giovedì 30 marzo 2017

Il potere. VI parte


Nella Vita di Solone di Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde; n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi, il quale disse anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere stupito del fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli ignoranti (o{ti levgousi me; n oiJ sofoi; par j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”[1].
Nella storia romana "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis nel 451/450 agirono in favore della plebe: " Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi: "Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"[2]
Tacito menziona gli adultèri: "paucissima in tam numerosa gente adulteria ", quindi aggiunge: "nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude il capitolo: "plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges ".

 In conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges" (Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano”[3].

L'età giovanile, continua Isocrate, è quella della torbidezza spirituale: i ragazzi sono pieni di desideri e devono educarsi prendendo buone abitudini e compiendo fatiche che comportano gioia (43). Attività buone che costino fatica e diano soddisfazione. La paideiva va conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone. I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio: " ejpi; ta; " gewrgiva" kai; ta; " ejmporiva"" (Areopagitico, 44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all’ ippica, alla caccia, e alla filosofia. La cultura dello spirito equiparata alla ginnastica fa parte di quella concezione della paideia come gioco elevato espressa da Callicle nel Gorgia. Anche Senofonte vuole combinare equitazione ginnastica e caccia con l'amore per la cultura intellettuale.

Pure il Protagora, il sofista eponimo e personaggio del dialogo platonico (326c) di Platone fa dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori. Lo studio della poesia, della musica e la pratica della ginnastica li fanno oiJ mavlista dunavmenoi - mavlista de; duvnantai oiJ plousiwvtatoi -  i più ricchi che hanno possibilità maggiori mandano i figli a scuola prima e li fanno uscire dopo. E quando hanno lasciato la scuola, devono imparare le leggi perché non vivano a proprio arbitrio e a casaccio

Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi -  koinoiv, vv. 430 - 431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh; ~ - oJ plouvsiov~ te th; n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433 - 434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti.

Platone invece pensava che una buona educazione di base non avesse bisogno della costrizione delle leggi (Repubblica, 426e - 427a). Del resto tutta l'educazione superiore deve essere cosa di Stato.

Isocrate non vuole eliminare le differenze economiche. Il difetto dell'educazione moderna è la mancanza di ogni pubblico controllo, sostiene. Una volta l' ajkosmiva, la condotta disordinata, veniva deferita all'Areopago che cominciava con l'ammonizione, poi passava alla minaccia, quindi alla punizione. Prima c’era lo qewrei'n, l’osservare, poi il nouqetei'n, l’ammonire, quindi l' ajpeilei'n, il minacciare, infine il kolavzein, il punire. L'Areopago insomma katei'ce, teneva a freno i cittadini con sorveglianza e punizioni. Allora la gioventù non sciupava il suo tempo a oziare in locali da gioco o con le flautiste. Ogni giovane si atteneva all'attività dove era stato posto e cercava di imitare gli uomini che vi primeggiavano. Nel comportamento con gli anziani i ragazzi osservavano le regole del rispetto e della cortesia. Isocrate ricorda il dittico a contrasto dell'antica e nuova paideia disegnato da Aristofane nelle Nuvole. I giovani non andavano nelle osterie, non facevano i buffoni: quei canzonatori di professione che ora chiamano ingegnosi allora li consideravano dei disgraziati: " ejkei'noi dustucei'" ejnovmizon tou; " skwvptein dunamevnou" ou}" nu'n eujfuei'" prosagoreuvousin"(49). Il concetto di aijdwv" era un retaggio dell'antica etica e della formazione nobiliare.


CONTINUA



[1] Frammenti postumi, 1876, 14
[2] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46 - 48.
[3] Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17. 

mercoledì 29 marzo 2017

recensione di "Il fiume di Eraclito. Poesie" di Adriana Pedicini. II parte



Allora leggiamo la poesia Silenzio (p. 25)
Si fa nella mente
rarefatto pensiero
il silenzio.
Grava sugli occhi l’affanno
degli anni sepolti
per sempre
al futuro.
L’animo
ha doppio respiro
se rinasce il vigore
del sogno aurorale
del domani

Gli anni sepolti al futuro non sono morti dentro di noi poiché, come i nostri cari che non ci sono più, costituiscono una spinta verso la vita e l’amore, con il ricordo di tante cose belle e buone che ci hanno lasciato.

