Un auspicio: che l’identità smarrita
non vada anche perdutaDebrecen, Carnevale dei fiori
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Uscìi nel sole: trassi conforto dalla sua luce dal suo calore, dal colore che suscitava in tutto quanto vedevo, ma continuava a rodermi e infettarmi il germe patogeno dei dubbi che quella donna sospetta seguitava a gettarmi nel cervello e nel cuore da un mese. Mai un momento ci chiarezza, mai l’anima in pace durante tutti quei giorni. Solo qualche sprazzo di gioia precaria e fasulla.
La mia volontà di rimanere il più possibile a fruire della borsa di studio non era motivata tanto dal desiderio di rivedere i luoghi sacri dei miei amori passati da tempo, quanto dalla necessità di non sottomettermi al volere subdolo e prepotente di Ifigenia.
Eppure mentre passeggiavo nella via principale, il corso di Debrecen tra l’Aranybika e l’Hungaria pensavo che oramai quella donna era dentro di me, come i ricordi suscitati da ogni pietra della cittadina univesitaria ungherese. Tutto il mio passato di crescita dal luglio del 1966 era squadernato in quegli edifici, però il futuro non dava preavvisi lieti di ulteriore incremento vitale. Preferivo volgere lo sguardo indietro che indagare sul futuro gravido di minacce piuttosto che di promesse.
Ero già provvido, anche troppo, di un avvenir malfido.
Mi sentivo sul collo di nuovo il fiato del caos che mi aveva invaso dopo la fine del liceo fino a deformare la mia identità.
Quando percorsi per la prima volta quella via principale era il 15 luglio 1966 un poco dopo il tramomto del sole: nel crepuscolo era l’oscurità a essere attiva
La tenebra cresceva di minuto in minuto e mi fissava con mille occhi non buoni. Dovevo inserire i mostri della notte in un progetto di ordine: armonizzare e cosmizzare il caos: lo sentivo dentro di me e temevo un’invasione da quello di fuori. Nel 79 non ero così spaventato e smarrito perché sapevo che cosa mi rattristava: una donna che non si confaceva a me, al mio carattere, alla mia sensibilità, alla mia educazione. Dovevo trovare la forza di fare a meno di quel corpo splendido, cornice di un’anima torbida. I concubitus goduti a centinaia nell’ultimo anno non dovevano diventare ceppi ingfrangibili né lacci inestricabili. Avevo già smarrito la mia identità da ragazzo, se avessi ripetuto l’errore, la seconda volta, da uomo, essa sarebbe stata perduta per sempre e io sarei finito male, molto male, male definitivamente e del tutto.
Il 17 agosto del 1979 dunque il mezzogiorno era passato. Iniziava l’ultimo pomeriggio di quell’estare a Debrecen. Andai nella piscina. C’erano tante farfalle che svolazzavano sui fiori umidi dei prati frapposti alle vasche. Il sole calante, già ombreggiato dagli alberi dall’alta chioma non poteva più asciugarli. “L’autunno è vicino, sicché la pimavera non può essere troppo lontana”.
Mi venne in mente che tre giorni dopo, il 20 agosto, a Debrecen ci sarebbe stato il carnevale dei fiori. Kukka karnevali dicevano le finlandesi nella loro lingua dolce, dai suoni infantili; kukka karnevali illalla debrecenissa, carnevale dei fiori, di sera a Debrecen. Le mie finniche avevano i pregi dell’aspetto, dell’educazione, dell’intelligenza, dello stile e quello più grande di tutti: che non calcolavano. Ifigenia mi aveva cercato, lusingato e sedotto perché, arruolata come supplente in un liceo storico, non si sentiva sicura di sé e cercava un aiuto in un collega esperto, magari anche di aspetto gradevole. Ma dopo un anno si era ambientata e forse, probabilmente, non aveva più bisogno di me. In questo caso io pure avrei dovuto fare a meno di lei, e senza rimpianti. Questi semmai andavano a chi li aveva meritati con l’assenza di calcoli: Helena prima di tutte, poi Kaisa, poi Päivi.
giovanni ghiselli
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