giovedì 31 marzo 2022

Elena 19 Il bosco sconsacrato. Il prato della sventura.

La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché ero innamorato della Sarjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo risultato pedagogico, e pure erotico”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro. “Il più importante successo della mia vita. Darà nuova forza alla mia identità”.

Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.

Alle 11, 30 dopo le lezioni, invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse  alla finestra di camera sua, come la sera prima, oppure, spuntata dalla parte dell’Università, la parte sud orientale, venisse  vicino a me, scortata dai raggi del sole .

Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.

Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.

Le ragazze uscivano dall’università e sorridevano alla bella stagione, alla vita. Le loro gambe si muovevano agili, allegre facendo sobbalzare i loro seni, fontane sacre del corpo, nutrici di vita.

A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era  fatta vedere ancora. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, e dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.

Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzitempo in collegio dove oltretutto ero andato a prenderla tardi?

Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?

O addirittura il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei, l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita, improvvida del nostro incontro pericoloso, una settimana fa? E io che la voglio prendere, sono come un fanciullo che insegue un uccello che vola[1], o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?”

Questa ipotesi mi parve orrenda.

Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, chiedevo se l’avessero vista passare, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Silvano neanche. Loro non l’avevano in mente. Non sapevano che cosa fosse la felicità, né l’infelicità.

Nemmeno la garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta dava notizia di lei.

Il Cynicus parmensis  anzi proferì parole di malaugurio: “Chi la cancerogena? No”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questo tuo fanatismo adolescenziale”.

 “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi la pagherà-pensai-, se non oggi domani o dopo domani. Al più tardi, il giorno del Giudizio:“ Iudex ergo cum sedebit-quidquid latet apparebit-nil inultum remanebit[2].

 

 La voce malignamente ominosa di quel  messaggero di un destino infausto questa volta mi turbò parecchio.

“Pensa, lettor, se io mi sconfortai

Nel suon delle parole maladette”[3].

 

“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura”[4], gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.

A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando di colui si incinse. Temevo qualche metamorfosi negativa.

Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.

Nella mia mente incantata le immagini strane  subivano una dilatazione semantica: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.

Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere[5] e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi vapori arroventavano l’aria.

Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si dissecava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori diventavano ombrosi come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si oscuravano e sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, si attorcigliavano, gli amici diventavano orrendi e penosi: facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: quasi teschi mozzi strappati a denti di belve[6].

Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi. Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme.

Potevo fare la fine del martire sulla croce o sulla graticola dell’amore.

Perfino il sole,  il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto,  fino a sparire annientato da una densa caligine afosa esalata dalla mia sofferenza.

Senza di lei il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti.

La divina foresta spessa e viva stava diventando la selva dei suicidi.

“Non fronda verde, ma di color fosco

Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”[7]

 

Sentivo il verso, altre volte gradito, delle tortore come il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. A poco a poco il cielo spariva.

Oscene cornacchie profetizzavano il rinnovarsi di remoti sfaceli ripetendo continuamente il loro lamentevole kár  kár [8] .

Note

33Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv.387 e sgg.) leggiamo:"Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che,sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".

 

34 Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente  rimarrà invendicato. Sono versi del  dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo) 

 

35 Dante, Inferno, VIII, 94-95

36 Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.

 

37Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.

 

38 Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.

39 Dante Inferno, XIII, 4-6.

40 Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragédiája, 18269 ha scritto  che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

 

Bologna 31 marzo 2022 ore 19, 34

giovanni ghiselli

p. s

Statistiche del blog

Sempre1233452

Oggi307

Ieri669

Questo mese13273

Il mese scorso12195

 

Due giorni di pioggia, di scarso moto fisico di appesantimento e malessere tanto fisico quanto mentale. L’amante è lontana, se pure è ancora viva. Non dico di Elena.

 

 



[1] Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv.387 e sgg.) leggiamo:"Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che,sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".

