lunedì 25 gennaio 2021

Debrecen 1979. 79

Ricordi e progetti sulla riva del Danubio inquinato

 

Con cupa meraviglia mi chiesi come cinque anni prima avessi potuto togliermi le scarpe per camminare a piedi nudi sopra tale immondizia. Allora forse tutto mi sembrava bello assai e pulito perché avevo incontrato una donna capace di darmi i compiti che dovevo fare in modo egregio per migliorare, ed elevarmi fino al livello  di quella femmina umana, l’amante psicologa che sopravvalutavo poiché mi aveva detto quello che volevo sentirmi dire da una persona che mi piaceva e capiva.

 Il suo viso mi appariva plasmato dall’intelligenza e dalla forza della volontà. Il suo sguardo non era melenso come quello dei più. La consideravo straordinaria, semidivina. Non consideravo allora che la sua metà umana era fatta di povera carne mortale come la mia.

Notai una bottiglia di plastica rosa e una di vetro verde che si incrociavano simboleggiando il mio martirio. Vicino all’acqua camminava un vecchio iracondo, barcollante, forse ubriaco. Mi guardò minaccioso, sputò, imprecò.

Sulla riva c’erano anche stracci immondi,  unti di liquidi osceni scatole di plastica e di latta. Sull’acqua ondeggiavano altre schifezze come preservativi.

Pensavo alla figlia abortita e mi vennero in mente alcuni versi di Sofocle che descrive la situazione di Tebe infetta da un mivasma non ancora individuato, e desolata dall’epidemia che accumula cadaveri, dall’empietà, dalla sterilità.

La città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già ondeggia e non è più capace di sollevare il capo dai gorghi del flutto insanguinato/E si consuma nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo,e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti" (Edipo re, vv. 22-30).

Eppure cinque anni prima ci eravamo seduti lì a prendere il sole, poi ci eravamo spogliati e avevamo fatto il bagno dentro quell’acqua. No, non la medesima acqua. Bucce di angurie, cartacce luride a altre pocherio innominabili, deiezioni gettate giù  da ogni parte vi galleggiavano. Alzai gli occhi. Nella luce morente del tramonto vedevo colline giallastre di vegetazione morente. Nella primavera precedente con Ifigenia eravamo felici perché facevamo l’amore più e più volte stimolati non solo l’uno dalla persona dell’altro ma anche dal progetto di promuovere una rivoluzione culturale, un cambiamenti di gusti e costumi, intanto noi stessi, poi nel nostro ambiente, poi sempre più in grande.

Mi chiesi che cosa era rimasto delle gioie e dei progetti del tempo dell’amore.

Dileguate le amanti, in me qualcosa restava di quanto mi avevano infuso: la speranza e la volontà di salvare dal precipizio del nulla i significati estetici, morali e politici di quelle storie e degli ambienti in cui si erano svolte. Da Elena Schejbalova, la pimavera del ’68,   a Ifigenia la primavera del’ 79, undici anni con tanti cambiamenti di tutto.

Da una quercia enorme era caduto a terra un ramo grande. Mi avvicinai per osservarlo: era marcio. “Se non fosse stato fradicio, non sarebbe caduto. - pensai - La quercia però è rimasta in piedi, il ceppo resiste. Anche tu devi eliminare i tuoi rami malati" mi dissi: "l’egoismo, il narcisismo, l’esibizionismo istrionico. Conserva e potenzia invece il meglio di te, l’essenziale: la volontà di imparare per educare al meglio i ragazzi, il desiderio di scrivere per rendere migliore chi ti leggerà. Devi arrivare alla densità e intensità di significati che ammiri tanto in Sofocle.

Questi amori a tempo determinato devono servirti a creare un’opera che duri a lungo, molto a lungo. Altrimenti valeva la pena di prolungare almeno una di quelle frequentazioni. Con Ifigenia è ancora possibile."

Dalle nuvole a un tratto sbucò un raggio di sole.

 

giovanni ghiselli 

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