venerdì 31 gennaio 2020

La Potnia e il paredro



Vero è che la parola d’ordine delle femministe “più della metà del potere alle donne” non è un’utopia irrealizzabile, e forse non è vero che non si è mai realizzata,  a leggere Das Mutterrecht di Johann Jakob  Bachofen o la precisa nota  linguistica di Emile Benveniste:  “se si pensa alla corrispondenza tra il greco gunhv 'donna' e l'inglese queen  'regina' (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee ,Einaudi, 1970, p. 15).
A me il potere non piace e mi va bene che lo gestiscano altri. In genere  trovo poco gradevoli le persone di potere e sono sicuro che alle donne della mia levatura comandare non interessa.
L’unica preoccupazione che provo osservando alcune donne poco eleganti e poco fini che esercitano con volontà di prepotenza il misero potere che hanno è che certi uomini deboli e succubi, come se ne vedono tanti, facciano la fine per lo meno mentale di Agamennone (ucciso dalla moglie) o di Penteo (fatto a pezzi dalla madre) nella ripetersi della morte rituale o reale del paredro ucciso dalla povtnia che impera spietata su di lui.

Donne nell'epica greca. Parte 6. L'educazione di Achille nell'"Achilleide" di Stazio


Pompeo Batoni, Teti richiama Achille dal Centauro Chirone
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Achille, Tetide e Chirone nell’Achilleide di Stazio
Ai genitori dei bambini pigri e obesi


Un’altra parte della conferenza che terrò il 3 febbraio nella biblioteca Pezzoli di Bologna dalle 17
 Tutt’altra da quella dell’Iliade è la Tetide dell’Achilleide di Stazio (50 - 96).
In questo poema Achille è figlio spirituale di Chirone
Nel secondo poema, incompiuto, di Stazio, l’ombra come rifugio dei vili e paralisi della virtù dell’eroe, viene rinfacciata da Ulisse a Tetide che aveva imboscato il figlio dal re Licomede nell’isola di Sciro dopo averne fatto un travestito: “ Nimis o suspensa nimisque/ mater! An haec tacitā virtus torperet in umbra,/quae vix audito litui clangore refugit/et Thetin et comites et quos suppresserat ignes? ” (Achilleide, II, 37 - 40), troppo ansiosa e troppo madre! poteva paralizzarsi nell’ombra, in silenzio questa virtù che appena udito uno squillo di tromba è fuggita via da Tetide e dalle compagne e da quelle fiamme[1] che aveva represso? 
Achille stesso ricorda poi ai Greci, che si accinge a seguire verso Troia, come lo aveva educato Chirone: “visisque docebat/adridere feris nec fracta ruentibus undis/saxa nec ad vastae trepidare silentia silvae” (Achilleide, II, 103 - 105), mi insegnava a sorridere nel vedere le fiere e non temere le rocce spezzate dal precipizio delle cascate né i silenzi delle immani foreste.
Il più giusto dei Centauri[2] dunque insegnava all’allievo la letizia e il coraggio.
Inoltre lo induceva a essere sempre competitivo: avevo appena compiuto dodici anni, racconta il Pelide, “volŭcris cum iam praevertere cervos/et Lapĭthas cogebat equos praemissaque cursu/tela sequi” (II, 111 - 113), quando mi spingeva a battere nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti e a inseguire correndo le frecce lanciate prima. Dopo queste fatiche, Chirone, che accompagnava il ragazzo finché glielo permise l’età, elogiava lieto l’allievo e lo sollevava sulle proprie spalle: “laudabat gaudens atque in sua terga levabat” (II, 116).
Gli insegnava anche a non camminare pesantemente ma con leggerezza: “Saepe etiam primo fluvii torpore iubebar/ire supra glaciemque levi non frangere planta” (II, 117 - 118), spesso poi al primo gelarsi del fiume mi ordinava di camminarci sopra e con passo leggero di non rompere la crosta di ghiaccio.
La caccia doveva essere pericolosa e leale: Achille non doveva inseguire e abbattere inbelles…damnas…aut timidas…lyncas (II, 121 - 122), imbelli caprioli o linci paurose, ma stanare orsi inferociti e cinghiali fulminei (tristes turbare cubilibus ursos/fulmineosque sues II, 123 - 124), o, se si dava il caso, una tigre enorme o una leonessa che aveva appena figliato. 
Poi Achille si impratichiva nell’arte della guerra tra uomini. Non gli rimase ignoto nessun aspetto di Marte crudele.
Chirone gli insegnava anche a saltare enormi fossati, a correre su per le montagne veloce come in pianura, a respingere i macigni con lo scudo, a entrare in capanne incendiate a fermare una quadriga lanciata. Lo faceva entrare nel fiume tessalo Sperchìo quando era in piena e trascinava tronchi e macigni: Achille doveva respingere i flutti. Il ragazzo rimaneva in piedi con grande fatica: “ ferus ille minari/desŭper incumbens verbisque urgere pudorem” (II, 150 - 151), quello minacciava con durezza dall’alto e con le parole sollecitava l’orgoglio. Anche un alto amore di gloria, oltre un così grande testimone motivava Achille che reggeva a ogni fatica: “sic me sublimis agebat/gloria, nec duri tanto sub teste labores” (II, 152 - 153). Il lancio del disco, o la lotta o il pugilato, continua il giovane “ludus erat requiesque mihi” (II, 156) per me era gioco e ristoro, e questi esercizi non lo affaticavano più che il canto delle imprese degli antichi eroi. Inoltre Chirone insegnò al ragazzo la medicina “sucos atque auxilantia morbis/gramina, quo nimius staret medicamine sanguis/quid faciat somnos, quid hiantia vulnera claudat,/quae ferro cohibenda lues, quae cederet herbis/edocuit” (II, 159 - 163), i succhi e le erbe che curano le malattie, con quale rimedio si ferma il sangue eccessivo, che cosa si confà al sonno, cosa chiuda le ferite spalancate, quale male si deve aggredire col ferro, quale cede alle erbe.