 

[2] Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente  rimarrà invendicato. Sono versi del  dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo) 

 

[3] Dante, Inferno, VIII, 94-95

[4] Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.

 

[5] Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.

 

[6] Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.

[7] Dante Inferno, 4-6.

[8] Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragédiája, 18269 ha scritto  che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

 

 

Propagandisti e panegiristi

Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin tw' ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei (Tucidide, III, 82, 4) e cambiarono arbitrariamente il valore  consueto delle parole rispetto alle azioni.

Accadde nella guerra civile di Corcira e succede in tutte le guerre che sono sempre guerre civili e plus quam civilia: fratricide.

La propaganda di ogni conflitto racconta i fatti deformandoli secondo l’interesse di chi parla o scrive.

A guerra conclusa, se c’è un vincitore chiaro, allora scatta la libido adsentandi, la frenesia amorosa di approvarlo e il ruere in servitium  il precipitarsi a servire. Questo ce lo ha insegnato Tacito quando studiavamo al liceo, poi lo abbiamo visto diverse volte.

Sicché le parole di questi propagandisti prima, panegiristi poi, discordano quasi sempre dai fatti.

Per fortuna non mancano le eccezioni: alcuni criticano le menzogne della propaganda e non si affrettano a ingrossare il corteo che celebra il trionfo.

Questi critici però sono pochi però e vengono spesso messi a tacere. Talora imprigionati, talvolta anche uccisi.

 

Bologna 31 marzo 2022 ore 11, 34

giovanni ghiselli

p. s.

Sempre1233240

Oggi95

Ieri669

Questo mese13061

Il mese scorso12195

 

 

 

mercoledì 30 marzo 2022

Helena 18 Cunctator amoris. La vena gesuitica. I bizzarri malviventi

 

Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male, viceversa è ciò che la danneggia.

Aggiunsi che volevo insegnare ai ragazzini anche il coraggio di confutare i luoghi comuni privi di fondamento razionale e reale. Cercavo di capire, di imparare, di progredire, ma la meta più alta, il bersaglio sommo della mia ricerca era lei, Helena, la finlandese bruna bruna che un demone buono mi aveva fatto incontrare inopinata, misteriosa e meravigliosa, là, nel grande bosco in mezzo alla vasta pianura ungherese. Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato dalla sua persona.

La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di soddisfazione profonda.

Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, a un tratto Helena disse che stava imparando ad amarmi. Stavo per impazzire di gioia eppure, invece di baciarle le mani benedicendola, ebbro e frenetico di gratitudine, ricorsi a un’astuzia indegna dell’uomo che mi proponevo di sviluppare in me stesso, una mossa scacchistica di cui avevo sperimentato l’efficacia in passato.

“Ci risiamo!” dirai tu, lettore. Ti rispondo che quando non facevo calcoli prendevo fregature e bastonature da tutte le parti. E’ pur vero che Elena non meritava artifici.

Tuttavia calcolai che mi conveniva dissimulare la felicità. Questa  poteva stordirmi e spingermi a tentare un affondo che magari lei si aspettava, ma dal quale poteva ancora sottrarsi gettandomi nella disperazione.

Rapidamente decisi che avrei sferrato l’attacco (1) finale in un momento in cui la bella donna fosse ancora più intenerita e priva oramai di ogni remora o scrupolo ritardante. Decisi di essere io quello che procrastinava, l’accorto cunctator amoris. Per l’affondo risolutivo sarebbe arrivato un momento migliore.

Dopo un paio di frasi generiche, quasi insulse, dissi che oramai si era fatto tardi, che il giorno dopo c’era lezione e, dunque, si doveva tornare in collegio. Quindi mi alzai, quasi di scatto, dalla panchina dove ci eravamo seduti. In realtà non era tardi: era, sì e no, mezzanotte, l’aria era calda, il cielo sereno, e comunque durante il mese “debrezino” di studio-vacanza, ma più vacanza che studio, non era abitudine mia né dei miei amici andare a letto prima delle due. Allora non provavo la fame urgente dello studiare per imparare, una fame che sentirò più tardi e ancora più tardi arriverò a soddisfare, quando sarò arrivato all’accumulazione e alla sazietà dell’erudizione, del to; sofovn, il sapere neutro che non è sapienza e non sa di vita, non crea la vita come invece fa sofiva, la sapienza che è femminile (2) .  Ora, alla resa dei conti, posso dire che ho imparato dalle mie amanti, Helena in primis, più che dai libri i quali pure mi hanno istruito e formato non poco.

