giovedì 30 giugno 2016

Twitter, CCXXXII antologia

Elisabetta Gualmini
"Gualmini chi?".
 Ha domandato il sindaco Merola.
 Suggerisco una risposta tratta da una canzoncina che cantavo quando, nel ’58 in terza media, sognavo ancora, ingenuamente, l'amore: "nessuno, ti giuro nessuno!"

Il calcio funziona meglio del resto in Italia poiché fruisce di un controllo popolare, per lo meno visivo. Il resto è celato e falsificato
Proprio celato e falsificato? Sì e pure mortificato: le cose e le persone vanno definite con energia e verità perché la vita si potenzi.
Per quanto riguarda la mortificazione, basta pensare alla cosiddetta buona scuola, al sistema clientelare e mafioso delle raccomandazioni, alla lottizzazione dei posti.
La maturità, p. e.,  è diventata una specie di pagliacciata, una delle tante falsificazioni di questa Italia decaduta e derelitta. Non fa alcuna valutazione seria, approfondita, e, quello che è peggio, non garantisce l’ingresso all’Università

Sono costretto a usare, oltre l’intelligenza e la cultura, anche lo strumento, se si vuole non proprio sublime, della malignità contro la potenza dell’ignoranza raccomandata, della volgarità santificata, della bruttezza omologata.
La critica, che è necessaria per il progresso, non può escludere la malignità.

Quanto disgrega la serietà dello studio e del lavoro è il sistema clientelare fondato sulla raccomandazione. Gente affetta da tubercolosi mentale,  e morale, distribuisce cariche con laute prebende, poi pretende di annullare i giudizi di giusta condanna espressi dal voto democratico del popolo


30 giugno
giovanni ghiselli 


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mercoledì 29 giugno 2016

Alcesti. IV parte

Pierre Peyron,
Admeto piange sul letto di Alcesti

Tacito nella Germania (27, 1) fa distinzione tra il pianto dei maschi e quello delle femmine: "Feminis lugere honestum est, viris meminisse ", per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ancora a proposito dell'ostensione del dolore Nietzsche scrive: "A che cosa rimanda il fatto che la nostra cultura non solo è tollerante verso le estrinsecazioni del dolore, verso le lacrime, i lamenti, i rimproveri, il gesticolare del furore o dell'umiliazione, ma le approva e le annovera tra le più nobili delle cose inevitabili? Invece lo spirito dell'antica filosofia le riguardava con disprezzo e non annetteva loro assolutamente alcuna necessità. Ci si rammenti come Platone - cioè uno dei filosofi non certo meno umani - parla del Filottete della scena tragica. Che alla nostra moderna cultura manchi “la filosofia? ” Apparterremmo forse noi tutti e ciascuno in particolare, secondo quanto stimavano quegli antichi filosofi, alla “plebe”? ".
Non a tutti gli autori moderni del resto approvano le lacrime: infatti l'autore di Il Gattopardo considera le lamentele poco aristocratiche: "Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrino, lo so, se siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un 'signore' lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco" (p. 135).

Alla vista del letto però Alcesti non riesce a trattenere le lacrime:
“Poi, gettatasi nel talamo e sul letto
qui scoppiò a piangere e dice così:
‘o letto dove io ebbi sciolta la castità verginale
da quest'uomo per il quale muoio
addio: infatti non ti odio, poiché tu hai mandato in rovina me
sola: io muoio non volendo tradire te e
lo sposo. Un altra donna ti possederà,
più casta no (swvfrwn me; n oujk a]n ma`llon), più fortunata forse (eujtuch; ~ d j i[sw~, vv. 175 - 182).

Gli ultimi due versi si ritrovano parodiati in una commedia di Aristofane, i Cavalieri, dove Paflagone, cedendo la corona il simbolo del potere al salsicciaio che lo ha battuto nella volgarità e nell'impudenza dice:
"ti lascio: un altro ti avrà dopo averti presa,
ladro non più di me, ma forse più fortunato" (1251 - 1252).
klevpth~ me; n oujk a]n ma`llon, eujtuch; ~ d j i[sw~, vv. 175 - 182

Il letto dunque è il mobile più importante della casa. Ed è una suppellettile citata spesso dalle donne di Euripide, come nodo di affetti e di pulsioni, come simbolo della stessa situazione femminile. Ricordiamo, oltre i passi già citati, questa affermazione di Medea:
"La donna infatti nelle altre cose è piena di paura,
è vile nella lotta e a vedere un'arma;
ma quando si trova ad essere offesa nel letto
non c'è altro cuore più sanguinario" ( Medea, vv. 263 - 266).

Intanto la donna morente, compianta da tutti, saluta ciascuno con signorilità davvero regale:
"Tutti piangevano i servi nella casa
compatendo la regina; ed ella tendeva
la destra ad ognuno e non c'era nessuno così vile
cui non rivolgesse la parola e dal quale non ricevette un saluto" (vv. 192 - 195).


Si può ricordare a questo proposito la lettera 47 di Seneca: "libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cun servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet"" (1), volentieri sono venuto a sapere da quelli che vengono da casa tua che tu vivi da amico con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza, alla tua cultura.

Quindi la serva passa al racconto della miserevole situazione di Admeto:
"Piange tenendo l'amata sposa tra le braccia201
e la prega di non abbandonarlo, chiedendo
 l'impossibile: infatti Alcesti si distrugge e consuma per la malattia
Lasciandosi andare, misero peso per il suo braccio
tuttavia, seppur poco, ancora respirando,
vuole volgere lo sguardo verso lo sfavillare del sole
poiché non più un'altra volta, ma ora per l'ultima volta
vedrà i raggi e il cerchio del sole". (208)
Ecco dunque la contraddizione di Admeto, il pover' uomo che dopo avere chiesto alla moglie di morire al suo posto, la prega di non abbandonarlo. Piuttosto che un antico eroe sembra un omuncolo moderno.
Alcesti dal canto suo cerca la luce, come faranno le creature del neoclassico Foscolo ("perché gli occhi dell'uom cercan morendo/ il Sole", i Sepolcri, 121) o di Ibsen: "Mamma, il sole... dammelo, dammi il sole", chiede Osvald nell'ultimo atto degli Spettri e, chiudendo il dramma, ripete: 'il sole, il sole".