Vediamo ancora Inquietudine (p. 59)

Se l’uomo sapesse la sua fragilità
e la polvere del suo corpo conoscesse
cibo darebbe all’anima
che non in sale di palazzi ricchi vive
o nel luccichio di lussuose mense
dell’esistenza alti fondi al Vero inversi
di follia non divina segno
Vive nella libertà di deserti intatti
Che di poco o niente si compiace
E di ciel s’appaga, nella gioia sacra del dono
Che non attende la sua resa
Non olezzante di denaro lordo.
Non a fiumi di champagne deterge le sue macchie
Ma nel catino del pentimento monda le sue colpe.
Non mette guardia a difesa dei suoi averi
Ma tutti in sé li porta di virtù fatti e di pensiero
Che a giustizia mira e ad Amore eterno

E ora la presenza dei classici in questi versi

A proposito della fragilità umana (v. 1), Seneca nel De ira suggerisce il rimedio di considerare la nostra imbecillitas per sottrarci alla brama di fare del male al prossimo:"quid imbecillitatis obliti ingentia odia suscipimus et ad frangendum fragiles consurgimus? " (III, 42), perché dimenticando la nostra debolezza concepiamo odi colossali e fragili come siamo ci alziamo in piedi per infrangere altri?
Alla fragilità si aggiunge pure la brevità della vita:"interim, dum trahimus, dum inter homines sumus, colamus humanitatem" (III, 43), nel frattempo, finché inspiriamo, finché siamo tra gli uomini, coltiviamo l'umanità!

La polvere (v. 2) è il simbolo della morte: prefigura l'inevitabile esito della nostra vita:"what is this quintessence of dust? " (Amleto, 2, 2), che cosa è per me questa quintessenza di polvere? domanda il principe di Danimarca. Naturalmente l'uomo, e pure la donna, dei quali Amleto non si prende alcun piacere.
Nel poema di T. S. Eliot leggiamo: "I will shaw you fear in a handful of dust" (T. S. Eliot, The Waste Land, v.30), in un pugno di polvere vi mostrerò la paura.

Per la ricchezza povera d’anima (vv- 3-5) vediamo il Nigrino di Luciano (II sec. D. C.)

Luciano era andato a Roma per farsi visitare da un oculista, ma si recò da Nigrino “il filosofo platonico” e il suo pensiero produsse tanta ambrosia da trasformare in anticaglie le celebri Sirene. “Mi dimenticavo degli occhi e a poco a poco mi si faceva più acuta la vista dell'anima; fino a quel momento infatti non mi ero accorto che l'avevo portata cieca con me”. I Greci sono lodati (da Nigrino) poiché essi vivono con la filosofia e la povertà e non hanno piacere di vedere nessuno che introduca il lusso, e se qualcuno arriva da loro, lo rieducano. Così fecero con un ricco che ad Atene sfoggiava vesti multicolori e camiciotti di porpora. Le vesti sfoggiate e la porpora gliele fecero smettere, dando un po' di baia cittadinesca a quei fiori che vi aveva dipinti di tanti colori : Oh ! ecco già primavera ! :" e[ar h[dh", donde viene questo pavone ? Certo è la veste della mamma. E con altre simili piacevolezze lo canzona­vano per le moltissime anella che portava, per essersi alle­vato la zazzera, per la rilassatezza del vivere: per modo che tosto egli si fece moderato, e se ne partì molto mi­gliore che non era venuto, così corretto dal popolo
Ad Atene c'è semplicità di vita, tranquillità ed interesse. E' una vivere adatto per chi sia orientato verso le cose buone per natura. A Roma invece dominano vizi, lussi, piaceri.
Il filosofo volle vedere nei Romani i difetti propri dei conquistatori: superbia, rozzezza, ignoranza, da contrapporre all'umanità e alla raffinatezza dei Greci. Mise in rilievo quello che gli scrittori ufficiali fingevano di ignorare, sollecitando però il riso invece dello sdegno. Usava la categoria del ridicolo[1] per lasciare il pungiglione nella carne viva.
E' facile disprezzare i beni della fortuna quando si vede come sulla scena del mondo uno che era schiavo diventa padrone, un ricco povero, un miserabile re. La Fortuna infatti gioca con le sorti umane. Come possono non essere ridicoli i ricchi quando mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita inanellate, mostrando la loro ajpeirokaliva , inesperienza di bellezza?