Cfr. il Chirone dell’Ifigenia in Aulide il quale
Chirone, dikaiovtato" Kentauvrwn[3], il più giusto dei Centauri, "nodrì Achille"[4] insegnandogli quella naturalezza e semplicità di costumi che è la quintessenza dell'educazione nobile. Il figlio di Peleo nell'Ifigenia in Aulide riconosce tale alta paideia all'uomo piissimo che l'ha allevato insegnandogli ad avere semplici i costumi:"ejgw; d j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;" - Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926 - 927).
In tal modo il figlio di Peleo si abituò a scartare gli usi degli uomini malvagi (v. 709).

La madre però poi lo imboscò a Sciro presso il re Licomede. Ulisse lo scopre mettendo in mostra delle armi e gli dice:
o scelus! En fluxae veniunt in pectore vestes.
Scinde puer scinde et timide ne cede parenti (Achilleide, I, 533 - 534)

Interessante in questo poema i versi ecologici: per costruire le navi da guerra e il legno dei giavellotti:
Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sinunt
Taygeta, exuti viderunt aëra montes.
Iam natat omne nemus: caeduntur robora classi
Silva minor remis” (I, 426 - 429), non ci sono più in nessun luogo le ombre antiche, è più piccolo l’Otri e si abbassa l’erto Taigeto, i monti spogliati vedono l’aria. Oramai galleggia nel mare ogni bosco: si abbattono le querce per la flotta, la selva viene diradata per fare i remi

Nel secondo canto, incompleto, Achille ri ribella alla madre con queste parole:
Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes,
Paruimus nimium: bella ad troiana ratesque
Argolicas quesitus eo” (II, 17 - 19), ho obbedito, madre, sebbene tu dessi ordini intollerabili, ti ho troppo obbedito, salgo sulle navi greche dove sono richiesto per la guerra di Troia.
La madre dovette cedere davanti a tanta risolutezza.

Nelle Nuvole[5] di Aristofane il Discorso ingiusto (Lovgo" a[diko" ) sostiene che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv" , v. 1067) e non era piacevole passare la notte con lui, mentre la donna gode a essere sbattuta. Qui è notevole il capovolgimento del significato di u{bri", la prepotenza, che, applicata alla libidine della donna, diviene un valore.
 Un'idea non tanto peregrina e paradossale: la ritroviamo in Machiavelli:"Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però, sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano"[6].