Oso addirittura affermare che i libri mogliori mi hanno aiutato a trovare le amanti più belle e più buone.

 Le parole e le idèe me le hanno insegnate gli autori, ma la vita l’ho appresa e l’ho presa dalle donne, le donne mie benedette che Dio le rimeriti.

Rientrato in collegio, rimasi alzato a scherzare giovanilmente con Claudio, tornato soddisfatto dalla festa nel giardino dei crapuloni, e con Alfredo, reduce dall’avere “puntato” non so quante Russe. Andava cercando di rimediare un po’ di sesso: “Qui a Debrecen - diceva - dovrebbero darci vittu (3) e alloggio, ma io finora ho avuto solo l’alloggio e muoio di fame”.

 E Fulvio, il caro amico di Parma commentava: “Eh, che voglia di brugna!”

Talora ritardavamo il primo sonno fino al biancheggiare del cielo con l’alba che a Debrecen in luglio si fa vedere verso le tre.

Spesso la gioventù non conosce la giusta misura.

A volte i miei contubernali facevano irruzione nelle docce delle femmine russe che, molestate, strillavano a squarciagola, o ululavano, tutte nude.

Allora gli scavezzacolli fuggivano, poi, finita la mattana, venivano a raccontare. Io non partecipavo a quei ioci inconditi, buffonate bizzarre e porcate obbrobriose, anzi li disapprovavo a parole, e alle donne mie dicevo che sentivo disgusto profondo e vergogna di tali contubernali e della loro giocondità oscena; aggiungevo quasi compunto che i miei scherzi, quando mi va di farli, sono molto seri, ma in verità, arrivata la notte, mi spogliavo dei paramenti da gesuita e  ascoltavo assai divertito i resoconti di quei lazzaroni, magari chiedendo di conoscerne tutti i dettagli peggiori. E in cuor mio auspicavo che simili scherzi continuassero, anche per riderne e sentirmi superiore ai gaglioffi che li mettevano in atto.

Come il Faust di Goethe, ero già troppo vecchio per partecipare a quei giochi insolenti, ed ero troppo giovane per non amare.

Aspettando l’amore, posavo a pensatore di giorno e sghignazzavo sulle porcate notturne.

Istrione e gesuita. In me scorre davvero una vena gesuitica, magari  a rovescio. 

 

A volte, finiti gli scherzi e il loro resoconto, ai primi albori, partivamo dal collegio per andare a Hortobágy, sul ponte di nove arcate, a vedere il sole sorgere sopra la grande pianura deserta e priva di alberi.

Eravamo un drappello di dieci giovani: una carnevalesca processione di satiri ebbri e sileni panciuti talora accompagnati da menadi più o meno frenetiche.

Quella sera non andammo sulla puszta ma, tra una risata e l’altra, facemmo comunque le tre. Avevo giocato o “mistificato”, come si diceva all’epoca, con l’angelo mio dicendole diverse ore prima che avevo premura di andare a dormire.

Non avevo la forza di essere me stesso fino in fondo, di diventare quello che sono, accettando il mio vero volto, in quanto non ero ancora convinto che nessuna maschera avrebbe potuto renderlo più bello. Finiti i lazzi più o meno osceni con Claudio e Alfredo, fescennini obbrobriosi non privi di battute pesanti sulle donne presenti in quell’oasi felice di amore e di studio, meno studio che amore, andai a sedermi sul grande tavolo della stanza compresa tra le due camere a quattro letti, e scrissi che volevo fare l’amore con Helena impiegando tutte le forze dell’anima mia. Un’anima dissociata evidentemente. Nel salutarmi mestamente lei mi aveva detto che i suoi dolori di ventre si erano acuiti: perciò il giorno dopo sarebbe andate alla clinica delle donne “pregnanti e malate”. Tale scritta campeggiava sul frontone dell’edificio compreso nel complesso ospedaliero.