CONTINUA


[1] Leopardi a proposito delle sue Operette morali dice:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394) .

lunedì 27 marzo 2017

recensione di "Il fiume di Eraclito. Poesie" di Adriana Pedicini. I parte


Adriana Pedicini
Il fiume di Eraclito
Poesie
Editore Mnamon, 2015


Ho letto questa bella raccolta di poesie di Adriana Pedicini.. Nella prefazione l’autrice scrive: “il fil rouge delle liriche che compongono la raccolta è il Weltshmertz (il soffrire universale) già cantato dei romantici senza patetismo ma con intensa commozione (p. 7).
Già in queste pagine del prologo si sente la presenza nobile e antica dei classici greci e latini: altri temi anticipati sono “il mistero che ci circonda”, l’angoscia che proviene “da tale buio”, “il tempo impietoso” che “non concede tregua” e l’abisso che “alla fine ci attende” e non possiamo evitare. A questo proposito la Pedicini cita i versi conclusivi della seconda strofe del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle.

Traduco qui l’intera strofe siccome prefigura alcuni contenuti e significati di questa raccolta.
L'uomo ha imparato a organizzarsi e a difendersi da tanti nemici, sia interni sia esterni, ma non ha mai trovato un rimedio risolutivo contro la morte.

“E la parola, e pari al vento il
pensiero, e a regolare gli istinti con le leggi
della città ha imparato, e a fuggire
degli inabitabili geli gli strali a cielo scoperto
e gli scrosci delle piogge terribili
con ogni risorsa; senza risorse per niente va
verso il futuro; da Ade soltanto
non potrà procurarsi lo scampo;
eppure da malattie immedicabili ha escogitato
vie di uscita" (Antigone, vv 353-364).

Dunque è dissennato mancare di rispetto alla vita, commenta Adriana, in quanto è “l’unico bene che possiamo saggiamente amministrare, senza esserne peraltro possessori” (p. 8).

Viene in mente Epitteto che scrive: “ricorda che sei attore di un dramma (mevmnhso o{ti upokrith;ς ei\ dravmatoς ), ma il regista è un altro, e il tuo compito è recitare bne (uJpokrivnasqai kalw'ς) il ruolo che ti è stato assegnato (to; doqe;n provswpon) [1].

L’individuo però è spesso fuorviato dalla tracotanza (u{briς) “in alcuni casi correlata a una radice di male più profonda e lontana, frutto di una eredità di colpe che risalgono a un passato precedente la sua esistenza: la catena delle “maledizioni” risale allora alle origini remote della stirpe” (p. 8).

E’ quanto si legge, per esempio, nei Sette a Tebe di Eschilo dove il protagonista Eteocle non è personalmente colpevole ma deve pagare per
"la trasgressione antica
dalla rapida pena
che rimane fino alla terza generazione:
quando Laio faceva violenza
ad Apollo che diceva tre volte,
negli oracoli Pitici dell'ombelico
del mondo, di salvare la città
morendo senza prole;
ma quello vinto dalla sua dissennatezza
generò il destino per sé,
Edipo parricida
 che osò seminare
il sacro solco della madre, dal quale nacque
radice insanguinata,
e fu la pazzia a unire
gli sposi dementi"(vv.742-757).

Quindi la Pedicini menziona opportunamente un altro aspetto cruciale, decisivo di non poche tragedie: il tw'/ pavqei mavqoς, la comprensione attraverso il dolore “l’unico veicolo possibile della conoscenza” (p. 8).

 Il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v. 177) di Eschilo ritorna in altre forme e in altri autori, antichi e moderni
Faccio solo un esempio: nell'Alcesti di Euripide. Admeto, sentendo e soffrendo il peso della solitudine dopo che ha chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito a questa resipiscenza, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

Ora vediamo una poesia di Adriana, quella che spiega la scelta del titolo dell’intera raccolta

Panta rei (p. 83)
Un giorno trascina l’altro e sono tanti
inutile dividerli in ieri oggi domani.
Il fiume va sempre al mare
dal cielo sempre la stessa pioggia,
sempre uguale.
Passano nell’aere le nuvole del tempo.
Il nastro rosa celeste della vita
s’intreccia al nero viola della morte.
La memoria non contiene tutto
si ferma al particolare
e lo fa eterno.

Questi versi raccolgono in una sintesi densa e mirabile ciò che in questo mondo si squaderna davanti ai nostri occhi mortali: il tempo, il cielo, il mare, la terra.
Leggendo questa e altre poesie del volume, si vedono davvero eternati alcuni aspetti di questo nostro rapido esistere, notati con un’attenzione precisa, filologica, eppure piena di meraviglia devota e commossa davanti al mistero di una natura che è piena di dèi e induce la persona sensibile a sentirsene parte vivente.