[1] L’amore per Deidamia.
[2] Dikaiovtato" Kentauvrwn (Iliade, XI, 832).
[3] Iliade, XI, 832.
[4] Dante, Inferno, XII, 71.
[5] Del 423 a. C.
[6] Il Principe, 24.

La complicità sbagliata




Salvini ha fondato le sue speranze di successo su una sorta di complicità con la parte più incolta di questa nostra nazione che ha prodotto splendidissimi tesori di arte letteraria e figurativa. Opere che suscitano la meraviglia del mondo colto e costituiscono la parte più bella della nostra identità. Lo stesso errore ha fatto Renzi e hanno fatto i cosiddetti pentastellati.
Tutti costoro hanno scelto una complicità perdente.
giovanni ghiselli

p. s
il mio blog compirà domani 7 anni con 873.093 lettori fino a oggi alle 11

Due volte mortali




Nel XII canto dell’Odissea Circe parla  ai Greci tornati nell’isola Eèa dove avvengono le levate del sole ajntolai;   jHelivoio,  dopo l’incontro con i morti.  La maga figlia appunto del Sole li commisera quali infelici due volte mortali. scevtlioi disqaneve" 21-22 div" e qnh/vskw-, quando gli altri  uominimuoiono una volta sola o{te  t’ a[lloi a{pax qnhv/skous j a[nqrwpoi (12)
Mi è venuta in mente di nuovo Liliana Segre.

giovedì 30 gennaio 2020

Donne nell'epica greca. Parte 5. Ecuba nell'Iliade


Ettore giovinetto si arma tra Priamo ed Ecuba
anfora attica a figure rosse di Eutimide
Monaco, Staatliche Antikensammlungen.
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Altra parte della conferenza che terrò il 3 febbraio nella biblioteca Pezzoli di Bologna dalle 17

Ecuba nell’Iliade

Segnalo il gesto della madre dolorosa che mostra il petto[1] a Ettore per indurlo a non affrontare Achille: la vecchia regina, aperta la veste, con una mano solleva il seno, e prega il figlio di ricordare che gli aveva dato la mammella che fa scordare le pene:"ei[ potev toi laqikhdeva[2] mazo;n ejpevscon  - tw'n mnh'sai" (XXII, vv. 83 - 84)[3].
Ecuba ricorda a Ettore che lo ha partorito lei, con il suo corpo - o}n tevkon aujthv (87), e se Achille lo ucciderà, lei, la madre, non potrà nemmeno piangerlo morto, poiché “ti mangeranno veloci i cani presso le navi Argive” (87 - 89)
Nei vv. 431 - 436 Ecuba piange il figlio morto: lo rimpiange come mia gloria in città di giorno e anche di notte - moi nuvkta" te kai; h\mar - eujcwlhv kata; a[stu - ed eri il sogno di tutti - pa'si t j o[neiar - Troiani e Troiane, ma ora ti hanno raggiunto la morte e la moira - qavnato" kai; moi'ra.
Nell’ultimo canto del poema Priamo spinto da Iride mandata da Zeus decide di andare da Achille per riscattare il cadavere di Ettore. Quindi chiama Ecuba, le rivela il suo proposito e ne chiede il parere.
Ecuba cerca di dissuaderlo temendo per la sua vita ma Priamo replica dicendo di avere mevno" kai; qumov" - 198 - la forza d’animo e il desiderio che lo spingono terribilmente ainw'" a recarsi da Achille.



[1] Il denudamento del seno verrà attribuito da Eschilo al personaggio di Clitennestra che mostra il petto a Oreste per indurlo a compassione:" ejpivsce", w\ pai', tovnde d j ai[desai, tevknon, - mastovn"(Coefore , vv. 896 - 897), fermati, figlio, abbi rispetto di questo seno, creatura.
[2] Alceo attribuisce al vino (oi\nonlaqikavdea, fr. 96 D. , v. 3) questo aggettivo formato da lanqavnw e kh̃do~.
[3] “ Sulla terra sono molte buone invenzioni, le une utili, le altre gradevoli: per esse la terra è amabile. E certe cose vi sono così bene inventate, da essere come il seno della donna: utili e al tempo stesso gradevoli” F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 252.