Nel Primo Stasimo (vv. 213 - 243) il coro rivolge una preghiera agli dèi, e in particolare ad Apollo, il "signore Peana" (v. 221), affinché "trovi un rimedio contro i mali di Admeto".
La richiesta è accompagnata dal ricordo riconoscente della grazia già ricevuta, Ricorda la Preghiera ad Afrodite di Saffo:
"procuralo, procuralo: anche in precedenza infatti (kai; pavro~ gavr)
lo trovasti; anche ora
sii liberatore dalla morte,
e tieni lontano Ades omicida" (222 - 225).

Ricorda la Preghiera ad Afrodite di Saffo
ma vieni qua, se mai anche l'altra volta
udendo la mia voce da lontano
mi desti ascolto, e, lasciata la casa d'oro
del padre, giungesti
aggiogato il carro…
Vieni da me anche ora (e[lqe moi kai; nu'n).

Segue il compianto per i mali di Admeto "degni di sgozzamento" (227) e i versi con la constatazione che le nozze, anche con la migliore delle donne, portano comunque dolore.
Il Coro dunque, formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", o}sti" ajrivsth" - ajplakw; n ajlovcou th'sd j, ajbivwton - to; n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

All'inizio del Secondo Episodio (244 - 434) entra in scena Alcesti con queste parole:
"Sole e luce del giorno
e vortici celesti di nuvola in corsa" (244 - 245).
Il sole dunque viene invocato quale un dio, forse "il primo fra tutti gli dèi", com'è chiamato nell'Edipo re (v. 660) e quale "la luce più bella" (Antigone, 101 - 102).
Insomma questo verso fa parte di quell'elogio del sole che percorre parte della letteratura greca e prosegue oltre in quella europea; proviamo ad indicarne alcune espressioni.
Già Omero nell'Odissea (XI, 109) gli attribuisce la facoltà di vedere e ascoltare tutto.
Nell'inno omerico a Demetra infatti, quando Persefone viene rapita, solo Ecate ed Elio, splendido figlio di Iperone (v. 26), udirono la fanciulla che invocava il padre Cronide.
Se ne ricorderà, all'inizio dell'Asino d'oro, Apuleio quando giura al lettore che sta per raccontare la verità (I, 5): "sed tibi prius deierabo solem istum omnividentem Deum ", ma prima ti giurerò per il sole, questo dio che vede tutto.
Il coro delle Trachinie di Sofocle (v. 102) lo invoca così: " o tu che domini con lo sguardo".
Nell'Edipo re è anche chiamato (v. 1425), " la fiamma che nutre la vita" (v. 1425).
Nell'Edipo a Colono (v. 869)è, con una ripresa dell'idea omerica, " Elio che vede tutto".
 Nell'Antigone la fanciulla lamenta che non le sia più permesso i
di vedere "il santo volto di luce" (vv. 879 - 880).
 Aiace prima di uccidersi invoca il sole (vv. 845 - 848):
" o tu che spingi il carro per il cielo scosceso,
Sole, quando vedi la mia terra
Patria, trattenuta la briglia d'oro,
annuncia il mio accecamento e il mio destino".
La luce del sole è sacra per quanti sono iniziati ai misteri nelle Rane di Aristofane (vv. 454 - 456).
L'"ateo" Prodico di Ceo chiama dèi i quattro elementi e poi il sole e la luna. Infatti affermava che da questi ha esistenza per tutti la vitalità.
Nella Repubblica di Platone dove si narra il mito della caverna, il sole è l'immagine dell'idea del bene ( 517c) che a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
Cicerone nel Somnium Scipionis (IV, 9) lo chiama"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del mondo e forza regolatrice, seguendo un misticismo solare di origine pitagorica.
Virgilio, nella prima Georgica (463 - 464), afferma la sincerità del sole nel dare segni: "Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe chiamarlo falso?
 Seneca in una lettera a Lucilio (73, 6) esprime personale riconoscenza al sole e alla luna che pure sorgono per tutti: "Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur ".
Se diamo una rapida occhiata alla letteratura moderna, vediamo che Francesco d'Assisi nel Cantico delle creature definisce "messèr lu frate sole", "bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione".
Questa riconoscenza per il sole interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, come si vede, percorre vari momenti della letteratura europea.
Facciamo solo un altro paio di esempi tratti dal neoclassicismo. F. Hölderlin in Iperione scrive: " l'eroica luce del sole dona gioia con i suoi raggi alla terra" (p. 76), e, "il sacro sole sorrideva tra i rami, il buon sole che non posso nominare senza gioia e gratitudine, che spesso, con un solo sguardo, mi ha guarito da un profondo dolore e ha purificato la mia anima dallo scontento e dalle preoccupazioni" (p. 111).
Foscolo, nell'Ortis, lo chiama"ministro maggiore della natura" (20 novembre 1797) e "sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato" (3 aprile 1798).
infine Leopardi nello Zibaldone (3833 - 3834) scrive: "Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa

 (5 Nov. 1823.).