Leggiamo anche la poesia Resurrexit (p. 39)

Ho camminato su sentieri innevati
dove l’aria profumava di fresco
e il passo morbido non ledeva
le genziane nate da poco.
Le zolle brune e i pascoli mansueti
occhieggiavano sulle bianche macchie
dove il ragno spandeva il suo calore.
Sottili dai boschi colavano
rivoli d’acqua e la cascata bucava
con vorace scroscio la roccia.
In rapido corteo le nuvole
giocavano a rincorrersi
dispettose l’azzurro nascondendo,
il vento rapendole al cielo
in lunghi veli le sfrangiava
di angeli dalle ampie ali.
Dalle piume
come da piccole canne
di organo nascosto
saliva la melodia
del Resurrexit.
E l’eco lontana
nell’azzurro errabonda
al cuore giungeva
a placare le onde inquiete
di mille domande.

Il passo che “non ledeva le genziane nate da poco” ci dice il sacro rispetto davanti a questa natura creata dal più bravo degli artisti come afferma Platone nel Timeo[2].
Anche il ragno in questa opera d’arte ha la sua funzione positiva per la vita. Molto bella, plasticamente bella l’immagine della cascata che “bucava con vorace scroscio la roccia”.
Viene in mente la cascata di La montagna incantata di T. Mann: “avvicinandosi alla cascata si sentiva un fracasso sibilante, poi un frastuono. La videro: lo spettacolo era infernale: una catastrofe continua di schiuma e clangore che li stordiva con il suo rombo folle e smisurato , provocando pure allucinazioni acustiche”.
Le nuvole dispettose che nascondono l’azzurro fanno pensare a ragazzine capricciose, e le ampie ali degli angeli dalle piume sonore evocano il canto delle Moire sull’armonia delle sirene nel mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone. Questa poesia mostra che tutta la natura è imparentata con se stessa[3], tutto scorre e interferisce insieme, e tale visione placa “le onde inquiete” del cuore.
Adriana sa essere espressiva anche con il silenzio, ossia con l’utilizzo di poche parole.
Mi viene in mente quanto scrive Nietzsche : “Nessuno ha ancora spiegato perché gli scrittori greci abbiano fatto dei mezzi di espressione, di cui disponevano in quantità e forza sbalorditive, un uso così straordinariamente parco, che al paragone ogni libro posteriore ai Greci appare sgargiante, variopinto e sforzato…Lo stile sovraccarico in arte è la conseguenza di un impoverimento della forza di sintesi…Così è per Shakespeare, che, paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro lavorato nel modo più nobile, tale da far dimenticare il suo valore come metallo”[4].
Poi Dostoevskij: “Quello che sanno parlare bene, parlano brevemente”[5].



CONTINUA



[1] Egceirivdion 17
[2] Dove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo, è il migliore degli autori. Se il cosmo è bello (eij me;n dh; kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o Jdhmiourgo;ς ajgaqovς). Il demiurgo, (a[ristoς tw̃n aijtivwn), ha guardato al modello eterno (pro;ς to; ajivdion e[blepen). Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw̃n gegonovtwn 29a).
[3] Cfr. Platone, Menone, 82d th'" fuvsew" ajpavsh" suggenou'" ou[sh" ,),
[4] F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, p. 43, p. 45, p. 57.
[5] Dostoevkij, I Demoni, p. 223.

giovedì 23 marzo 2017

Il potere. V parte

Polibio

Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4, 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me; n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

 Luogo simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep. , 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Democrazia e isonomia dunque non coincidono: “Demokratìa” implica, nella terminologia politica greca, anche “isonomìa”, certo; ma evidentemente deve comportare anche qualche cosa di diverso…qualche cosa, appunto, che isonomìa non è sufficiente a significare, e che è significato invece dalla parola che vuol dire “potere del popolo”. Non soltanto liberté ed égalité dovevano costituire dunque il motto della democrazia ateniese; in esso avrebbe dovuto figurare qualche altra cosa, che non solo ad un Platone, ma anche ad un Isocrate o ad un Aristotele poteva non andare a genio: e non già perché essi fossero nemici della libertà e dell’uguaglianza, bensì forse proprio perché erano troppo amici di esse. E appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i poveri - noi oggi diremmo il proletariato -  hanno il potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella democrazia è che il popolo - cioè, ripeto, il proletariato - vi tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele condanna la demokratìa perché è un regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta di governo quella - la politèia -  in cui governa la maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia liberale”[1].
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce alla democrazia ma a un ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavth tavxiς)