Sul discorso della Senatrice onorevole Liliana Segre al Parlamento europeo

Liliana Segre

La simpatia che provo da sempre per tutti i perseguitati e i maltrattati della terra non mi impedisce di notare un difetto di logica nel discorso che la senatrice a vita ha tenuto un paio di giorni fa nel Parlamento europeo. Cito alcune parole dell’estratto pubblicato oggi, 30 gennaio, dal quotidiano “la Repubblica”.
L’onorevole Segre precisa a proposito del 27 gennaio 1945 che “Auschwitz non è stata liberata quel giorno. Quel giorno l’armata Rossa vi è entrata ed è molto bello il discorso che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro soldati russi che non liberano il campo perché i nazisti erano già scappati, ma si trovano di fronte a questo spettacolo incredibile (…) Io non fui liberata il 27 gennaio dall’Armata Rossa, facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita obbligati a una marcia che durò mesi (…) Prima attraversammo la Polonia e la Slesia, poi fu la Germania. Dopo mesi e mesi arrivammo allo Jugendlager di Ravensbruck ” (p. 1 e p. 29).
Ebbene devo correggere alcune parole di un discorso che nell’insieme condivido siccome è giusto, bello e commovente.
Un giovane disinformato potrebbe pensare, o un neonazista in mala fede dare da intendere, che Auschwitz sia stata liberata dai nazisti scappati. Sento il dovere di ricordare a chi mi legge che i nazisti sono scappati dopo che l’armata Rossa li aveva ricacciati dall’Unione sovietica invasa dall’armata tedesca con un’aggressione che aveva provocato milioni e milioni di morti.
L’armata rossa aveva già sconfitto l’esercito di Hitler il 27 gennaio del 1945. Aveva iniziato a sconfiggerlo 2 anni prima. Quanto alla “Marcia della morte che durò mesi” la senatrice non specifica chi la ordinò. Dal contesto pare siano stati i Russi. Se è così sono colpevoli anche loro. Chiedo lumi. Rimane comunque il fatto che il crematorio di Auschwitz cessò di funzionare funestamente e diabolicamente per l’arrivo imminente dei Sovietici che avevano sconfitto l’armata tedesca dopo che questa aveva conquistato quasi tutta l’Europa.
Scrivo questo per rispetto della logica e della storia.
Apprezzo molto il fatto che la signora Segre abbia notato la complicità data per lo meno dalle reticenze della borghesia italiana nonostante la “buona educazione” della stessa "buona" borghesia che una ventina di anni prima non si era peritata di plaudire alle squadracce fasciste che picchiavano e uccidevano i lavoratori i quali chiedevano giustizia sociale in italia e massacravano di botte deputati socialisti e comunisti.
Saluti
giovanni ghiselli

Donne nell'epica greca. Parte 4. Ettore e Andromaca. Gli sposi ottimi?