continua 

domenica 26 giugno 2016

Alcesti. III parte

teatro greco di Siracusa

Nella Parodo (vv. 77 - 135) il coro, formato da quindici anziani di Fere, esprime la speranza che il trapasso dell'amata regina non sia già avvenuto e si chiede come sia possibile evitarlo:
"Perché mai questa calma (hJsuciva) davanti al palazzo?
perché tace la casa di Admeto?
Non c'è nessuno degli amici vicino,
che possa dire se bisogna
che io pianga la regina come morta, o se ancora viva
veda questa luce la figlia di Pelia
Alcesti che a me e a tutti
è parsa essere ottima moglie (ajrivsth gunhv)
verso il suo sposo" (77 - 85).
Ecco dunque che il "misogino" Euripide ci presenta la migliore delle donne. Il primo canto del coro invero rimane sul generico e non mostra immagini di questo valore di femmina umana. Si limita a manifestare la speranza che arrivi l' aiuto soprannaturale di Apollo, il Peana o guaritore:
"oh se
in mezzo ai flutti dell'acciecamento
potessi apparire tu Peana!" (vv. 91 - 92).
Lo spettatore sa che è una speranza mal riposta, mentre ancora non sa, e glielo chiariranno i fatti, che l'acciecamento, l'ate la follia la quale, è figlia della violenza e madre di lacrime (Eschilo, i Persiani, 821 - 822) è male e colpa di Admeto, l'egoista, che solo verso la fine del dramma giungerà alla resipiscenza e soltanto alla fine del IV Episodio capirà:
"io che non avrei dovuto vivere, schivato il destino,
passerò la vita nel dolore: ora comprendo" ( lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw, vv. 939 - 940).
Queste di Admeto sono parole forti, "ideologiche", mentre i vecchi nella Parodo manifestano dolore e chiedono soccorso con parole scontate, oppure evasive, tali cioé che evocano posti remoti, come luoghi di possibile salvezza, un procedimento del resto tipicamente euripideo
" Bisogna, quando i buoni sono straziati
che si dolga
chiunque da sempre è stato considerato onesto" (crhstov~ 109 - 111).
A questa banalità di una parte del coro, un'altra parte replica:
"Ma non c'è un luogo sulla terra
dove uno avendo mandato una spedizione
navale, o la Licia,
o alle sedi senza
acqua di Ammone
potrebbe salvare la vita
dell'infelice? Infatti la morte scoscesa si accosta" ( movro~ ga; r ajpovtomo~ plavqei, v. 112 - 119). Efficace è l'aggettivo scosceso attribuito al burrone della morte: è una variazione di aijpu; n o[leqron dell’ Odissea ( I, 11).

A proposito di questa parodo inefficace calza la critica nicciana (La nascita della tragedia, 14) per la quale il coro euripideo è degradato rispetto a quelli di Eschilo e Sofocle poiché appare "come qualcosa di casuale" piuttosto che “una forza determinante nell'ingranaggio dell'opera: "
Secondo Nietzsche infatti il coro può soltanto essere concepito come “causa della tragedia e del tragico in generale".

La Parodo termina con parole sconsolate che rievocano il mito di Asclepio, il figlio di Apollo, che risuscitava i morti,
"prima che lo colpisse il dardo
del fuoco fulmineo scagliato da Zeus" (128 - 129).
Ma, scomparso così il risanatore miracoloso
"adesso quale speranza di vita
posso accogliere ancora? " (130 - 131) si domandano i vecchi di Fere. C’è dunque rassegnazione per la morte di Alcesti.

Il Primo Episodio (136 - 212) inizia con l'ingresso in scena di una delle serve di Alcesti. Il corifèo le domanda se la padrona sia ancora viva o già morta.
E l'ancella risponde:
"Ti è possibile dire che è viva e che è morta" (141).
Euripide e i suoi personaggi non hanno proprio nessuna sicurezza: nemmeno quella della vita e della morte.
C'è un frammento del Frisso di Euripide che dice:
"chi sa se il vivere sia morire
e il morire invece vivere? ".

Jan Kott in Mangiare Dio commenta tanta incertezza sostenendo che "l'ambiguità è il cardine dell'Alcesti "p. 142).
Del resto l'ambiguità è una delle caratteristiche dell'affabulazione tragica: "il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali" (p. 142).
L'Alcesti poi è un dramma ambiguo anche come genere: non si capisce se sia una tragedia o una commedia. In questo senso, sostiene il critico polacco, può raffrontarsi con l'arte manieristica che imita l'arte invece della natura,
Euripide dunque apre la via a questa mescolanza di generi che nella cultura classica ha un seguito nell' estetica del sofista Crizia permeata dall'antitesi, o nell' Anfitrione di Plauto, nel prologo del quale dramma Mercurio dice:
" Eandem hanc, si voltis, faciam ex tragoedia
comoedia ut sit omnibus isdem versibus (vv. 54 - 55).
Questa medesima, se volete, farò in modo che da tragedia
diventi commedia con tutti gli stessi versi.
E, subito dopo:
"faciam ut commixta sit tragico comoedia " (v. 59), farò in modo che la commedia sia commista di tragico.

Tornando al nostro dramma, il corifèo, che è più semplice di tanti critici scarabocchiatori, domanda:
"Come potrebbe essere morta e vedere la luce la stessa persona? " (142); e la serva risponde che Alcesti è mezza morta mezza viva:
"E' già a capo chino e agonizza" (143).
Quindi comincia il processo di beatificazione della vittima che il corifèo definisce:
"la donna migliore tra quelle che stanno sotto il sole, e di gran lunga" (151). Per questo motivo: "morrà piena di gloria" (150).

 Alcesti dunque è la donna eroica, l'ottima (ajrivsth) tra le mogli, colei che sacrificandosi per il marito, ottempera femminilmente alla regola educativa degli eroi dell'Iliade: " primeggiare (aristèuein) sempre ed essere egregio tra gli altri.
Lo raccomandano i padri ai figli: nel VI canto (v. 208) Ippoloco a Glauco; nell'XI (v. 784) Peleo ad Achille.

 Analoga componente abbiamo visto nell'eroismo di Antigone: "però sei innamorata dell'impossibile", le obietta la sorella (v. 90) vedendola determinata a seguire il suo destino.

La serva ribadisce i meriti della padrona:
"come non la migliore? chi lo contesterà?
cosa deve dirsi della la donna che la
supera? come una potrebbe dimostrare
di onorare lo sposo in misura maggiore che volendo morire per lui? " (Alcesti, vv. 152 - 155).

 Questo, continua l'ancella, lo sanno tutti, ma i particolari che la città non conosce la rendono ancora più pregevole.
Eccoli dunque:
"Quando si accorse che il giorno fatale
era giunto, ha lavato il corpo candido con acque
correnti, e dopo avere tirato fuori dalle casse di cedro
un vestito e gli ornamenti, si preparò convenientemente
e stando in piedi davanti alla dèa del focolare pregò" (158 - 162).

Questo racconto della collaboratrice ci informa sul rispetto del proprio corpo, sull'ordine e l' avvedutezza casalinga dell'eroina.

 Kott in questi dettagli trova forme di "realismo domestico... in nessun altro testo greco sino a Menandro abbiamo una così netta sensazione di trovarci all'interno della casa”. (Mangiare Dio, p. 120).

