giovedì 23 marzo 2017

Il potere. V parte

Polibio

Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4, 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me; n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

 Luogo simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep. , 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Democrazia e isonomia dunque non coincidono: “Demokratìa” implica, nella terminologia politica greca, anche “isonomìa”, certo; ma evidentemente deve comportare anche qualche cosa di diverso…qualche cosa, appunto, che isonomìa non è sufficiente a significare, e che è significato invece dalla parola che vuol dire “potere del popolo”. Non soltanto liberté ed égalité dovevano costituire dunque il motto della democrazia ateniese; in esso avrebbe dovuto figurare qualche altra cosa, che non solo ad un Platone, ma anche ad un Isocrate o ad un Aristotele poteva non andare a genio: e non già perché essi fossero nemici della libertà e dell’uguaglianza, bensì forse proprio perché erano troppo amici di esse. E appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i poveri - noi oggi diremmo il proletariato -  hanno il potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella democrazia è che il popolo - cioè, ripeto, il proletariato - vi tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele condanna la demokratìa perché è un regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta di governo quella - la politèia -  in cui governa la maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia liberale”[1].
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce alla democrazia ma a un ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavth tavxiς)

Isocrate nell’Areopagitico (del 356) ricorda con nostalgia in tempo dei larghi poteri dell’Areopago malamente esautorato dalla riforma di Efialte nel 461. Dai tempi di Solone questo era una sorta di Tribunale Supremo e di Corte Costituzionale che esercitava la nomofulakiva, la custodia delle leggi, garantendo un indirizzo politico stabile. Questo consesso si prendeva cura anche del decoro dei cittadini. La paideiva infatti non deve limitarsi al pai'". Nel passato agli adulti si dedicavano cure più attente che ai ragazzi. L'Areopago vigilava sulla eujkosmiva, il buon contegno della cittadinanza. Potevano entrarvi solo persone di ottima nascita e che avessero dato prova di un carattere irreprensibile. Le buone leggi non bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere: " ejk tw'n kaq j eJkavsthn th; n hJmevran ejpithdeumavtwn" (40). A Sparta la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi scritte.
Cfr lo scita Anacarsi. 


CONTINUA



[1] G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11. 

2 commenti:

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