Isocrate nell’Areopagitico (del 356) ricorda con nostalgia in tempo dei larghi poteri dell’Areopago malamente esautorato dalla riforma di Efialte nel 461. Dai tempi di Solone questo era una sorta di Tribunale Supremo e di Corte Costituzionale che esercitava la nomofulakiva, la custodia delle leggi, garantendo un indirizzo politico stabile. Questo consesso si prendeva cura anche del decoro dei cittadini. La paideiva infatti non deve limitarsi al pai'". Nel passato agli adulti si dedicavano cure più attente che ai ragazzi. L'Areopago vigilava sulla eujkosmiva, il buon contegno della cittadinanza. Potevano entrarvi solo persone di ottima nascita e che avessero dato prova di un carattere irreprensibile. Le buone leggi non bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere: " ejk tw'n kaq j eJkavsthn th; n hJmevran ejpithdeumavtwn" (40). A Sparta la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi scritte.
Cfr lo scita Anacarsi. 


CONTINUA



[1] G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11. 

domenica 19 marzo 2017

Twitter, CCLXXV

Guodo Reni
San Giuseppe e il bambin Gesù
19 marzo 2016 San Giuseppe, primum ver, prw'ton e[ar,  inizio della primavera.


Veniet mox ver meum: “quando faciam  uti chelidon, ut tacere desinam?”.

Il sangue di un solo  uomo versato a terra offende la grande madre di tutti noi.

Le nuove tecnologie non tolgono spazio a chi crea: i robot non potranno mai creare bellezza, né far nascere bambini umani.

La De Micheli parla con un autocompiacimento di rara comicità e idiozia. E’ uno spasso da non perdere.

Agli omosessuali: si non contineant, nubant. Melius est autem nubere quam uri. Questi matrimoni sarebbero segno di democrazia compiuta.
Se poi cadono i ponti sull’autostrada e schiacciano automobili con  dentro delle persone, questo non è così importante. Il telegiornale (3) ha dato, prima di tutte le altre, la notizia dei due uomini convolati a nozze sacrosante. Questa sì che è democrazia perfetta!

L'assassinio dell'immigrato, magari pure ladro, è il sogno collettivo della difettosa umanità leghista. Non in mio nome. Ovviamente.
Anni di galera vanno comminati a chi spara alle spalle di uno che fugge, sia pure un ladro. Se poi il colpo gli è scappato, come le feci o il vomito, è un aggravante.
Ma forse i leghisti credono che certi assassini siano musicali come Clarisse pensava di Moosbrugger, uno che squartava le prostitute ( in Musil , L’uomo senza qualità, parte seconda, cap. 54)

Visto che i mera homicidia piacciono tanto, perché non si ripristina la pena di morte e perfino i circenses dove exitus pugnantium mors est ?

Che una donna venga brutalmene, o comunque forzata, è senz’altro un orrore, ma sia chiaro che è un delitto da punire l’uccisione di un ladro colpito nelle spalle a fucilate o a revolverate mentre fugge



giovanni ghiselli, il poverello di Pesaro.


p. s.
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Questi sono i primi dieci paesi
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sabato 18 marzo 2017

Il potere. IV parte

boulè di Priene

“Nulla era più strano di questo popolo sovrano di Atene. Sempre geloso della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si abbandonava ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso irragionevole dei demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza valevano al di sopra di ogni cosa, il demos stesso esercitava malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e sui nobili, ai quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze d’ogni sorta; anzi il massimo piacere dei giurati era comminare condanne severe, perfino ingiuste, agli imputati più illustri, nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli ottimati ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano: associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i loro membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane, p. 114).
Aristofane denuncia ridendo la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~ (le Vespe, del 422). Un vecchio giudice dell’Eliea, Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino - dice - schioccano con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e nobili (vv. 626 - 628). E anche tu - rivolto al figlio Bdelicleone - mi temi. Ma il giovane che ha schifo di Cleone lo convincerà che il demagogo usa lui e altri vecchi pazzi compensandoli con una misera paga rispetto ai suoi colossali profitti.
“Si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo, all’interno della città democratica, una polarità o meglio antinomia tra l’idea della superiorità della legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e l'idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E' quello che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo dei generali vincitori alle Arginuse: "qui si vuole impedire al popolo di fare ciò che vuole!" E' il problema che dibattono Alcibiade e Pericle nel dialogo riportato da Senofonte"[1].