 Il critico anzi pensa che le virtù di Alcesti siano soprattutto quelle della "buona massaia".. "Il legno di cedro, annota A. M. Dale nella sua edizione critica di Alcesti, proteggeva gli abiti dall'umidità e dalle tarme" (p. 119), e aggiunge che il massimo turbamento di Admeto quando ritorno dal funerale e dice "ora comprendo" (940) provenga dalla paura della solitudine e dal disgusto per il disordine che trova nelle stanze.
"Che cosa ha capito? " commenta malignamente Kott: "Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo" (p. 127)
In effetti Admeto non fa una bella figura.

Ma ora torniamo al racconto dell'ancella che riferisce la preghiera di Alcesti moritura a Estia ( la latina Vesta), la dea del focolare domestico:
" Signora, poiché io vado sotto terra 163
per l'ultima volta, caduta in ginocchio, ti chiederò
di prenderti cura dei miei bambini orfani: all'uno unisci
una sposa che l'ami, all'altra uno sposo nobile;
e che non muoiano anzi tempo (qanei`n ajwvrou~) come muoio
io che li ho generati, ma felici
nella terra paterna possano compiere una vita lieta"169

Nel Fedro di Platone c’è una processione celeste di dèi guidati da Zeus che ordina le cose e se ne prende cura. JEstiva mevnei ejn qew`n oi[kw/ movnh (247 A), Estia rimane nella casa degli dèi, da sola.

Alcesti dunque non lascia la vita per disgusto; anzi conserva stima di questo bene prezioso che va perdendo, e anche del matrimonio che augura ai figli come un bene. Ricordiamo che la pietà di Euripide, e, nelle lettere latine quella di Virgilio, si volge spesso ai giovani che muoiono anzi tempo, ante diem.

Alcesti non ha perduto fiducia negli dèi, né il rispetto di se stessa. Infatti:
"Poi si è accostata a tutti gli altari che sono nella casa
di Admeto, li ha incoronati e ha pregato
staccando il fogliame dai ramoscelli di mirto,
senza lacrime (a[klauto~), senza gemiti (ajstevnakto~), né l'imminente
 disgrazia cambiava la bella natura del suo incarnato" (170 - 174).

Molto nobile è il fatto di non fare pesare sugli altri la sventura che viceversa la giovane donna si è addossata.
Piangere in pubblico è cosa riprovata più di una volta nella tragedia classica. Nell'Elettra sofoclea (v. 1172) il coro suggerisce alla protagonista: non piangere troppo; sei nata da padre mortale, e Oreste pure era mortale. Pascersi di lacrime è una voluttà depravata: infatti significa non riconoscere la giustizia divina.
Del resto lacrimare in pubblico è pure sconveniente: nell'Antigone (vv. 1247 - 1249) il nunzio spera che Euridice, appreso il suicidio del figlio, sparga lacrime sotto il suo tetto, non pubblicamente.
Nell'Andromaca di Euripide, la nutrice di Ermione consiglia alla ragazza affranta di entrare nel palazzo per non dare spettacolo del proprio dolore.
Platone biasima il piangere di Achille. Nella Repubblica (388b), Socrate dice che si dovrebbe dire a Omero di non rappresentare Achille che si getta la polvere sul capo o mentre fa altri pianti o lamenti.
A Leopardi, viceversa, piacciono queste debolezze dell’eroe.

Il poeta di Recanati ha assunto più volte atteggiamenti eroici però, o forse perciò, nello Zibaldone fa notare che l'eroismo non coincide con la perfezione né con la grandezza: : "Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo... e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec. " (2).
Più avanti leggiamo: "L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi" (471).

Alcuni anni più tardi Leopardi scrive: “L’eroismo ci trascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado che avevano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22 Settembre 1828)”. 


continua

sabato 25 giugno 2016

Twitter, CCXXXI antologia. Ancora sull'exit

Phoebus Levin, Covent Garden Market (1864)
Ancora sull’exit

Hanno votato exit i poveri, i vecchi, gli ordinari, i "non sapienti".
Io sono con loro, siccome continuo a tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini "straordinari" (cfr. le  Baccanti di Euripide e Delitto e castigo di Dostoevkij).

L'Europa “senza guerre” ha approvato e perpetrato massacri di adulti e bambini inermi. Li abbiamo visti in televisione, con orrore, mentre i servi applaudivano.

Sono per una nuova unione europea: fondata sull'umanesimo, sull'amore per la cultura e l'umanità, non più sul mercato, i cambi e le banche.

La maggioranza ha votato contro un' Europa malata. Contro i privilegi che i demoni sostenitori di questo inferno morale e culturale temono di perdere.

Tra i privilegiati si salva, dal punto di vista etico-estetico, chi non si vanta di esserlo e  non lo crede giusto. Il resto è feccia e canaglia.

Quanti hanno votato per l'exit rappresentano il disagio della maggioranza, non il "popolo bue" come vogliono farci credere i "sapienti" alla Severgnini il quale è convinto di non avere nulla di animalesco nel ceffo pieno di smorfie che esibisce senza pudore.

I giovani italiani che qui non trovano lavoro nemmeno con tre lauree, secondo gli ascari del potere dovrebbero essere felici per l'Erasmus e altre simili vacanze dal nulla.



giovanni ghiselli

venerdì 24 giugno 2016

Twitter, CCXXX antologia

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24 giugno 2016

24 giugno: “Amen dico vobis: non surrexit inter natos mulierum maior Ioanne Baptista” (N. T. secundum Matthaeum 11, 11)

De Virginio Merola: quidam iocosi et improbi dicunt irridentes: "musto plenus est iste". Ego autem nego.

Mi piacciono la Raggi, la Appendino e pure Merola. Sono éteroi tra loro, alterità tra le quali si dialoga, non enantìoi opposti inconciliabili.
Inconciliabili con le persone per bene e dotate di stile sono le donne, politiche e no, cooptate nei cerchi magici dei vari dittatorelli e untorelli nostrani. 

21 giugno, therinè tropé, solstizio e culmine dell'estate. Domani inizia l'autunno, checché se ne dica, con la decadenza del renzismo.

Pupi Avati per il suo prossimo film cerca tipi "alla Zanarini".
Di certo non il meglio dell'umanità, anzi.

23 giugno prima della seconda prova (Greco al classico): auspico un brano di autore conosciuto e letto tre anni liceali, di argomento molto significativo, non peregrino e scritto bene.

24 giugno, dopo la terza prova: sono soddisfatto del brano di Isocrate (Sulla Pace, 34-36).

