Ancora sul film di Chaplin. Il segno ambiguo del tappeto
rosso.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa
soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione.
Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la
superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo
significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa
- a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone
nell’Orestea. Questo tappeto è un
vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma
nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che
dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio
blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia
sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso
di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”[1].
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto
sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un
serrato dialogo con la donna)”[2].
Credo di avere riconosciuto un’eco del tappeto rosso nel
film di Chaplin The great dictator
(1940): Napoloni - Mussolini, in visita da Hynkel - Hitler, non è disposto a
scendere dal treno se non gli distendono davanti un tappeto: “I never get out without a carpet”.
Il film di Chaplin può essere connesso anche a un verso
delle Baccanti di Euripide: “to; sofo; n d’ ouj sofiva” (v. 395).
Il sapere non è sapienza, il potere non è potenza. Il sapere
a volte è prepotenza.
“Essere uomo significa avere un logos. Ma la tragedia più tarda presenta un movimento inverso. All’Agamennone
del principio dell’Ifigenia in Aulide la
riflessione ha tolto la sicurezza dell’agire, ed Euripide dice spesso che
qualcuno è troppo sapiente”[3].
Insomma: la sapienza sa di vita. Sentiamo il piccolo grande uomo del film: “Our knowledge has made us cynical, our
cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than
machinery we need humanity. More
than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci
ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e
sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che
di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.
“In
un passo delle sue Storie, Erodoto
sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la democrazia politica era
stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari persiani implicati nella
congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso Smerdis. Erodoto si lamenta
del fatto che i Greci, durante le sue letture pubbliche, non avevano accettato
questa informazione molto netta e dettagliata (III, 80). Un grande storico
della Grecia e della Persia, David
Asheri, ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in
maniera velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che
la democrazia sarebbe un’“invenzione” greca[4]”[5].
Del
resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità
di diritti, per designare plh'qo~
a[rcon (III, 80, 6), il
governo del popolo. “Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo
“popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il
carattere violento (kràtos indica per
l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema
politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un
sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso
della Repubblica di Platone
addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi
che nasce la nozione - e la parola - democratìa,
a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come
termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la
democrazia”[6].
Il
filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di
serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle
abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del
popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che
distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh,
ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~
dianevmousa).
Platone mette in
rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme
costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del
giovane, poi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti (yeudei'" dh; kai; ajlazovne"… lovgoi te kai; dovxai 560c) le quali
chiamando il pudore stoltezza (th; n me; n
aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando
la temperanza viltà (swfrosuvnhn [7]
de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e
mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono
rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai;
ajneleuqerivan 560d). E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di
molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli
nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me; n eujpaideusivan
kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan
de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e - 561). L’uomo
così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti
umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i
giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).
La tirannide di Ippia fu eliminata dall’intervento degli
Spartani.
“Sparta, tradizionale capofila delle oligarchie, abbatte la
tirannide in Atene. Ciò però non impedisce che tirannide e oligarchia finiscano,
nel gergo democratico, per essere adoperati come sinonimi o comunque come una
endiadi. Ecco quindi ad esempio, in una commedia messa in scena in Atene poco prima
del colpo di mano oligarchico del 411, personaggi che debbono incarnare la
figura del “democratico medio” esclamare in modo tragicomico: “sento odore di
Ippia!”[8],
per dire: c’è in giro una minaccia di oligarchia. Insomma, contro ogni corretta
distinzione politologica, nella coscienza diffusa e nel linguaggio corrente la
schematica polarità che si afferma è democrazia/tirannide. Ovviamente grazie a
tale polarità la democrazia si autolegittima. Resta invece appannaggio dei
filosofi, oltre ovviamente che della cultura politica oligarchica, il
sovvertimento radicale di tale polarità: in quest’altra prospettiva è il demo
onnipotente della città democratica che assume le fattezze del tiranno, ad
esempio nelle drammatiche pagine della Repubblica
di Platone (557 A):
La democrazia si instaura quando i poveri trionfano nello
scontro civile sui loro avversari: un po’ li ammazzano, altri li scacciano. Con
quelli che restano si spartiscono i diritti politici e le magistrature, anzi spesso
addirittura le tirano a sorte. - E’ così, rispose, che si instaura la
democrazia: o per mezzo delle armi, o perché presi dal terrore, i ricchi
scappano e abbandonano il campo.
CONTINUA
[1] Jan Kott, Mangiare Dio, p. 142.
[2] V. Di Benedetto (introduzione a) Eschilo, Orestea, p. 26.
[3] B. Snell, Poesia e società, p. 151.
[4] Erodoto, Le Storie, libro III, La
Persia, Fondazione Valla, Milano, 1990, p. 297.
[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[6] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 15 e p. 33.
[7] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto
dà inizio alla sua parte del disso; " lovgo"
ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza
dell'educazione antica (vv. 961 sgg. ).. Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando
mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se
stesso (980).
[8] Aristofane, Lisistrata, 619. E’ il coro dei vecchi
Giovanna Tocco
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