Allora, commosso e un poco pentito del mio calcolare, le avevo detto: “Conta su di me per qualsiasi cosa tesoro: in qualunque momento tu abbia bisogno di aiuto, io ci sarò”.

Durante il congedo davanti alla porta del suo collegio mi era apparsa piccola, indifesa, bisognosa, e avevo sentito per lei una sollecitudine autentica, piena, disinteressata. Mi ero ricordato di essere un uomo, non un buffone né un saltimbanco dell’amore (4) .

Quella femmina umana che si fidava di me, era mia figlia, e questo completava il sentimento d’amore che la figura materna già mi aveva ispirato.

Prima di andare a dormire, scrissi queste parole: “Helena mi piace come mai prima nessuna. Mi piace non meno di mia madre. Mi piace più parlare con lei che fare casino con i miei complici di scelleratezze goliardiche. Mi piace perché è una mamma affettuosa e intelligente, è una sorella splendida, è una figlia adorata. Domani faremo l’amore, ne sono sicuro. Non lo scrivo profeticamente ma commisurando le nostre azioni”. Mi affacciai alla finestra completamente dimentico dei bizzarri malviventi nel mio collegio. L’aurora già scioglieva la nera notte e tingeva di rosa tutto l’oriente. Brillava la rugiada sui prati alla limpida luce.

Tutta la vita del bosco ricominciava con un sorriso.

 

Note

---------------------

 (1) Eros, Amore, è spesso associato a Eris, la Contesa.

 (2) Cfr. "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti, v. 395) , il sapere non è sapienza.

 (3) Parola finlandese che significa “fica”.

 (4) Cfr. "Non mihi mille placent, non sum desultor amoris" (Ovidio, Amores I, 3, 15) a me non ne piacciono mille, non sono un saltimbaco dell'amore.

 

Bologna  30 marzo 2022 ore 20, 35

giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1233063

Oggi587

Ieri580

Questo mese12884

Il mese scorso12195

 

Leggi che sono ceppi della natura


 

La crescita della spesa per le armi a parer mio entra nella categoria delle leggi- e decreti- che sono desma; th'" fuvsew" ceppi della natura, utilizzando un’efficace espressione di Antifonte sofista.

 

Papa Francesco l’ha giudicata una pazzia.

 

Bene farebbero i deputati a votare contro questa proposta. Anche dal punto di vista del loro utile: acquisterebbero voti

 

Bologna 30 marzo 2022 ore 19, 22

giovanni ghiselli

 

La visione problematica della guerra.


 

Noi italiani ci comportiamo come due gruppi reciprocamente stranieri davanti a una espressione della nostra lingua.

 

Mandare le armi agli Ucraini secondo me e altri significa prolungare e incrudelire la guerra.

Secondo molti altri invece vuole dire aiutare degli  oppressi a liberarsi.

 

Magari entrambi i significati sono compresi in questa frase, ma per ciascuno dei due gruppi uno dei due è di gran lunga preponderante.

C’ è quindi una polemica tra noi, per fortuna solo di parole.

 

Questa diversa interpretazione, questi pesi diversi registrati da bilance diverse, sottolinea l’impermeabilità degli spiriti e induce, o dovrebbe indurre, a una visione problematica della guerra.

Ma i dogmatismi di tipo teologico tendono a confondere i verba con il verbum e  ne nascono intolleranze con partigianerie confessionali che già Erodoto sconfessava.