I sorrisi della Boschi: il falso splendore di uno  spirito corrotto.

Se vogliamo giocare un bel tiro al principe delle tenebre, dobbiamo amare. L'amore è l'antitesi della morte, l'amore rafforza la vita

Le bocche sempre semiaperte di Renzi e dei suoi imitatori sono state maschere comiche. Ora diventano  tragiche: “eripitur persona, manet res

L'esito del referendum del Regno Unito non mi dispiace: è un duro colpo inferto al capitalismo e alle banche, speluncae latronum.  
Questa notte si vedeva la compunzione dei giornalisti araldi dei padroni davanti al successo del Brexit.
Gli orrendi massacri di interi popoli, gli empi stupri di bambini non suscitano altrettanto compianto, preoccupazione, orrore. 
 


giovanni ghiselli

martedì 21 giugno 2016

Alcesti. II parte

Alcesti al Teatro Greco di Siracusa

Nietzsche accusa Euripide di avere portato lo spettatore sulla scena, ossia di avere scoperto e rappresentato il modello negativo del graeculus, dell’omuncolo.
Tuttavia nel Simposio Platone pone Alcesti tra i primi eroi quando fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita, non tanto per gli amati e la patria, quanto convinti che immortale sarebbe stata la memoria della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d). Tutti fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza gloriosa ("uJpe; r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'"").

 In effetti il coro dell'Alcesti elogia l'eroina morente con queste parole: " i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh - gunhv t j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/" ( Alcesti, vv. 150 - 151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole.
 Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa", v. 290), poiché hanno lasciato perdere l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria ("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292).
“Alcesti è “fida” come lo sono in battaglia i compagni pronti a morire per il capo. La scala dei valori è quella eroica della tradizione aristocratica”

 Manca dunque in questo dramma, presentato come quarto nella tetralogia, perciò al posto del satiresco, e dall' esito lieto, uno degli elementi caratteristici di Euripide: la polemica contro gli Spartani. Sono presenti invece le accuse contro il dio Apollo, il profeta dell'oracolo delfico che "spartaneggiava".

In questi primi versi vediamo la violenza e la frode del dio delfico che ammazza i Ciclopi e inganna le Moire; inoltre notiamo la sua viltà nell'abbandonare gli amici nel momento più difficile; quindi la vigliaccheria e l'egoismo sfacciato di un uomo, e re per giunta, che chiede alla giovane moglie di morire al suo posto, e infine la donna eroica e ottima consorte, Alcesti, che si sobbarca al sacrificio estremo che anche i genitori avevano rifiutato.

La prima parte del Prologo (1 - 76) è recitata Apollo (1 - 27) che, situato davanti alla reggia di Fere, in Tessaglia, espone l'antefatto della tragedia.
Ma vediamo i primi versi:

O reggia di Admeto, nella quale io sopportai 1
Di acconsentire a una tavola da servo, pur essendo un dio.
Zeus di fatto, ne è causa avendo ucciso il figlio mio
Asclepio con il gettargli la folgore dentro il petto:
e per questo adirato io ammazzo i Ciclopi 5
artefici del fuoco di Zeus; e il padre mi costrinse (hjnavgkasen)
a servire da salariato (qhteuvein) presso un uomo mortale come espiazione di questo. 7

Compare già l’ajnavgkh che costringe anche un dio come Apollo

Giunto a questa terra, pascolavo il bestiame per l’ospite
E fino a questo giorno custodivo questa dimora.
Infatti io pio (o{sio~ w[n) ho incontrato un uomo pio 10

Alla osiva inneggiano le Baccanti nel I stasimo delle Baccanti (vv. 370 ss)
Nel primo Stasimo delle Baccanti di Euripide il Coro invoca la Pietà perché scenda sulla terra a punire l'empia violenza di Penteo: " J Osiva povtna qew'n, - J Osiva d ' a{ kata; ga'n - crusevan ptevruga fevrei", - tavde Penqevw" ajivvvei"; " (vv. 370 - 373), Pietà signora tra gli dèi/Pietà che attraverso la terra/porti l'ala d'oro, /odi queste bestemmie di Penteo?
Antigone qualifica come "santa" la trasgressione degli ordini del tiranno: "o{sia panourghvsa" ' (Antigone, v. 74), dopo che ho compiuto un'illegalità santa.
In questo caso è pia non l'obbedienza ma la disobbedienza.
 “Hosía è la personificazione della purezza rituale: hósios per eccellenza è chi è stato iniziato e perciò si trova mondato da ogni contaminazione; così questa parola torna tipicamente nel vocabolario misterico.
I seguaci di Iacco sono “puri compagni di tiaso” (Aristofane, Rane 327); per contro, Penteo è anósios (v. 613)”.
Nelle Rane il Coro degli iniziati chiede a Iacco: ejlqevoJsivou~ eij~ qiaswvta~ (v. 327) vieni dai pii tuoi confratelli.
Nelle Baccanti, Penteo è estraneo e ostile al tiaso, quindi empio.

Il figlio di Ferete, che ho salvato dalla morte
Ingannando (dolwvsa~) le Moire: le dee mi concessero
Che Admeto sfuggisse all’Ade immediato,
se avesse dato in cambio un altro cadavere agli dei di laggiù (Al cesti, 11 - 14).

dolwvsa~ (v. 12) Apollo nelle tragedie del “sacrilego Euripide” è una divinità ingannevole, a volte addirittura criminale.

Nell’Andromaca "il ragazzo di Achille" (v. 1119) domanda:
"per quale ragione mi uccidete mentre percorro il cammino della pietà? per quale causa muoio? Nessuno di quelli, che erano migliaia e stavano vicini, mandò fuori la voce, ma gettavano pietre dalle mani" (vv. 1125 - 1128). Il clero non è estraneo a questo “crimine sacro”: a un certo punto, dai recessi dl tempio rimbombò una voce terribile e raccapricciante che aizzò quel manipolo e lo spinse a combattere (vv. 1146 - 1148).
 Il messo alla fine della rJh'si" accusa Apollo di essere w{sper a[nqrwpo" kakov" (v. 1164), come un uomo malvagio, e domanda: "pw'" a]n ou\n ei[h sofov"; " (v. 1165), come potrebbe essere saggio?
A questo proposito G. De Sanctis scrive: "Ora può darsi che Euripide osasse porre in così cattiva luce Apollo profittando del mal animo degli Ateniesi verso il dio che spartaneggiava in quegli anni come poi filippizzò".