Nei Memorabili di Senofonte, Pericle tutore di Alcibiade, rispondendo alle domande urgenti del ragazzo non ancora ventenne, ammette che tutto quanto uno costringe a fare senza prima avere persuaso (mh; peivsa~ ajnagkavzei) o con parole scritte, o in altro modo, è piuttosto violenza che legge: "biva ma'llon h] novmo~ ei\nai" (1, 2, 45). Allora, lo incalza Alcibiade, tutti gli ordini che la massa, la quale ha potere sui ricchi, prescrive senza persuaderli, sarebbe violenza piuttosto che legge? Pericle elude la risposta dicendo all'adolescente che sta facendo sofismi tipicamente giovanili: da ragazzo li faceva anche lui (1, 2, 46).
Torniamo a Canfora: "La polarità è dunque nell'idea che il popolo è "al di sopra della legge" (processo delle Arginuse, dialogo di Pericle e Alcibiade) versus l'opposta idea (Demarato a Serse in Erodoto, 7, 104)"[2]. Demarato, uno Spartano esiliato e rifugiatosi dal re di Persia dice a Serse che i suoi concittadini, pur essendo liberi, non sono del tutto liberi: "e[pesti ga; r sfi despovth~ novmo~ (7, 104, 4), sopra di loro sta sovrana la legge. Si tratta però di Spartani, l'altro polo della Grecia.
Di nuovo Canfora: "In questa prospettiva, il dialogo Pericle - Alcibiade in Senofonte riveste una notevole importanza: Senofonte raffigura un Pericle assai lontano da Tucidide, 2, 65? Ovvero Pericle è ciò che si legge in 2, 65 perché sa bene ciò che spiega ad Alcibiade? "[3]. Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"") e non si faceva condurre più di quanto la conducesse (II, 65, 8).
Allora “l’istanza fatta valere dalla demoktratia ateniese (“ il popolo sia al di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo della circolarità masse - capi. E’ Teramene il grande regista del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[4].

Il buleuta Callisseno presentò l'accusa formulando una proposta di condanna a morte. La difesa degli strateghi fatta da Eurittolemo mise in rilievo l’illegalità della proposta di condannare a morte gli strateghi senza distinguere le responsabilità individuali e denuncia Teramene come colui che avrebbe dovuto raccogliere i naufraghi e che poi invece nell’assemblea precedente il processo aveva accusato gli strateghi (o{~ ejn th'/ protevra/ ejkklhsia/ kathvgorei tw'n strathgw'n, Senofonte, Elleniche, 1, 7, 31)


CONTINUA



[1] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 58.
[2] Luciano Canfora, op. e p. citate sopra.
[3] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[4] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59

