INTRODUZIONE
L'Edipo re è la tragedia dell'uomo il quale, dopo avere conseguito un successo con la forza del suo ingegno, ritiene che l'intelligenza e l'attività umana possano arrivare dovunque, e risolvere i problemi, indagare i misteri, indipendentemente dagli dei, senza tenere conto dei segni del loro volere, trasmessi ai profeti attraverso gli oracoli, le fronde degli alberi, gli uccelli, o in altra maniera.
Uno dei centri ideologici del dramma è costituito dai versi 396-398:"arrivato io ejgw; molwvn,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn -".
Questa affermazione di autonomia, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa(v.877) del castigo e della espiazione. La bestemmia contro il numinoso che, nel poeta di Colono, come in Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene ribadita più avanti da Edipo, in complicità scellerata con la regina Giocasta, al grido empio della quale:" O vaticini degli dei, dove siete?- w\ qew'n manteuvmata,-i{n j ejstev" 946-947) , il re fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964- 966 e 971-972).
Edipo e Giocasta dunque sono rappresentanti di quel pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate eij ga;r aij toiaivde prevxei" tivmiai,/ perché devo eseguire la danza sacra? tiv dei' me coreuvein; "(vv.895-896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano, vanno in malora ( e[rrei de; ta; qei'a v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda.
T. S. Eliot affermò che il dramma perfetto è la messa. La presunzione intellettuale dunque è il vero peccato di Edipo: essa lo porta ad un attivismo smisurato il cui termine è, come per ogni dismisura, il dolore.
Lo ha capito perfettamente un non specialista come Marcel Proust quando ne Il tempo ritrovato (p.190) scrive:" E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato orgoglio di Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione funebre, il saluto premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte proclamava quanto di fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza e d'ogni umana superbia".
Ne La nascita della tragedia (cap.9) Nietzsche ha sottolineato che il tendere e lo sforzarsi nella vita attiva, ha portato il figlio di Laio prima alla sventura, poi alla passività di Colono dove il "paziente", entrato in una sfera di trasfigurazione, raggiunge infine la sua dimensione benefica riconoscendo i limiti stretti dell'attività e dell'intelligenza umana. Sofocle dunque è poeta religioso, particolarmente devoto alla deità delfica del "nulla di troppo" e del "conosci te stesso".
Ma è anche un poeta etico, nel senso che suscita energie morali ed estetiche con la densità delle sue parole che deprecano il male. Il succo del suo messaggio coincide con la quintessenza dell'etica: che non bisogna ledere la vita trascorrendola senza quell'equilibrio dovuto all' accettazione devota della verità e della misura insita nell'universo.
Sull’accettazione dell’ordine del mondo sentiamo Seneca:
“Nihil indignetur sibi accidere sciatque illa ipsa quibus laedi videtur ad conservationem universi pertinere, et ex iis esse quod cursum mundi officiumque consummant; placeat homini quid quid deo placuit (Ep. 74, 20), non si sdegni (l’uomo) di quello che gli accade e sappia che quelle stesse cose dalle quali sembra venire danneggiato appartengono alla conservazione dell’universo e fanno parte di quelle che completano il corso e la funzione del mondo.
La difesa dell'uomo vivente arriva al punto che il pio autore nella Parodo giunge a maledire Ares, il dio della guerra che il coro dei vecchi tebani depreca come il "violento" ( [Area to;n malerovn v.190) e "il dio disonorato tra gli dei"( to;n ajpovtimon ejn qeoi'" qeovnv.215).
L'esecrazione di Ares non è nuova: già Omero nell'Iliade (V, 890) lo fa apostrofare da Zeus con queste parole:" e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi} [Olumpon e[cousin", tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo.
Faccio notare per inciso che e[cqisto" è il superlativo attribuito nel prologo (v.28) alla peste (loimov") di Tebe.
E’ una peste come questa attuale del covid associata alla guerra.
Nell'Edipo re, Ares è smodato e disonorato poiché impersona il conflitto fratricida del Peloponneso, condotto senza rispetto della tradizione cavalleresca e senza riguardo per l'umanità. Un monito alla pace dunque si leva, tra gli altri, dai versi del poeta nauseato dal massacro del quale risuonano echi sinistri in questa tragedia.
Sono invece invocati e venerati gli dei che difendono la vita, la risanano (Apollo è il Paiavvvn,v.154, il guaritore); quando un intero popolo si ammala e non c'è arma di pensiero ( frontivdo" e[gco" v.170), atta a trovare una terapia per la paralisi che impedisce alle donne di partorire, agli alberi di fruttificare, agli uomini di amare e di vivere.
Artemide è pregata di canalizzare l'aggressività nelle gare e nelle cacce su per i mont i(v.208), mentre Dioniso viebe invocato perché allieti l'umanità (v.211) con il vino e le feste.
Insomma nel testo si trova un continuo zampillare di quelle gocce luminose che costituiscono la voce misteriosa degli oracoli e nello stesso tempo l'intimità della coscienza religiosa dell'uomo europeo, tanto che risuona analoga in autori lontani nel tempo e nello spazio. Essa si scontra con il pensiero antroponomo in una collisione tragica che tuttavia non esclude un ottimismo di fondo consistente in un assenso alla volontà divina la quale non può essere cattiva siccome permea questo mondo bello e sacro, rigoglioso di lauri, olivi e viti, allietato dal dolce canto degli usignoli numerosi in mezzo alla boscaglia di Colono, il demo natale del poeta.
E. Rohde, in Psiche scrive: Sofocle"è di quegli uomini molto pii ai quali basta d'intendere appena la volontà divina per sentirsi pervasi di reverenza, e che non hanno il bisogno di giustificare questa potente volontà dal punto di vista dei concetti umani di moralità e di bontà" (p. 568) .
Con il nostro commento abbiamo voluto anzitutto spiegare Sofocle con Sofocle, secondo il canone della migliore filologia alessandrina, quella di Aristarco di Samotracia[1] in particolare per il quale bisogna spiegare Omero con Omero : “ {Omhron ejx JJOmhvrou safhnivzein"[2].
Pertanto abbiamo ripreso e confrontato le espressioni uguali, o simili, ricorrenti in altre tragedie, rendendo conto del contesto, e cercando di offrire una visione d'insieme dei drammi rimasti, e un'idea dei rapporti tra loro. Quindi abbiamo richiamato gli scrittori greci anteriori, evidentemente o presumibilmente echeggiati dal nostro; inoltre quelli a lui contemporanei con i quali sembra esserci stato scambio di stilemi o identità di concezioni; infine gli autori successivi, greci latini ed europei che hanno camminato sulle tracce del tragediografo di Colono, sapendolo o senza saperlo.
Bologna 28 marzo 2022 ore 11, 11
giovanni ghiselli
p. s.
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