G. De Chirico, Ettore e Andromaca

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Seconda parte della conferenza che terrò il 3 febbraio nella biblioteca Pezzoli di Bologna dalle 17
Ettore e Andromaca
Andromaca, la moglie di Ettore, diverrà il prototipo della sposa buona, amorosa sottomessa nelle due tragedie di Euripide dove ha grande rilievo: l’ Andromaca di cui è eponima e le Troiane. Ma di questo più avanti.
Nell’Iliade questa “ottima moglie” cerca di trattenere il valoroso marito dal mettere a repentaglio la vita.
Fin dal poema più antico della letteratura occidentale, Andromaca significa la sposa innamorata, bisognosa dello sposo e a lui assolutamente devota: nel VI canto dell’Iliade dichiara il suo amore all'eroe troiano, dicendogli che per lei rappresenta tutti gli affetti e pregandolo di non esporsi troppo nella guerra sterminatrice:
 " Ettore, tu per me sei il padre e la veneranda madre - path;r kai; povtnia mhvthr - /e anche il fratello; tu sei pure il mio sposo fiorente; - qalero;" parakoivth" - koivth, il letto è il mobile più importante della casa - /allora, ti prego, abbi compassione - ejlevaire - e rimani qui sulla torre,/non rendere il figlio orfano e vedova la sposa" (vv. 429 - 432)
A lei allora rispose “Ettore grande, che agita il cimiero”: "certo anche a me tutto questo sta a cuore, donna; ma davvero terribilmente/ - aijnw'" - - mi vergogno[1] di Troiani e Troiane dal lungo strascico, se come un vile - kakw;" w}" - fuggo lontano dalla guerra;
né il cuore mi esorta, poiché ho imparato a essere generoso ejsqlov"
sempre, e a combattere con i primi prwvtoisi meta; Trwvessi - Troiani,
cercando di conservare la grande gloria - mevga klevo" - del padre e la mia stessa.
Io infatti so bene questo nell'anima e nel cuore:
giorno verrà quando la sacra Ilio sarà annientata
(e[ssetai h\mar o{t j a[n pot j ojlwvlh/ / [[Ilio" iJrh;)
e Priamo e il popolo di Priamo dalla buona lancia[2].
Ma non tanto dolore mi accora per il futuro dei Troiani
né della stessa Ecuba, né di Priamo sovrano
né dei fratelli, che molti e generosi
cadranno nella polvere buttati giù dai nemici,
quanto per te (o{sson seu`), quando uno degli Achei dalla corazza di bronzo/
ti trascinerà piangente, togliendoti libero giorno” (Iliade, VI, 441 - 455).

Secondo Euripide Ettore non era il bravo marito dell’Iliade ma aveva delle amanti e dei figli bastardi che Andromaca addirittura allattava.
Lo dice senza risentimento la stessa moglie nell’Andromaca di Euripide (del 427) dove l’ottima sposa arriva a dire che offriva perfino il proprio seno ai bastardi del marito per compiacerlo
"O carissimo Ettore, io per compiacerti / partecipavo ai tuoi amori[3], se in qualche occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho offerto già molte volte ai tuoi bastardi /, per non darti nessuna amarezza. / E così facendo attiravo a me lo sposo / con la virtù ; tu neppure una goccia di celeste rugiada/ lasci che si posi sul tuo sposo per paura" (vv. 222 - 228).
 L'abnegazione di Andromaca arriva al punto di accettare le amanti di Ettore condividendo gli amori di lui, ossia amandole. Se questo le dava amarezza (pikrovn , v. 225) non importa: bastava toglierla allo sposo. Con tali parole la vedova di Ettore cerca di istruire la giovane Ermione.

Nelle Troiane Andromaca racconta che offriva allo sposo silenzio di lingua e volto calmo (Troiane, 654). E non lasciava entrare in casa scaltre chiacchiere di femmine: e[sw te melavqrwn komya; qhleiw`n[4] e[ph - oujk eijsefrouvmhn (vv. 651 - 652).

 La corifea dell’ Elettra di Euripide dice, al pari di Andromaca, che le donne devono cedere in tutto allo sposo: gunai`ka ga;r crh; pavnta sugcwrei`n povsei (v. 1052).

Anche nelle Troiane come nel VI dell’Iliade, Ettore per Andromaca era tutto. Dopo la sua morte nella vita della moglie non c’è più alcuna speranza. Polissena immolata sulla tomba di Achille sta meglio di lei, conclude la vedova dell’eroe. Io infatti sarò schiava in casa di assassini (Troiane, v.660).


