Polibio |
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~
oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j
a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4, 4), similmente non è
democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e
preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è
tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli
anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere
dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan
nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più
avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano
pochi (ojlivga me; n ta; pikrav)
mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla;
de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se
non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia
radicale.
Luogo simile in
Cicerone: “Si vero populus plurimum
potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero
licentia” ( de rep. , 3, 23), se
poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio,
quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Democrazia e isonomia dunque non coincidono: “Demokratìa” implica, nella terminologia
politica greca, anche “isonomìa”, certo;
ma evidentemente deve comportare anche qualche cosa di diverso…qualche cosa, appunto,
che isonomìa non è sufficiente a
significare, e che è significato invece dalla parola che vuol dire “potere del
popolo”. Non soltanto liberté ed égalité dovevano costituire dunque il
motto della democrazia ateniese; in esso avrebbe dovuto figurare qualche altra
cosa, che non solo ad un Platone, ma anche ad un Isocrate o ad un Aristotele
poteva non andare a genio: e non già perché essi fossero nemici della libertà e
dell’uguaglianza, bensì forse proprio perché erano troppo amici di esse. E
appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne
risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del
IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di
uguaglianza, bensì quella che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la
definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode
spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di
classe nel quale i poveri - noi oggi diremmo il proletariato - hanno il potere, che Aristotele la considera
forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele
deplora nella democrazia è che il popolo - cioè, ripeto, il proletariato - vi
tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn”
(Politica, 1298b), padrone delle
leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e
l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da
quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele
condanna la demokratìa perché è un
regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma
retta di governo quella - la politèia
- in cui governa la maggioranza sì, ma
sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia
liberale”[1].
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce alla democrazia ma a un
ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavth
tavxiς)
Isocrate nell’Areopagitico
(del 356) ricorda con nostalgia in tempo dei larghi poteri dell’Areopago malamente
esautorato dalla riforma di Efialte nel 461. Dai tempi di Solone questo era una
sorta di Tribunale Supremo e di Corte Costituzionale che esercitava la nomofulakiva, la custodia delle leggi, garantendo
un indirizzo politico stabile. Questo consesso si prendeva cura anche del
decoro dei cittadini. La paideiva
infatti non deve limitarsi al pai'".
Nel passato agli adulti si dedicavano cure più attente che ai ragazzi. L'Areopago
vigilava sulla eujkosmiva, il buon
contegno della cittadinanza. Potevano entrarvi solo persone di ottima nascita e
che avessero dato prova di un carattere irreprensibile. Le buone leggi non
bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non
nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere: " ejk tw'n kaq j eJkavsthn th; n hJmevran
ejpithdeumavtwn" (40). A Sparta la condotta dei cittadini era buona
e assai modesto il numero delle leggi scritte.
Cfr lo scita Anacarsi.
CONTINUA
Giovanna Tocco
RispondiEliminaBel lavoro.
RispondiEliminaAlessandro