E dopo avere messo alla prova e interpellato tutti gli amici,
 (il padre e la vecchia madre che li partoriva)
non trovò, tranne la moglie, uno che volesse,
morendo al suo posto, non vedere più la luce del sole (Alcesti, 15 - 18)

plh; n gunaikov~ (v. 17): Alcesti è l’eroina che si eleva su tutti gli altri personaggi di questa tragedia.

Diversamente da Sofocle, Euripide mostra che i legami di sangue (il padre e la madre di Admeto) sono meno forti di quelli nati dall’affetto.

Antigone fin dal primo verso sottolinea ed enfatizza il vincolo di sangue che, a parer suo, è il più forte tra le persone, come chiarirà nel quarto episodio, dove spiega che un parente pur stretto come uno sposo, ma acquisito, una volta morto si può rimpiazzare, mentre un fratello, defunti i genitori, non è possibile che nasca di nuovo
Questa è una delle non poche posizioni che accomunano Sofocle a Erodoto il quale (in III, 119, 3 - 6) esprime il medesimo punto di vista attraverso la moglie di Intaferne: la donna, potendo salvare uno solo dei suoi familiari imprigionati dal grande re Dario, scelse il fratello con la medesima argomentazione della ragazza sofoclea.
Questa scelta costituisce uno degli aspetti dell'arcaismo di Sofocle, il quale, sostiene Hauser, "fin da principio sacrifica l'idea dello stato popolare democratico agli ideali dell'etica nobiliare; e, nella lotta fra il diritto familiare privato e il potere assoluto ed egualitario dello Stato, parteggia risolutamente per l'idea tribale". Sofocle nuotò contro le onde della storia e delle mode culturali. Del resto “solo i pesci morti vanno con la corrente”.

e ora la sostiene in casa tra le braccia
agonizzante: infatti in questo giorno
è fatale che muoia e che si stacchi dalla vita.
Ed io, perché la contaminazione non mi colga (mh; miasma m j ejn dovmoi~ kivch/) nella reggia,
lascio (leivpw) il carissimo tetto di questa casa (Alcesti, 19 - 23).

Mivvasma (v. 23): è una parola chiave in diverse tragedie. Nell’Edipo re di Sofocle, miasma è lo stesso Edipo che ha contaminato la terra tebana con i suoi atti contrari alla natura.
Ricordo poi l'Oedipus dove il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens ( v. 36), abbiamo reso colpevole il cielo.
La città malata per antonomasia è Tebe: Dante chiama Pisa "vituperio delle genti" e "novella Tebe" (Inferno, XXXIII, 89) per la crudeltà della pena inflitta ai figli innocenti del conte Ugolino.
Ma qui siamo in Tessaglia, e, del resto, la guerra del Peloponneso non è cominciata.
Qui si mette in evidenza la viltà di Apollo che abbandona (leivpw, v. 23) l’amico nel momento del lutto e del dolore, come farà sua sorella Artemide alla fine dell’Ippolito, quando il suo pupillo muore, perseguitato da Afrodite. La casta Artemide maledice la divinità madre di Eros ma non aiuta il ragazzo: “Kuvpri~ ga; r hJ panou'rgo~ w||d j ejmhvsato “ ( Ippolito, v. 1400) la scellerata Cipride ha macchinato questo.

Ma ecco che vedo già la morte qui vicino, 23
sacerdotessa dei morti, che ora sta per condurla giù
nella dimora di Ade: è giunta nel tempo dovuto (summevtrw~),
attenta a questo giorno in cui bisogna che lei muoia 27

summevtrw~ (v. 26): la morte non guarda in faccia nessuno: è la grande Eguagliatrice.

Quindi entra Thanatos, la morte, corredata di ali nere (cfr. v. 843: a[nakta to; n melavmpteron nekrw`n, la signora dei morti dalle ali nere) che, vedendo Apollo, rabbrividisce e lo accusa:
"Ahi, ahi, /che fai tu presso il palazzo? perché tu ti aggiri qui/Febo? commetti ingiustizia di nuovo limitando/e annullando gli onori degli inferi? /Non ti bastò avere impedito la sorte/di Admeto avendo ingannato le Moire/con arte dolosa? E ora, armata/la mano di arco fai la guardia su costei, /che si sobbarcò questo, liberando lo sposo: /di morire al suo posto lei stessa, la figlia di Pelia? (vv. 28 - 37)
La morte stessa dunque accusa Apollo di iniquità: anzi di varie forme di ingiustizia che si precisano nella sticomitia seguente:
"Fatti coraggio: ho buon diritto e argomenti validi" (v. 38), comincia Apollo sfidando l'avversario con la legge e soprattutto con la parola in una tenzone dialettica che considera la medesima azione come fatta bene e fatta male: "Che bisogno c'è dell'arco, se hai buon diritto? " (v. 39).
L'accusa di Thanatos è di violenza intenzionale. " E' abituale per me portarlo sempre" (v. 40), replica Apollo. Non si sa mai. E giovare a questa casa anche contro la giustizia" (ejkdivkw~, v. 41), ribatte la Morte con ironia, ribadendo l'accusa di fondo.
"Infatti mi affliggo per le sventure di un amico" (42). E' solo l'amicizia il movente delle azioni che dunque non possono essere malvagie.
" E mi priverai di questo secondo morto? " (43).
Thanatos, come dio e come forza della natura, ha i suoi diritti.
"Ma neppure quello ti ho portato via a forza" (44).

Infatti Apollo al v. 12 ha affermato di avere raggiunto il suo scopo "ingannando le Moire", un episodio che gli era stato rinfacciato dalle dèe venerande nelle Eumenidi (722 - 724):
 io vincerò la causa"
"così facesti anche nella casa di Ferete", risponde la corifèa delle Erinni,
"quando persuadesti le Moire (Moivra~ e[kpeisa~) a rendere immortali i mortali". Senza violenza dunque ma con un logos accorto

Ma qui nell'Alcesti si tratta di controbattere l'accusa di violenza.
Qualche maneggio deve esserci stato, a parere di Thanatos, altrimenti, domanda:
"Come mai è sulla terra e non sotto terra? " (45).