[1] Nella Civiltà di vergogna "il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della timhv, la pubblica stima (...) La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell'opinione pubblica, aijdwv"aijdevomai Trw'a", dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti" Dodds, I greci e l'irrazionale , p. 30
[2] Polibio assisté, alla distruzione di Cartagine, nella primavera del 146, e racconta del pianto, di Scipione vincitore che citò questi due versi dell'Iliade (VI 448 - 449) con i quali Ettore prevede la caduta di Troia e versò delle lacrime.
A Polibio che aveva domandato il perché di quel piangere, dicono che il vincitore senza schermirsi abbia pronunciato chiaramente il nome della sua patria "fasi;n ouj fulaxavmenon ojnomavsai th;n patrivda safw'"", Storie, 38, 22, 3) per la quale temeva quando rifletteva sul destino delle cose umane
[3] Cfr. Amarcord di Fellini.
[4] qhvleia - femina - felix - fecundus - filius - fello - as, succhio. Inglese female, feminin).

mercoledì 29 gennaio 2020

Il tempo e la felicità


Siamo contenti, se non addirittura felici quando sentiamo che la nostra vita è piena di cose da fare e che tutte queste ci piacciono.
Quando amiamo una donna che ci contraccambia e abbiamo voglia di stare con lei e lei con noi, e nessuno dei due sente la noia, tanto meno il dolore. Non  abbiamo tempo per annoiarci perché ci piace anche - e faccio il mio caso - leggere, scrivere, studiare, insegnare, correre a piedi e in bicicletta,  andare al cinema o a teatro, frequentare gli amici, parlare con loro. Magari condividere almeno un paio di queste attività belle e sane con l’amante amata quanto nessun'altra.
Allora le giornate passano in fretta ma i mesi e gli anni si allungano. La vita stessa intera.
Allora stimiamo noi stessi perché il tempo è "distentio ipsius animi"[1], un'estensione dell'animo stesso, e, se non lo sprechiamo, non sciupiamo l’animo, non ci perdiamo d’animo, non diventiamo pezzenti dello spirito.
Il tempo secondo Seneca è l'unico bene di cui la natura ci ha dotati, e pure precariamente. Sicché dobbiamo difenderne la proprietà e il diritto di uso con tutte le forze:"Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult " (Epist., 1, 3), tutto quanto è roba degli altri, soltanto il tempo è nostro; la natura ci ha messi in possesso di questo solo bene che fugge e scivola via, e da questo ci sbatte fuori chiunque vuole.
Credo che se lo utilizziamo tutto, e bene, possiamo addirittura prolungarlo su questa splendidissima terra inducendo chi ci ha mandato qua e non mandarci via troppo presto rispetto alle tante cose belle che abbiamo ancora da fare.
Dedico questa riflessione di un fine gennaio già primaverile alle donne di casa mia, a Helena Sarjantola, ai miei studenti  più bravi, agli ascoltatori e lettori che mi seguono ancora differendo la dipartita  e rendendo più bella questa mia vita mortale.
Baci
gianni   

p.s. il sole è appena tramontato rispetto al mio studio alle 16, 58 minuti e 15 secondi. Una "borsa di studio" di 50 minuti rispetto al minimo dicembrino.   


[1] Cfr.  Le Confessioni, XI, 25.

Donne nell'epica greca. Parte 3. La Magna Mater mediterranea

il culto della Magna Mater

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Prima parte della conferenza che terrò il 3 febbraio nella biblioteca Pezzoli di Bologna dalle 17

La Magna Mater mediterranea
Artemide signora delle belve
Era e Tetide però sono subordinate a Zeus
Nell’Iliade (VIII se. A. C.) la donna esiste come femmina umana e come divinità femminile, sostanzialmente subordinata a quella maschile, sebbene non manchi qualche sporadico ricordo della Magna Mater mediterranea, la povtnia prevalente sul maschio paredro, che le siede accanto al secondo posto.
 Vediamo di che si tratta.

La grande madre mediterranea.
Di questa Signora suprema che risale al tempo della civiltà minoica, pregreca, si trova una traccia in Iliade XXI, 470 dove Artemide è chiamata povtnia qhrw'n, signora delle belve.
Il termine povtnia (presente anche nell’ Odissea in I, 14 per esempio, a proposito della nuvmfh Calipso ) contiene un'idea di potenza: doveva essere un appellativo della Magna Mater mediterranea signora del mondo.
 [Artemi" del resto era solo uno dei molti nomi dati alla matriarca primordiale che infatti il protagonista del Prometeo incatenato invoca come "Qevmi" - kai gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva," Temide e Gea, una sola forma di molti nomi (vv. 209 - 210).
Tale dea, la Grande Madre chiamata in vari modi, doveva essere in origine anche Giocasta la moglie - madre di Edipo che Omero menziona quale "kalh;n jEpikavsthn, la bella Epicasta (Odissea, XI, 271).
 Con questa incestuosa regina di Tebe siamo a due soli nomi che nell'Antigone vengono funzionalizzati:"mhvthr kai; gunhv diplou'n e[po"" (v.53), madre e moglie, doppio nome. 