mercoledì 15 marzo 2017

Il potere. III parte

Cambise, xilografia da Liber Chronicarum, 1494


Poco più avanti Platone illustra come l’eccesso di libertà porti alla schiavitù (563 E - 564 A), come dal popolo scaturisca il potere personale di un “protettore” desiderato e corteggiato dal popolo stesso (565 C - D), e come costui immancabilmente si faccia tiranno (566 B - 569 C). Costui susciterà anche delle guerre affinché il popolo abbia bisogno di un duce (566 e).
Erodoto, con il distacco che è tipico dei dibattiti senza vincitore, nel “dialogo sulla costituzione” svoltosi - secondo lui - in Persia alla morte di Cambise (522 - 521 a. C. ), fa sostenere al promotore della democrazia, Otanes, la polarità democrazia/tiranno, e al sostenitore dell’oligarchia, Megabizo, l’identità popolo sovrano/tirannide. Se dunque la polarità fondamentale dell’etica democratica è democrazia/tirannide, ben si comprende la centralità del mito dei tirannicidi nell’Atene del V secolo.
Quando perciò, documenti alla mano, Tucidide riscrive, la storia del (tentato) tirannicidio del 514 a. C. e lo svuota di ogni proposito politico, anzi lo riduce al rango di mediocre e inetta vendetta privata[1], egli compie in tal modo un’operazione che, con terminologia oggi corrente, potremmo definire prettamente “revisionistica”. E la compie su documenti, interpretando documenti, noti e meno noti… Nel libro sesto campeggia l’intrigo d’amore come causa determinante dell’attentato. Le prime parole dell’excursus intendono dare la notizia principale: “L’azione di Armodio e di Aristogitone fu compiuta a causa di una vicenda amorosa”[2] (ma poco dopo l’autore si lascia sfuggire espressioni quali “lottare per la libertà”[3] per indicare il proposito per il quale i congiurati agivano). Invece nel proemio al libro primo (scritto probabilmente più tardi) il motivo dell’eros è scomparso dalla rettifica di ciò che gli Ateniesi mal conoscono sul proprio mito fondatore, e tutto si riduce alla puntigliosa precisazione “credono (errando) che Ipparco, quando fu ucciso, fosse lui il tiranno”[4]. La diversità di bersaglio non può passare inosservata”[5].
Nella chiusura del capitolo Canfora fa una “congettura” che avvicina il caso della fine di Ipparco a quello di Melo: “Il trattamento anti - democratico inserito nel sesto libro è forse da mettersi in relazione, come anche il dialogo melio - ateniese, con l’opera di discredito della democrazia cui lo storico potrebbe essersi dedicato nel periodo in cui era in cantiere la congiura che abbatté il regime popolare (e di cui lui non era ignaro). Se una tale ipotesi sta in piedi, comprendiamo meglio fasi compositive e finalità di questi svolgimenti - Melo, la fine di Ipparco -, che sono confluiti dentro il racconto tucidideo ma che si legano al racconto in modo piuttosto lasso. Sia in un caso che nell’altro l’uso, o il non uso, dei documenti, da parte di Tucidide, ha avuto, in relazione ai fini perseguiti, una funzione determinante”[6]

“Non minore nobiltà, del resto, Erodoto presta, nel cap. 104 del libro VII, alla risposta che il greco Demarato dà a Serse, quando questi giudica elemento di debolezza per i Greci la libertà che vige tra essi. Demarato, il quale pure è al servizio del re persiano, non esita a rivendicare il valore della libertà, di quella libertà che nasce dall’obbedienza alle leggi:
Essi pur essendo liberi non sono liberi del tutto: sovrasta loro infatti sovrana la legge…(VII, 104)”[7]. Demarato parla degli Spartani. Vediamolo in greco: “ejleuvqeroi ga; r ejovnte~ ouj pavnta ejleuqeroiv eijsi: e[pesti gavr sfi despovth~ novmo~” (VII, 104, 4).
Fassò ricorda che il coro dei Persiani di Eschilo dice ad Atossa che gli Ateniesi combattenti a Salamina non si chiamano schiavi di nessun uomo e di nessuno sono sudditi (v. 242).
Nel Pro Cluentio[8], Cicerone scrive “legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus” (147): siamo servi delle leggi solo al fine di poter essere liberi “e lo ridiceva, ancor più concisamente, Locke nel diciassettesimo secolo: “Dove non c’è legge non c’è libertà”. Però, chi più di ogni altro ha martellato sulla tesi che la libertà era fondata dalla legge e nella legge è stato Jean - Jaque Rousseau: “quando la legge è sottomessa agli uomini” scrive” non restano che degli schiavi o dei padroni; è la certezza di cui sono più certo: la libertà segue sempre la sorte delle leggi, essa regna e perisce con queste”. Perché la libertà ha bisogno della legge? Perché se governano le leggi - che sono regole generali e impersonali - non governano gli uomini, e per essi la volontà arbitraria, dispotica o semplicemente stupida di un altro uomo”[9].
 Bisogna però dire, e Fassò non lo nasconde, che Demarato era spartano e che, per quanto riguarda l’uguaglianza di tutti davanti alla legge cui tutti dovrebbero sottomettersi, dopo la battaglia delle Arginuse (406 a. C. ), il popolo ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino; n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to; n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12). "E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4: " quando il popolo è padrone di fare quello che vuole"). [10]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia in Aulide[11] di Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e ajnomiva de; novmwn kratei' (v. 1095), la licenza prevale sulle leggi.



