risulta dalla paideiva, l’ajrethv insomma per la quale, secondo Isocrate (Filippo 132), Eracle, l’eroe modello dell’egemone greco, fu assunto tra gli dèi (“dia; th;n ajreth;n eij~ qeou;~ ajnhvgage”). Ai Tebani mancò dunque l’educazione che potesse trasformare l’ajrethv rozza, primitiva, nell’ajrethv che è segno del massimo sviluppo civile. Ci fu una sola eccezione: il breve periodo di Epaminonda. Ma appunto Epaminonda, per la sua cultura filosofica, era fornito di quella paideiva che mancava generalmente ai suoi cittadini. Il “culto degli eroi” estremamente diffuso nell’individualistico IV secolo permette a Eforo[6] di credere che un uomo solo abbia potuto fare ciò a cui la sua città era negata. L’abituale posizione secondaria di Tebe nel corso della storia greca, come la sua breve e rapida ascesa sono così per Eforo, chiare: in funzione del concetto di paideiva messo da Isocrate a contraddistinguere la vera civiltà greca. Non resta che dare la documentazione di questi concetti. Già in uno dei primi libri della sua storia, nella parte cioè etnografica, Eforo enunciava le due opposte caratteristiche dei Beoti: ajrethv naturale, assenza di paideiva. E ne traeva la conseguenza sulla eccezionalità della egemonia tebana: kai; fhsi pro;~ hJgemonivan eujfuw'~ e[cein , ajgwgh'/ de; kai; paideiva/ mh; crhsamevnou~, ejpei; mhde; tou;~ ajei; proistamevnou~ proidei'n aujth'~, eij kaiv pote katwvrqwsan, ejpi; mikro;n to;n crovnon summei'nai, kaqavper [Epameinwnda~ e[deixe (fr. 119 Jacoby = Strab., IX, 2, 2), Eforo dice che i Beoti sono naturalmente ben conformati per l’egemonia, ma che, non avendo mai avuta ajgwghv e paideiva, poiché nemmeno i loro capi se ne curarono, se anche mai ebbero buona fortuna, vi durarono poco, come mostrò l’esempio di Epaminonda”. A. Momigliano, La storiografia greca, p. 221.

 

Euripide è concluso giovanni ghiselli

 



[1] Avezzù Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 319.

[2] Di Marco, Op. cit., p. 203.

[3] Avezzù - Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 218 e p. 260.

[4] Avezzù - guidorizzi, Edipo a Colono, p. 272.

[5] M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 139.

[6] Eforo (IV secolo), allievo di Isocrate, scrisse le Elleniche, una storia greca dal ritorno degli Eraclidi ai suoi tempi. Si trattava di una storia universale ellenocentrica eppure aperta alla storia delle altre nazioni. “Polibio considerava Eforo suo predecessore come storico universale” (V, 33)” A. Momigliano, La storiografia greca, p. 51

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