Nelle Baccanti di Euripide la "povtna qew'n" (v. 370) è diventata " JOsiva" , la Pietà dionisiaca, di un culto seguito dalle donne, le menadi seguaci di Bacco, un dio e una religione cui Penteo dichiara guerra, e la perde con la propria vita.

 Nelle Metamorfosi di Apuleio, Iside, la divinità egizia ai cui riti viene iniziato Lucio dopo varie peripezie, tornando da asino uomo, fa l'elenco dei nomi con i quali la dea viene chiamata e venerata presso i vari popoli:" primigenii Phryges Pessinuntiam deum matrem, hinc autocthones Attici Cecropeiam Minervam, illinc fluctuantes Cyprii Paphiam Venerem, Cretes sagittiferi Dictynnam Dianam, Siculi trilingues Stygiam Proserpinam, Eleusinii vetustam deam Cererem, Iunonem alii, Bellonam alii, Hecatam isti, Rhamnusiam illi, et qui nascentis dei Solis inchoantibus inlustrantur radiis Aethiopes utrique priscaque doctrina pollentes Aegyptii caerimoniis me propriis percolentes appellant vero nomine reginam Isidem "(XI, 5), i Frigii primigeni mi chiamano madre degli dèi di Pessinunte[1], qui gli autoctoni Attici Cecropia Minerva, di là i Ciprioti marittimi Venere Pafia, i Cretesi sagittari Diana Dictinna, i Siculi trilingui Stigia Proserpina, gli Eleusini antica dea Cerere, altri Giunone, altri Bellona, questi Ecate, quelli Ramnusia; e quelli che vengono rischiarati dai primi raggi del sole nascente, e gli uni e gli altri Etiopi, e gli Egizi ricchi di antica sapienza, onorandomi con le cerimonie che mi sono proprie, mi chiamano con il vero nome "regina Iside".
Che la figura femminile sia stata predominante in una fase della storia "non è inconcepibile se si pensa alla corrispondenza tra il greco gunhv 'donna' e l'inglese queen 'regina'[2].
Il romanzo di Apuleio insegna che una vita senza Iside è una vita da asino.

Ma nell’Iliade, di fatto, le divinità femminili sono subordinate a quelle maschili, ed Era, per conseguire un suo scopo non può dare ordini ma deve ricorrere alla cosmesi, al trucco, all’inganno, alla seduzione, alla lusinga nei confronti di Zeus (Iliade XIV, 170 ss.).
Era prima si lava, si unge, si pettina, si veste si infila attraverso i lobi ben bucati gli orecchini (e{rmata) a tre perle grosse come una mora, poi va da Afrodite che le dà per il petto una fascia ricamata dove c’è l’amore (filovth"), il desiderio ( i{mero") e la seduzione (pavrfasi") che ruba il senno anche ai saggi (217). Poi va da Zeus che quando la vede nomina una decina di altre amanti dicendo che nessuna di loro (Dia, Europa, Danae, Semele, Alcmena, Semele, Demetra, Latona) gli è mai piaciuta tanto. Neppure la stessa Era Zeus ha mai desiderato come in quel momento - oujde; seu' aujth'" - w" sevo nu'n e[ramai (327 - 328)

Nel I canto Tetide deve implorare l’onnipotente per impetrare un favore al figlio cui è stato negato l’onore meritato con il valore.




[1]Si tratta di Cibele.
[2]E. Benveniste, op. cit., p. 15.

Gli intellettuali.

Ho già scritto che preferisco la qualifica di studioso a quella di intellettuale: mi sembra più seria, documentabile e verificabile nell...