NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 12 marzo 2017

Il potere. II parte



Ancora sul film di Chaplin. Il segno ambiguo del tappeto rosso.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione. Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”[1].
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”[2].
Credo di avere riconosciuto un’eco del tappeto rosso nel film di Chaplin The great dictator (1940): Napoloni - Mussolini, in visita da Hynkel - Hitler, non è disposto a scendere dal treno se non gli distendono davanti un tappeto: “I never get out without a carpet”.

Il film di Chaplin può essere connesso anche a un verso delle Baccanti di Euripide: “to; sofo; n d’ ouj sofiva” (v. 395).
Il sapere non è sapienza, il potere non è potenza. Il sapere a volte è prepotenza.

“Essere uomo significa avere un logos. Ma la tragedia più tarda presenta un movimento inverso. All’Agamennone del principio dell’Ifigenia in Aulide la riflessione ha tolto la sicurezza dell’agire, ed Euripide dice spesso che qualcuno è troppo sapiente”[3].

Insomma: la sapienza sa di vita. Sentiamo il piccolo grande uomo del film: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

“In un passo delle sue Storie, Erodoto sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la democrazia politica era stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari persiani implicati nella congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso Smerdis. Erodoto si lamenta del fatto che i Greci, durante le sue letture pubbliche, non avevano accettato questa informazione molto netta e dettagliata (III, 80). Un grande storico della Grecia e della Persia, David Asheri, ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in maniera velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che la democrazia sarebbe un’“invenzione” greca[4][5].
Del resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per designare plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo. Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione - e la parola - democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[6].

Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).

 Platone mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane, poi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti (yeudei'" dh; kai; ajlazovne"lovgoi te kai; dovxai 560c) le quali chiamando il pudore stoltezza (th; n me; n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [7] de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai; ajneleuqerivan 560d). E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me; n eujpaideusivan kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e - 561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).

La tirannide di Ippia fu eliminata dall’intervento degli Spartani.
“Sparta, tradizionale capofila delle oligarchie, abbatte la tirannide in Atene. Ciò però non impedisce che tirannide e oligarchia finiscano, nel gergo democratico, per essere adoperati come sinonimi o comunque come una endiadi. Ecco quindi ad esempio, in una commedia messa in scena in Atene poco prima del colpo di mano oligarchico del 411, personaggi che debbono incarnare la figura del “democratico medio” esclamare in modo tragicomico: “sento odore di Ippia!”[8], per dire: c’è in giro una minaccia di oligarchia. Insomma, contro ogni corretta distinzione politologica, nella coscienza diffusa e nel linguaggio corrente la schematica polarità che si afferma è democrazia/tirannide. Ovviamente grazie a tale polarità la democrazia si autolegittima. Resta invece appannaggio dei filosofi, oltre ovviamente che della cultura politica oligarchica, il sovvertimento radicale di tale polarità: in quest’altra prospettiva è il demo onnipotente della città democratica che assume le fattezze del tiranno, ad esempio nelle drammatiche pagine della Repubblica di Platone (557 A):

La democrazia si instaura quando i poveri trionfano nello scontro civile sui loro avversari: un po’ li ammazzano, altri li scacciano. Con quelli che restano si spartiscono i diritti politici e le magistrature, anzi spesso addirittura le tirano a sorte. - E’ così, rispose, che si instaura la democrazia: o per mezzo delle armi, o perché presi dal terrore, i ricchi scappano e abbandonano il campo.


CONTINUA



[1] Jan Kott, Mangiare Dio, p. 142.
[2] V. Di Benedetto (introduzione a) Eschilo, Orestea, p. 26.
[3] B. Snell, Poesia e società, p. 151.
[4] Erodoto, Le Storie, libro III, La Persia, Fondazione Valla, Milano, 1990, p. 297.
[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[6] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 15 e p. 33.
[7] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte del disso; " lovgo" ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione antica (vv. 961 sgg. ).. Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
[8] Aristofane, Lisistrata, 619. E’ il coro dei vecchi

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