 

Bologna 30 marzo 2022 ore 17, 08

giovanni ghiselli

 

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1232975

Oggi499

Ieri580

Questo mese12796

Il mese scorso12195

 

 

Pasolini. II parte. La borghesia e il conformismo

Funerali di Rossano Moscucci in Corso Vittorio Emanuele a Roma
Image credit: IMAGO / Cola Images
L’uomo razionale ma senza cuore, senza carità è un
dimidiatus homo
Sentiamo un anatema di Pasolini contro la cultura pragmatica che è poi quella borghese: “io per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all’opposizione, ai “soli” (come son io). Il borghese - diciamolo spiritosamente - è un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui”.[1]
 
“Nessuna opera, di narrativa, di poesia, di filosofia che conti può conciliarsi ideologicamente - per la contradizion che nol consente - con il lettore medio borghese: ogni opera di poesia è fondamentalmente innovativa, e quindi scandalosa. E il borghese teme soprattutto, come la peste, l’innovazione e lo scandalo: egli è conservatore quando non è reazionario. La poesia lo contraddice alle radici”[2].
 
Il borghese è pure il conformista, spesso razzista: “L’uomo per vivere, ha bisogno di fondamenta sicure: di abitudini. Quando una di tali abitudini scompare, un’altra ne prende il posto modellandosi sulla precedente, perché ne prende la meccanica funzione di protezione contro il caos. Dai campi di Buchenwald o di Dachau, il razzismo può giungere a dei fenomeni apparentemente piccoli, ma fondamentalmente gravi, come l’assassinio di domenica sera”. Un ladruncolo, tal “Moscucci Rossano” era stato ammazzato a Roma, in piazza Navona, da “un idiota” che andava in giro armato di pistola. “Il razzismo, infatti, è una meccanica: non gli importa l’oggetto. Che può essere sostituito con la massima facilità. L’odio contro gli Ebrei può essere sostituito dall’odio contro i Negri: l’importante è che ci sia una minoranza di persone, una categoria, da odiare. In nome, naturalmente, della maggioranza, di coloro che sono tutti uguali fra loro, la cui vita è regolata dalle stesse norme, i cui lineamenti finiscono per assumere una analogia quasi fisica, ecc. ecc.: in nome del conformismo, insomma. Sono certo che nella testa di quell’essere odioso che andava in giro armato di pistola, i giovani ladruncoli del quartiere si erano inseriti in una idea generalizzante di tipo razzistico. Il suo odio contro di loro era dunque, in definitiva, una forma sia pur degenerata e particolare, di odio di classe (…) mi interessano le “conferme” che l’assassino ha avuto della sua aberrazione ideologica, del suo classismo razzista. Non c’è giornale italiano, anche il meno borghese come impostazione politica, che in qualche modo non abbia la sua pur minima parte di responsabilità. I giornali borghesi per autentico conformismo borghese, quelli anti-borghesi per timore di andare contro quel conformismo, ossia di urtare l’opinione pubblica - a cui tengono tanto - non hanno mai saputo o voluto dare una immagine esatta di persone come è stato nella sua breve vita il povero Moscucci Rossano (…) Così anche i giornali dei radicali o dei socialisti o dei comunisti quando parlano di persone come Moscucci Rossano ne parlano come di tipi di una “razza” diversa, predestinati al disprezzo, all’inesistenza, alla condanna morale. Persone prive di peso umano. Di prestigio umano. Capri espiatori di una situazione umana infetta, di una vita nazionale corrotta e ipocrita (…) Bisogna avere il coraggio di scandalizzare. Non bisogna mai, per nessuna ragione di tattica o di compromesso, adottare di fronte all’opinione pubblica, il suo punto di vista di perbenismo borghese, non bisogna confondere la morale col moralismo conformista”[3]. 
 
“Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E’ il coro-un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale”
Pasolini trova una ragione nella legge  della tragica predestinazione a ereditare le colpe: i giovani del 1975 sono figli di padri colpevoli, padri “che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine”.
I figli dunque ne ereditano le colpe. “Ma sono figli “puniti” per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. E’ giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda senza risposta, del motivo dominante del teatro greco. Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva così ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità”.
E le colpe dei padri? Esse sono la complicità col vecchio fascismo e l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?
“Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese [4].
 
