Il ritorno a Debrecen in bicicletta diversi decenni più tardi. La finestra
vuota
Nell’estate
del 2011, sempre in luglio, quarant’anni dopo quella sera di gioia, che ricordo
ancora come una delle più belle e felici
della mia vita mortale, sono tornato a
Debrecen in bicicletta, da Bologna, con Fulvio e con altri due amici più
giovani, due quarantenni ex alunni, Maddalena e Alessandro, due novizi
dell’Ungheria.
Ci siamo tornati, Fulvio e io, protesi alla
giovinezza lontana come verso il sole al tramonto, quando cade nel mare con
puro fulgore. Ho affrontato la grande fatica di mettermi al passo con la
giovinezza e ho pure rischiato la pelle saltando dalla bicicletta gialla in un
fosso verde per schivare un’automobile che mi veniva addosso quando
costeggiavamo il lago Balaton. E dopo otto giorni sono arrivato a Debrecen,
pedalatore tenace e annoso, quasi sessantasettenne.
Non me la sono sentita di tornare in quel bosco
incantato sopra un aereo o in treno, funebri convogli di una vecchiaia canuta e
flaccida, risultato di una vita vissuta male, senza l’amore. Nemmeno di quell’aggeggio per paralitici o neghittosi che
è l’automobile ho voluto fare uso.
Vecchio sono vecchio, ma faccio di tutto
per conservare le forze di allora. Mantengo pure i capelli ancora
prevalentemente scuri, e non certo con
un pennello. Merito anche di Elena, della mamma etrusca e ancor più di sua
sorella Giulia che è morta relativamente presto, a 82 anni, ma senza un capello
bianco. La mamma mi raccomandò di portarle un cero di ringraziamento sulla
tomba dei Martelli, a Sansepolcro. Ci vado ogni anno anche da solo, in bicicletta, pedalatore romito, per dare al
rito un valore più grande, un significato veramente olimpico. Niente può fermarmi sul cammino della pietà.
Né forature di bicicletta, né i denti da vampiro
dei cani randagi resi feroci dalla catena e dalla stupidità dei padroni.
Nemmeno orsi inferociti, né cinghiali fulminei[1]. Non può godere la strega Erichto strappando pezzi del mio
cadavere alle loro fauci cruente[2].
Non ho bisogno
di chiamare in aiuto Ecate ctonia che, indossati aspetti atroci e minacciando
con la più orrenda delle sue facce schifose[3], atterrisce anche i cani [4] dal cupo latrato.
Conservo dentro di me la forza con cui la
mamma mi ha portato in grembo e mi ha allevato. Siamo gente dura e capace di tollerare le
fatiche[5]: la nonna Margherita Scattolari veniva dalla terra di
Montegridolfo
Me ne ha lasciati 18 ettari che un
costruttore voleva comprare per edificarci appartamenti. Mi dava soldi e
appartamenti.
Non gliel’ho venduta. Per amore e per rispetto
degli avi Scattolari. La tengo affittata per poche migliaia di euro all’anno e
non rimpiango i tanti soldi del palazzinaro. Vivo da poverello e ne sono fiero.
Povertà è una delle mie amanti e non l’ho mai tradita.
Il nonno materno Carlo Martelli da parte sua
vinceva tutte le gare ciclistiche cui partecipava. L’ho letto nella “Nazione di
Firenze” di un giorno del 1899. Da lui ho ereditato, oltre il talento
ciclistico, l’amore per le donne e per il sole. Il lascito più bello è questo
del nonno mio che nel cielo sta.
Ogni anno vado a Sansepolcro in bicicletta per onorare la mamma, i nonni, le zie e
ingraziarli per tutto quello che mi
hanno dato.
Poi, sempre in bici, salgo alla Verna, sull’aspro monte tra Tevere e Arno[6] per pregare accanto al duro letto dell’onesto Francesco.
Non est in toto
orbe sanctior mons, in tutto il mondo non
c’è un monte più santo, si legge in un portale del santuario.