CONTINUA


[1] Tucidide, VI, 54 - 59.
[2] VI, 54, 1.
[3] VI, 56, 3.
[4] I, 20, 2. Cfr. p. 83 Ndr.
[5] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, pp. 55 - 56.
[6] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, p 52 e p.. 56.
[7] G. Fassò, La democrazia in Grecia, p. 52.
[8] Del 66 a. C.
[9] G. sartori, La democrazia in trenta lezioni, pp. 45 - 46.
[10]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica, Volume I, Tomo II, p. 835.
[11] Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.

domenica 12 marzo 2017

Il potere. II parte



Ancora sul film di Chaplin. Il segno ambiguo del tappeto rosso.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione. Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”[1].
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”[2].
Credo di avere riconosciuto un’eco del tappeto rosso nel film di Chaplin The great dictator (1940): Napoloni - Mussolini, in visita da Hynkel - Hitler, non è disposto a scendere dal treno se non gli distendono davanti un tappeto: “I never get out without a carpet”.

Il film di Chaplin può essere connesso anche a un verso delle Baccanti di Euripide: “to; sofo; n d’ ouj sofiva” (v. 395).
Il sapere non è sapienza, il potere non è potenza. Il sapere a volte è prepotenza.

“Essere uomo significa avere un logos. Ma la tragedia più tarda presenta un movimento inverso. All’Agamennone del principio dell’Ifigenia in Aulide la riflessione ha tolto la sicurezza dell’agire, ed Euripide dice spesso che qualcuno è troppo sapiente”[3].

Insomma: la sapienza sa di vita. Sentiamo il piccolo grande uomo del film: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

“In un passo delle sue Storie, Erodoto sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la democrazia politica era stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari persiani implicati nella congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso Smerdis. Erodoto si lamenta del fatto che i Greci, durante le sue letture pubbliche, non avevano accettato questa informazione molto netta e dettagliata (III, 80). Un grande storico della Grecia e della Persia, David Asheri, ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in maniera velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che la democrazia sarebbe un’“invenzione” greca[4][5].
Del resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per designare plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo. Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione - e la parola - democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[6].

Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).

 Platone mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane, poi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti (yeudei'" dh; kai; ajlazovne"lovgoi te kai; dovxai 560c) le quali chiamando il pudore stoltezza (th; n me; n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [7] de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai; ajneleuqerivan 560d). E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me; n eujpaideusivan kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e - 561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).

La tirannide di Ippia fu eliminata dall’intervento degli Spartani.
“Sparta, tradizionale capofila delle oligarchie, abbatte la tirannide in Atene. Ciò però non impedisce che tirannide e oligarchia finiscano, nel gergo democratico, per essere adoperati come sinonimi o comunque come una endiadi. Ecco quindi ad esempio, in una commedia messa in scena in Atene poco prima del colpo di mano oligarchico del 411, personaggi che debbono incarnare la figura del “democratico medio” esclamare in modo tragicomico: “sento odore di Ippia!”[8], per dire: c’è in giro una minaccia di oligarchia. Insomma, contro ogni corretta distinzione politologica, nella coscienza diffusa e nel linguaggio corrente la schematica polarità che si afferma è democrazia/tirannide. Ovviamente grazie a tale polarità la democrazia si autolegittima. Resta invece appannaggio dei filosofi, oltre ovviamente che della cultura politica oligarchica, il sovvertimento radicale di tale polarità: in quest’altra prospettiva è il demo onnipotente della città democratica che assume le fattezze del tiranno, ad esempio nelle drammatiche pagine della Repubblica di Platone (557 A):

La democrazia si instaura quando i poveri trionfano nello scontro civile sui loro avversari: un po’ li ammazzano, altri li scacciano. Con quelli che restano si spartiscono i diritti politici e le magistrature, anzi spesso addirittura le tirano a sorte. - E’ così, rispose, che si instaura la democrazia: o per mezzo delle armi, o perché presi dal terrore, i ricchi scappano e abbandonano il campo.


CONTINUA



[1] Jan Kott, Mangiare Dio, p. 142.
[2] V. Di Benedetto (introduzione a) Eschilo, Orestea, p. 26.
[3] B. Snell, Poesia e società, p. 151.
[4] Erodoto, Le Storie, libro III, La Persia, Fondazione Valla, Milano, 1990, p. 297.
[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[6] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 15 e p. 33.
[7] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte del disso; " lovgo" ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione antica (vv. 961 sgg. ).. Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
[8] Aristofane, Lisistrata, 619. E’ il coro dei vecchi

Argomenti della Montagna incantata II- per la conferenza dell’otto aprile.

  Parti del Quinto capitolo. Da Capricci di Mercurio a Notte di Valpurga.   I tisici dissoluti. Le storie d’amore erano attraent...