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“Cara Costituzione, tu ci ricordi che non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme. Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona - che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione - si pensi in maniera isolata e autosufficiente.
I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri. Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli”.
Commento
“Non è possibile star bene da soli perché possiamo star bene solo assieme”
Il poeta ateniese Menandro, principale autore della Commedia nuova (IV secolo a. C.) nel dramma Duvskolo" (il Misantropo rappresentata nel 316) ci insegna che l’assoluta e totale autarchia non solo è disumana, ma non è proprio possibile.
Cnemone, il protagonista è un vecchio dal carattere reso duro, aspro, cattivo dalle cattiverie subite, come spesso accade. Si è rinchiuso in una solitudine rabbiosa con una figlia e una serva e prende a sassate chiunque si avvicini.
Menandro lo definisce
uomo disumano assai - ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra (v. 6)
e intrattabile (duvskolo" appunto) con tutti, che non sta bene con la gente" (ouj caivrwn t j o[clw/, v. 7).
A un certo punto però cade in un pozzo, e le due donne non riescono a riportarlo fuori
Allora si fa avanti il figliastro Gorgia che Cnemone aveva allontanato in malo modo e il giovane nonostante i maltrattamenti subiti lo tira su e gli salva la vita.
A questo punnto il vecchio misantropo capisce.
Quindi il misantropo si ricrede e spiega come è passato dall’errore all’intelligenza dell’errore attraverso la disgrazia (713-735):
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to; kerdaivnein)
Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)".
Incallito com’è nella solitudine non potrà cambiare vita, però ha per lo meno imparato a contraccambiare il bene con il bene, e non è poco. Il dolore lo ha aiutato a capire: è il “tw`/ pavqei mavqo"” annunciato per la prima volta dal coro di vecchi Argivi nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo: attraverso la sofferenza la comprensione (v. 177)
Ora passo al commento di queste parole della lettera alla Costituzione
Tu ci ricordi che dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive: non va bene che la persona - che tu ritieni così importante, che tu difendi e di cui vuoi il riscatto da ogni umiliazione - si pensi in maniera isolata e autosufficiente
Quando non c’è limite all’esercizio del potere vige la tirannide, una mala pianta denunciata e biasimata da molti testi classici. Un potere claudicante pur se assoluto. Mi limito a tradurre alcuni versi dell’ Edipo re di Sofocle: la prima antistrofe del secondo stasimo afferma che il tiranno è figlio della prepotenza e che tutte le tirannidi sono zoppe: "la prepotenza fa crescere il tiranno (u{bri" futeuvei tuvrannon), la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli/ che non sono opportuni e non convengono (mhde; sumfevronta)[1]/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede" e[nq j ouj podi; crhsivmw/-crh'tai "(vv. 873-879).
Le responsabilità collettive, il dovere del polivth", del cittadino, di partecipare alla vita della povli", della città, viene affermato con chiarezza dal Pericle di Tucidide nel logos epitafios citato sopra. Questa partecipazione collettiva è una peculiarità della quale gli Ayeniesi possono onorarsi “solo noi consideriamo (nomivzomen) non tranquillo (oujk ajpravgmona) ma inutile (ajll j ajcreĩon) chi non prende parte alla vita politica (tov te mhde;n tw̃nde metevconta). (Tucidide II, 40, 2)
Procedo con il commento di queste parole della lettera
I diritti impongono dei doveri. Ognuno è da te chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri. Tu, infatti, chiedi a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità, perché la società come tu la pensi non è un insieme di isole, ma una comunità tra persone, tra le nazioni e tra i popoli”.
L’isolamento viene di nuovo indicato con segno negativo.
Questa volta commento citando un latino di origine spagnola che cita un latino di origine africana, quindi aggiungo un moderno inglese:
Seneca afferma la naturalezza e la necessità dell'amore reciproco nell'Epistola 95:"natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi, ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Ille versus et in pectore et in ore sit:
homo sum, humani nihil a me alienum puto[2].
Ita habeamus: in commune nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur" ( 95, 52, 53), la natura ci ha messi alla luce legati da parentela, poiché ci ha fatto nascere dai medesimi elementi e per i medesimi scopi; questa ci ha messo dentro un amore reciproco e ci ha reso socievoli. Essa ha disposto l'equità e la giustizia; secondo il suo ordinamento è più deplorevole recare danno che riceverlo, in conseguenza dei suoi ordini le mani siano pronte per quelli che hanno bisogno di aiuto. Ci stia sempre nel cuore e in bocca quel verso famoso:
sono uomo, e non mi sento ostile a nulla di umano.
Facciamo questa considerazione: siamo nati per metterci a disposizione reciproca. La nostra società è molto simile a una volta di pietre che, destinata a cadere se non se lo impedissero a vicenda, proprio da questo fatto è tenuta in piedi.
Questa idea dell'humanitas che Terenzio trasmette dal circolo scipionico è stata e sarà ripresa nei secoli dei secoli : in Devotions upon Emergent Occasion di John Donne (1572-1631), per esempio, leggiamo:" Nessun uomo è un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un promontorio (…) la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana ("for whom the bell tolls "[3] ); suona per te”.
giovanni ghiselli
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