Una notte dell’estate 2011 dunque, il luglio del ritorno a Debrecen in bicicletta, andati a
letto gli amici, sono tornato sotto la finestra dell’apparizione fatidica di
Elena dispensatrice di Grazia. Mentre camminavo in direzione del collegio
numero uno dove alloggiavano le finlandesi, già da lontano mi apparve quella
finestra e mi parve di vedervi di nuovo affacciata Elena ridere felice nel
fulgore della sua gioventù. Il cuore mi balzò dal petto alla bocca e la chiamai
tre volte. Ma la visione sparì, simile a
un sogno fugace[7], lasciando vuota quella finestra oramai sconsacrata e deserta, onde mesto
riluceva il raggio della luna[8] dea dai tre nomi[9], compreso uno inquietante[10]. Arretrai desolato.
Ho ricordato i sentimenti forti, pieni di
gioia di quella sera remota e ho sentito la necessità di raccontarla, di
renderla eterna, se il giudizio finale che è quello dell’arte, sarà positivo.
Le cose, come le persone, hanno una loro
volontà. Questa pagina mi ha chiesto di essere scritta: lo ha voluto. Elena si
avvia a diventare la mia posterità. Helena di Yväskylä farà concorrenza a Elena
di Troia.
Ora noi due, i giovani amanti di quell’estate
lontana, siamo due vecchi al tramonto e ci avviamo verso quella lunga, eterna
notte del tutto imprevista allora, in quel tempo fatato e felice quando non le citavo Catullo, il poeta dei soli che
possono cadere nel buio e tornare, mentre noi, una volta spenta la nostra breve
luce, dobbiamo dormire una notte eterna. Non misi queste parole ammonitrici tra
le tante altre di autori. Mi sembravano fuori luogo e sinistramente ominose.
Nel 2011 il bosco sacro di quel tempo
remoto non era più tutto pieno di dèi, il ponticello sul lago della foresta
oramai pure lei sconsacrata aveva il
legno infradiciato, gli edifici simbolici erano stati abbattuti o profanati,
come il ristorante della mia prima cena nel luglio del 1966 [11] l’ottocentesco Hungaria, trasformato in un orrendo McDonald.
Metamorfosi abominevole.
Elena forse è già stata disfatta dal suo
precipitoso destino di donna mortale, e si è trasformata in qualche altra bella
apparenza dell’universo, in quanto tutto scorre e ogni immagine si forma
fluttuando[12]. Comunque la redimerò dalla morte già scontata o da scontare
con quanto scrivo e scriverò di lei.
Io sono un vecchio,di settatantasette anni 4 mesi e cinque giorni con oggi, una
testa non ancora del tutto intronata[13], ma già isolata in uno spazio sempre più arido, scuro e
deserto, eppure la strana, preziosa luce di quei giorni remoti continua a
risplendere dentro di me, e con questa, e con questo racconto, voglio
illuminare altre vite, prima che si spenga, presto o tardi di certo, ma forse
non per sempre, la mia.
Bologna 19 marzo 2022 ore 20, 04
giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1227773
Oggi244
Ieri405
Questo mese7594
Il mese scorso12195
Questa sera non ho modo di correre perché devo fare la spesa. Non ho le arance.
Non potò mangiare granché anche se oggi con il sole ho fatto due ore di bicicletta.
Senza corsa non est satis
Baci
gianni
[1] Cfr. Stazio, Tebaide, II, 123-124
[2] Cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 552-553.
[3] Cfr. Seneca, Medea, 751 “ pessima induta vultus, fronte non una minax”.
[4] Cfr. Teocrito, le Incantatrici 12
[5] “inde genus durum sumus experiensque laborum” (Ovidio, Metamorfosi I, 414
[6] Cfr. Dante, Paradiso, XI, 106-107) “nel crudo sasso intra Tevere e Arno-da Cristo prese l’ultimo sigillo, - che le sue membra due anni portarno”
[7] Cfr. Virgilio, Eneide, II, 794
[8] Cfr. Leopardi: “quella finestra, /ond’eri usata favellarmi, ed onde/mesto riluce delle stelle il raggio/è deserta”, Le ricordanze (vv. 141-144),
[9] Luna, Diana, Ecate.
[10] Ecate è la signora e la maestra di maghe e streghe, da Medea alle sorelle fatali del Macbeth di Shakespeare.
[11] Cfr. L’arrivo a Debrecen, presente nel blog
[12] Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale vieta di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178).
[13] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion) , “ I am an old man, A dull head amog windy spaces". (vv. 15-16), io sono un vecchio, una testa intronata tra spazi ventosi
Nessun commento:
Posta un commento