“La bontà: ecco quello che manca totalmente in Sordi (…) Alla comicità di Alberto Sordi ridiamo solo noi: perché solo noi conosciamo il nostro pollo. Ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo. Sappiamo che Sordi è in realtà un prodotto non del popolo (come la vera Magnani) ma della piccola borghesia, o di quegli strati popolari non operai, come se ne trovano specialmente nelle aree depresse, che sono sotto l’influenza ideologica della piccola borghesia”[5].
 
Altri autori contro il conformismo dei benpensanti
Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
“Il bruto è il più tenace servo dell’assuefazione”[6].
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[7].
“Il senso della filologia classica è quello di agire nel tempo nostro in modo inattuale , cioè contro il tempo e in favore di un tempo venturo “[8].
La conoscenza della paideia classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Un altro antidoto a tanto veleno può essere la natura: osservare il cielo splendente, guardare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso[9]. delle onde marine e amare la terra madre di tutti noi
 
Bologna 30 marzo 2022 ore 11, 21
giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1232700
Oggi224
Ieri580
Questo mese12521
Il mese scorso12195
 


[1] P- P. Pasolini, Il caos, p. 39.
[2] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 128,
[3] P. P. Pasolini, Detesto chi gira con la pistola in tasca  “Paese sera”, 14 marzo 1963 in Pasolini Saggi sulla politica e sulla società, p. 114 
[4] P. P. Pasolini, Lettere luterane, I giovani infelici, pp. 5-12.
[5] Pasolini, I film degli altri, p. 29
[6] Leopardi, Zibaldone, 1762.
[7] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[8]Nietzsche,  Prefazione a Utilità e danno della storia. 
 [9] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv-88-90 pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma. Cfr. anche D’Annunzio, Elettra: “Il riso innumerevole delle onde marine”.

L’impossibilità dei potenti di mettersi nei panni dei poveri


 

L’estraneità del potere tronfio e pomposo dai bisogni della povera gente.

I potenti dovrebbero mettersi almeno qualche volta nei panni dei poveri. Risponderebbero irrisoriamente che non possono farlo perché i poveri sono nudi

 

In questi gioni gli speculatori sui disastri della guerra fanno miliardi di superprofitti e il governo italiano non interviene.

 

 Il lunatic king [1] di Shakespeare impara ad ascoltare e a vedere attraverso le proprie sofferenze.

 Lear nel dolore  scopre i poveri e diviene capace di carità: “Poor naked wretches  (…) O, I have ta’en/ too litle care of this! take physic, pomp;/ expose yourself to feel what wretches feel,/ that thou may’st shake the superflux to them”, poveri nudi disgraziati (…) Oh, io mi sono preso troppa poca cura di voi! pompa regale prendi la  medicina, rimani allo scoperto e senti quello che sentono i poveri, perché tu possa scuoterti di dosso il superfluo e darlo loro ( Re Lear, III, 4, 28-36).

 

 

“ Si diventa morali appena si è infelici (…) I castighi si crede di evitarli, perché stiamo attenti alle carrozze quando si attraversa la strada, perché evitiamo i pericoli. Ma ve ne sono di interni. L’incidente viene dalla parte cui non si pensava, dal di dentro, dal cuore”[2].

 

Aggiungo  Musil: “" sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[3].

 

 Bologna 30 marzo 2022 ore 9, 52

giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1232606

Oggi130

Ieri580

Questo mese12427

Il mese scorso12195

 



[1] Il re matto (Re Lear, III, 7)

[2] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 219.

[3]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.

IPPOLITO di Euripide del 428 Prima scena del prologo.

  La potenza di Cipride Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’ Ippolito : “ Pollh; me;n ejn brotoi'&...