La lettera del marito, mentalmente cestinata da entrambi, dunque non aveva sprigionato fantasmi del passato, brutti spettri capaci di spaventarci e inibire il nostro proposito.
Ci eravamo seduti, festevolmente, al “Palma”, l’Eszpresszó dotato di un’ampia terrazza tutta illuminata dal sole fino al pomeriggio tardo quando l’astro che porta significazione di Dio cala in mezzo ai rami del bosco. Vi servivano due ragazze. Erano giovani la prima volta che le vidi, nel 1966. Due cameriere fresche, carine, con divise rosse e bianche: rossa la gonna, bianche le calze e la camicia. Le scarpine, tipiche delle inservienti magiare, lasciano scoperti i calcagni. Era un luogo ameno, con un’atmosfera goliardica. Claudio, quando aveva bevuto una palinka, o due, diceva: “Si sta bene qui, bisogna tornarci!”. E l’ultimo giorno del corso estivo, quando salutavamo le due cameriste (1), l’amico faceva: “a visszantlátásra jővőre!”(2). Le due ragazze ridevano e ricambiavano il saluto pensando, forse, che ci saremmo tornati per tutta la vita. In effetti una volta progettammo di farci seppellire lì vicino, nella grande foresta- nagy érdő- dove, dicono, si trovano inumati decine di eroi ungheresi. Invece a un certo momento l’era felice delle estati di Debrecen, come ogni altra cosa, è passata. Come un sogno è passata. Eppure ho fatto in tempo a vedere le due cameriere appassite prima, poi quando ci sono tornato l’ultima volta, nel 2011 con Fulvio e i due amici ex allievi, in bicicletta, dopo una pedalata di 1200 chilometri, le ho visto diventate omai anziane anche loro. Come me intendo. Ci siamo fatti grandi feste, con abbracci e baci da poveri vecchi, ma pur sempre amanti della vita.
Sulla terrazza del Palma soleggiata dal mattino fin verso sera c’erano molti tavoli occupati spesso da noi studenti stranieri. Si discorreva volentieri, giocosamente; poi si beveva una palinka o due, una all’albicocca una alla prugna, o “brugna” come dicevano i parmigiani Fulvio e Claudio con allusione lasciva, o un birra non piccola, o una bottiglia di vino, in allegra brigata, e si diventava sempre più allegri. Io cercavo di ridurre le dosi e di rallegrarmi autonomamente. Danilo, se si accorgeva che non ordinavo la seconda palinka, gridava con gli occhi chiari striati di righe rosse: “anche se ti vesti di stracci e ti atteggi a proletario maoista, caro da Dio, rimani un borghese, un incurabile fighetto fascista che gira sopra una macchina nera, tedesca, scoperta, chiaramente hitleriana, e non osa neanche raddoppiare un misero goccio. Magari sei pure vegetariano come quel delinquente austriaco!”
“No, mi piace molto la ciccia!” obiettavo.
Poi gli domandavo se alludesse allo sterminio di ebrei, russi, zingari, e agli assassinî di omosessuali, ubriaconi e mentecatti perpetrati da quel delinquente.
“Sì, poi al genocidio di tutte le vigne andate in malora durante la guerra scatenata da quel farabutto demente! Tu. quando non bevi con noi, me lo ricordi, senza contare che hai pure i baffetti neri, caro da dio! Vai in mona, anche se saluti con il pugno chiuso, sei un fighetto e un fascista da Pesaro, e non sai bere in compagnia. Non hai un briciolo di umanità. Poi vai a cercare il gabinetto per urinare. Se tu fossi un compagno, un comunista come me, e come millanti di essere, pisceresti contro i muri, come faccio io, caro da Dio!”.
Rispondevo che di notte, se non c’era la luna piena a illuminare la minzione indiscreta e se non passava nessuno, lo facevo anche io. Pisciavo serenamente contro tutti i muri di Debrecen. O contro gli alberi, cinico quanto Diogene e più sfacciato di un cane.
“Sì un cane fascista”, replicava. Poi gli veniva in mente Diana, la “casta diva”, e, con una risata da iena, aggiungeva: “La luna un corno!”
“Sì, senza luna o con un corno di luna, sottile come il sopracciglio di una ragazzina, e senza gente che passa, lo faccio” ribattevo. “Ma cossa vu to fare” gridava allora implacabile. “Tu non fumi nemmeno: sei un bamboccio viziato, un borghese e un fascista!”
“Io non fumo, perché non mi piace proprio!”, provavo a giustificarmi.
“Non ti piace perché non vivi una vita marxista-leninista come me che aspiro e mastico soltanto tabacco albanese. Viva Lenin, viva Stalin, viva Mao Tse Tung!”, concludeva alzando il pugno chiuso. Lo alzavo anche io e lui ripeteva: “cossa vu to!”
Nel luglio del 1972 Danilo non c’era. Forse si era perso dietro le sue chimere.
In questo locus amoenus dunque mi trovavo seduto davanti a Kaisa dunque facendo il paraninfo di me stesso con gli occhi espressivi del desiderio acuto di lei e modulando mollemente la voce.
Note
(1) Cfr. Gozzano, Elogio degli amori ancillari, 12.
(2) Arrivederci all’anno prossimo!
Bologna 24 marzo 2022 ore 19, 32
giovanni ghiselli
p. s.
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