Apollo ricorda la permuta che ha salvato la vita di Admeto:
"Poiché ha dato in cambio la sposa per la quale tu vieni" (46), un cambio che certamente non fa onore al marito. Febo insiste perché Thanatos risparmi anche Alcesti: arriva a promettere un onore ancora più grande di quello che la Morte si aspetta dal decesso di un giovane:
"quando muoiono i giovani io ottengo un onore più grande" (55), afferma Thanatos, e Apollo ribatte:
"se muore vecchia sarà sepolta sontuosamente" ( plousivw~, v. 56)
 Allora la grande "uguagliatrice" accusa Febo di stare dalla parte dei ricchi:
"Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro; ~ tw`n ejcovntwn, v. 57).
In effetti i sacerdoti dell'oracolo delfico, l'ombelico del mondo da dove zampillavano gli oracoli apollinei, appoggiava le consorterie aristocratiche e i regimi oligarchici.
Apollo replica con ironia: " come hai detto? non mi ero proprio accorto che tu fossi sapiente (sofo; ~ levlhqa~ w[n, v. 58)" rilevando nella critica dell'avversario un'eco di teorie sofistiche quali, ad esempio, quella di Antifonte che nel Discorso sulla verità denuncia come innaturali le differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini.
Thanatos chiarisce a quale ingiustizia porterebbero i privilegi concessi da Apollo:
"pagherebbero (wjnoi`nt j a]n) quelli cui fosse possibile per morire vecchi" (59).

La Morte dunque appare egualitaria e irremovibile, ma Apollo le preannuncia:
"Certo tu, pur essendo cruda (wjmov~), dovrai cedere,
tale uomo sta per arrivare al plazzo di Ferete,
poiché l'ha mandato Euristeo, per una pariglia
di cavalle dai luoghi della Tracia dove duri sono gli inverni,
 uno che, ospitato in questa casa di Admeto,
ti porterà via a forza questa donna. " (64 - 69).

Con queste parole Febo svela il finale togliendo suspense alla trama e consentendo agli spettatori di concentrare l'attenzione sui caratteri dei personaggi: soprattutto sull'ottima Alcesti.


continua 

lunedì 20 giugno 2016

Alcesti. I parte

Addio di Alcesti
340 a.C. circa

12 giugno 2016
Dopo la rappresentazione nel teatro di Siracusa.

Funerale anticipato con un lungo corteo e una croce cristiana.
Un grande velo nero ricopre il coro.
Nel prologo recitato da Apollo e Thanatos, la Morte rinfaccia ad Apollo "Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro; ~ tw`n ejcovntwn, Foi`be, ton novmon tivqh", v. 57). Ebbene questo verso ideologico è stato saltato. Altri versi nodali spariti sono quelli che sconsigliano le nozze: il Coro formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", o}sti" ajrivsth" - ajplakw; n ajlovcou th'sd j, ajbivwton - to; n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

Buona la trovata della musichetta allegra suonata all’arrivo di Eracle e ripetuta alla fine. Dopo la resurrezione di Alcesti, Eracle raccoglie la croce e la butta sul feretro vuoto. I due sposi si allontanano mano nella mano.
 La traduzione è nel complesso accettabile, ma, oltre le omissioni di cui sopra, sono da biasimare alcune banalizzazioni come p. e, l’aggettivo ajpovtomo" (“scosceso”, v. 118) riferito a movro" (“parte, destino, morte”) tradotto con “terribile”. Nell’insieme lo spettacolo è buono.
Ottima la recitazione di Graziosi nella parte pur secondaria di Ferete. Buffo e divertente Eracle (Santospago) con il suo epicureismo ante Epicurum

Alcesti di Euripide
Tragedia rappresentata per la prima volta nel 438. Il significato di fondo del dramma credo sia contenuto nei versi con i quali Admeto riconosce il suo sbaglio.
 Alla resipiscenza segue un lieto fine.
Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw" (v. 940), condurrò una vita penosa: ora comprendo In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

 C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione: " ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko; " ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana.

L’Alcesti è una delle non poche tragedie greche stroncate da Schopenhauer:
 “Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale…Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia".
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”.

Il letto, vedremo è il mobile più importante della casa nell'Alcesti di Euripide (vv. 177 e sgg.), e nella Medea è un nodo di affetti così sacro e forte che, se l’uomo unilateralmente lo scioglie o lo taglia, rende la donna feroce (vv. 265 - 266).
Da Alcesti morta, come da Edipo a Colono, dovrebbe spirare il bene: il coro nel terzo stasimo formula questa preghiera che verrà ripetuta dai passanti, sull’obliquo sentiero accanto alla tomba: “Au[ta pote; prouvqan j ajndrov~, - nu'n dj e[sti mavkaira daivmwn: - cai'r j w\ povtni j eu\ de doivh~. - toi'aiv nin prosrou'si fh'mai” ( Alcesti, vv. 1002 - 1005), questa una volta morì per il marito, ora è una divintà beata: salve, signora, dacci del bene. Tali parole le diranno.
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn), /ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde; n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie" (vv. 962 - 972).
Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo", della poesia, dell'arte medica.
E ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga; r Zeu; ~ o{ti neuvsh/ - su; n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.
Nella Prefazione al romanzo Notre - Dame de Paris, Victor Hugo scrive che “rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro:
 ANAGKH
Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su quella parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831”.

Alcuni versi prima del terzo stasimo, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/)” (Alcesti, vv. 785 - 786)
Prometeo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514) e infonde negli uomini cieche speranze. Egli infatti sa pene che le tevcnai da lui scoperte non possono nulla contro la necessità “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr. a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit” ( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.
Avanzando nella Sogdiana Al. si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).

L’ambiguità non riguarda soltanto il linguaggio sofocleo.
Anche una situazione, o un intero dramma possono essere ambigui: “La puoi dire viva e che è morta anche”.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione.
Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”.
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”.

Sofocle considera i legami di sangue più forti di quelli affettivi. Diversa è la posizione di Euripide il quale nell'Oreste fa dire al protagonista, in lode dell'amicizia di Pilade: "acquistate amici, non solo parenti: /poiché chiunque collimi nel carattere, pur essendo un estraneo, /è un amico più caro ad aversi di mille consanguinei (murivwn kreivsswn oJmaivmwn ajndri; kekth`sqai fivlo~)" (vv. 804 - 806). Si può pensare che già nell'Alcesti il drammaturgo più giovane rappresenta una sposa la quale sacrifica per il marito la propria vita dopo che il padre e la madre di lui si erano rifiutati di donargli la loro.
Plutarco nella Vita di Solone racconta che il legislatore ateniese permise a chi non aveva figli di lasciare in eredità i propri beni anche fuori dalla famiglia in quanto “filivan te suggeneiva~ ejtivmhse ma`llon kai; cavrin ajnavgkh~” (21, 3), valutò l’amicizia più della parentela e l’affetto più della necessità.
Con Euripide, il primo letterato puro, comincia il distacco dalla storia e dalla politica. Eppure a volte si trovano forme di eroismo, quali il sacrificio alla patria o alla famiglia, di una giovane vita come quella di Ifigenia, o di Alcesti, o di Polissena, o di Macaria la figlia di Eracle negli Eraclidi, o di Meneceo, figlio di Creonte nelle Fenicie. Giovani che muoiono a[wroi, ante diem e muovono la commozione di Euripide, come poi quella di Virgilio. Si tratta di eroismi improvvisi, fondati non su abitudine morale ma su entusiasmi e slanci che magari succedono alla paura, come nel caso di Ifigenia, o allo scetticismo. Aristotele infatti, si ricorderà, trova il difetto di una scarsa coerenza nella protagonista dell’ l'Ifigenia in Aulide (Poetica 1454a, 31).
Euripide discute molto sul matrimonio ( Medea, Alcesti) e più in generale sulla relazione tra i sessi che, come ogni cosa nella natura, è fatto anche di lotta. Nei rapporti umani, non tanto diversamente da Tucidide, vede divulgarsi il diritto del più forte, anche se non gli piace. La Medea drammatizza il conflitto tra lo sconfinato egoismo dell'uomo e l' immensa passione della donna.
Un topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore.
Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo bagna tutto con il torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion - ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183 - 184.).
Un gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659,).
“La donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi di Deianira)”.
Nelle Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, - to; loipo; n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920 - 922), o letto mio e stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
Antigone portata alla tomba si compiange perché è rimasta ajnumevnaioς (876), senza nozze.
 La Medea di Apollonio Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
Per kuvsse da kunevo, aor. [ekusa, cfr. inglese to kiss e tedesco küssen

Non è vero che “il sacrilego”Euripide è eversivo nei confronti dei valori tradizionali quali aijdwv~, per esempio, e cavri~.
Il pudore, il ritegno è un predicato di nobiltà: “to; ga; r eugene; " - ejkfevretai pro; " aijdw' ” (vv. 600 - 601), il carattere nobile infatti è portato al ritegno, canta il Coro nel secondo stasimo dell’Alcesti.

Il tragediografo mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia nell'Eracle dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: " cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che invecchia, e chi vuole godere delle cose belle ma non imbarcarsi con gli amici quando se la passano male.

Nelle Nuvole di Aristofane la riservatezza e il ritegno contraddistinguono il giovane beneducato dal petulante sfacciato. Il Discorso Giusto prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"... ta[galm j " (v. 995), l'immagine del ritegno. Eppure secondo il linguaggiuto commediografo, Socrate, complice di Euripide, avrebbe insegnato ai giovani la spudoratezza.
Euripide a sua volta avrebbe messo in scena le varie Fedre e Stenebbee povrnai (Rane, v. 1043)
E avrebbe insegnato a stravolgere (strevfein), a macchinare (tevcnazein) a pensare (noei`n, v. 957)) in maniera critica riguardo ai valori tradizionali

Insomma avrebbe reso gli Ateniesi scelleratissimi (mocqhrotavtou~, v. 1010) da buoni e generosi che erano.

continua 

sabato 18 giugno 2016

Twitter, CCXXIX antologia. Cassius Clay

Io al Partenone con Fulvio e Maddalena
Contro la guerra del Vietnam abbiamo manifestato in tanti, sfilando, cantando, citando Tacito (raptores orbis etc.) e divertendoci giovanilmente.
Cassius Clay, che era poco meno giovane, ci ha rimesso anni della propria vita. Onore dunque a te Muhammad Alì che hai pagato sulla tua pelle la rivolta giusta. Ci hai dato un esempio. Salve fratello e ti sia lieve il suol!

Se guardi troppo a lungo nell'abisso questo entra in te.
 Le amanti dei mostri assassini non possono evitare di assorbire qualche cosa del male dai  carnefici.
E’ pura follia additare come modello alle ragazze le vittime-amanti dei mostri. Con tutto il rispetto dovuto al dolore, le donne devono schivare in tutti i modi l’intimità con i delinquenti che sono riconoscibili da molti segni anticipatori.

Renzi e la Boschi stanno distruggendo il Pd. Bisogna cacciarli, compagni!
Virginia Raggi è bella e fine. L'afa di stalla che viene dal comune di Roma necessita del refrigerio del suo volto nobile.
Mi chiedo solo se sarà in grado di governare la città “imperiale” eterna e pitocca.

A Milano i falsari cercano di avvalorare il culto di miti da bassifondi: una volta la Milano da bere,  ora l'Expo. Roba da feccia, la peggiore feccia.

Con la Santanché sembrava tramontata per sempre la vita estetica della politica. La Raggi, bella e fine com'è, ce la fa tornare in mente

La Raggi porta con sé la gioia di una redenzione estetica; l'Expo ha sbandierato il trionfo dell'orrendo gusto plebeo, consumistico, ignorante e delinquenziale.

Con le mie conferenze e il mio blog (288 letture al giorno in media, da 1234 giorni) voglio restaurare la cultura fondante dei classici. Senza tale fondamento c’è l’abisso.

 Se votassi a Bologna voterei Merola che tiene bene questa città. Bologna  funziona bene. E’ servita ottimamente quanto a biblioteche, cinema, trasporti con limitazione del traffico privato.
Ma voterò a Pesaro dove non ho mai votato Ricci, il “primo cittadino”  che deturpa, offende e disonora la polis dove giocai fanciullo e delle gioie mie vidi solo l’inizio.


giovanni ghiselli

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...