teatro greco di Siracusa |
Nella Parodo (vv. 77 - 135) il coro, formato
da quindici anziani di Fere, esprime la speranza che il trapasso dell'amata
regina non sia già avvenuto e si chiede come sia possibile evitarlo:
"Perché mai questa calma (hJsuciva) davanti al
palazzo?
perché tace la
casa di Admeto?
Non c'è nessuno
degli amici vicino,
che possa dire se
bisogna
che io pianga la
regina come morta, o se ancora viva
veda questa luce
la figlia di Pelia
Alcesti che a me
e a tutti
è parsa essere
ottima moglie (ajrivsth gunhv)
verso il suo
sposo" (77 - 85).
Ecco dunque che il "misogino"
Euripide ci presenta la migliore delle donne. Il primo canto del coro invero
rimane sul generico e non mostra immagini di questo valore di femmina umana. Si
limita a manifestare la speranza che arrivi l' aiuto soprannaturale di Apollo, il
Peana o guaritore:
"oh se
in mezzo ai
flutti dell'acciecamento
potessi apparire
tu Peana!" (vv. 91 - 92).
Lo spettatore sa che è una speranza mal
riposta, mentre ancora non sa, e glielo chiariranno i fatti, che l'acciecamento,
l'ate la follia la quale, è figlia della violenza e madre di lacrime (Eschilo,
i Persiani, 821 - 822) è male e colpa di Admeto, l'egoista, che solo
verso la fine del dramma giungerà alla resipiscenza e soltanto alla fine del IV
Episodio capirà:
"io che non avrei dovuto vivere, schivato il destino,
passerò la vita
nel dolore: ora comprendo"
( lupro;
n diavxw bivoton: a[rti manqavnw,
vv. 939 - 940).
Queste di Admeto sono parole forti, "ideologiche",
mentre i vecchi nella Parodo
manifestano dolore e chiedono soccorso con parole scontate, oppure evasive, tali
cioé che evocano posti remoti, come luoghi di possibile salvezza, un
procedimento del resto tipicamente euripideo
" Bisogna, quando i buoni sono straziati
che si dolga
chiunque da
sempre è stato considerato onesto"
(crhstov~ 109 - 111).
A questa banalità di una parte del coro, un'altra
parte replica:
"Ma non c'è un luogo sulla terra
dove uno avendo
mandato una spedizione
navale, o la
Licia,
o alle sedi senza
acqua di Ammone
potrebbe salvare
la vita
dell'infelice? Infatti
la morte scoscesa si accosta" ( movro~ ga; r ajpovtomo~ plavqei, v. 112 - 119). Efficace è l'aggettivo scosceso attribuito al burrone della
morte: è una variazione di aijpu; n o[leqron dell’ Odissea ( I, 11).
A proposito di questa parodo inefficace
calza la critica nicciana (La nascita della tragedia, 14) per la quale
il coro euripideo è degradato rispetto a quelli di Eschilo e Sofocle poiché
appare "come qualcosa di casuale" piuttosto che “una forza
determinante nell'ingranaggio dell'opera: "
Secondo Nietzsche infatti il coro può
soltanto essere concepito come “causa della tragedia e del tragico in
generale".
"prima che lo colpisse il dardo
del fuoco
fulmineo scagliato da Zeus"
(128 - 129).
Ma, scomparso così il risanatore miracoloso
"adesso quale speranza di vita
posso accogliere
ancora? " (130 - 131) si
domandano i vecchi di Fere. C’è dunque rassegnazione per la morte di Alcesti.
Il Primo Episodio (136 - 212) inizia con
l'ingresso in scena di una delle serve di Alcesti. Il corifèo le domanda se la
padrona sia ancora viva o già morta.
E l'ancella risponde:
"Ti è possibile dire che è viva e che è morta" (141).
Euripide e i suoi personaggi non hanno
proprio nessuna sicurezza: nemmeno quella della vita e della morte.
C'è un frammento del Frisso di
Euripide che dice:
"chi sa se il vivere sia morire
e il morire
invece vivere? ".
Jan Kott in Mangiare Dio commenta
tanta incertezza sostenendo che "l'ambiguità è il cardine dell'Alcesti
"p. 142).
Del resto l'ambiguità è una delle
caratteristiche dell'affabulazione tragica: "il tappeto rosso di
Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali" (p. 142).
L'Alcesti poi è un dramma ambiguo
anche come genere: non si capisce se sia una tragedia o una commedia. In questo
senso, sostiene il critico polacco, può raffrontarsi con l'arte manieristica
che imita l'arte invece della natura,
Euripide dunque apre la via a questa
mescolanza di generi che nella cultura classica ha un seguito nell' estetica
del sofista Crizia permeata dall'antitesi, o nell' Anfitrione di Plauto,
nel prologo del quale dramma Mercurio dice:
" Eandem hanc, si voltis, faciam ex
tragoedia
comoedia
ut sit omnibus isdem versibus (vv. 54 - 55).
Questa medesima, se volete, farò in modo
che da tragedia
diventi commedia con tutti gli stessi versi.
E, subito dopo:
"faciam ut commixta sit tragico
comoedia " (v. 59), farò in modo che la commedia sia commista di
tragico.
Tornando al nostro dramma, il corifèo, che
è più semplice di tanti critici scarabocchiatori, domanda:
"Come potrebbe essere morta e vedere la luce la stessa persona? "
(142); e la serva risponde che Alcesti è mezza morta mezza viva:
"E' già a capo chino e agonizza" (143).
Quindi comincia il processo di
beatificazione della vittima che il corifèo definisce:
"la donna migliore tra quelle che stanno sotto il sole, e di gran lunga"
(151). Per questo motivo: "morrà
piena di gloria" (150).
Alcesti dunque è la donna eroica, l'ottima (ajrivsth) tra le mogli, colei che sacrificandosi per
il marito, ottempera femminilmente alla regola educativa degli eroi dell'Iliade:
" primeggiare (aristèuein) sempre ed essere egregio tra gli altri.
Lo raccomandano i padri ai figli: nel VI
canto (v. 208) Ippoloco a Glauco; nell'XI (v. 784) Peleo ad Achille.
Analoga componente abbiamo visto nell'eroismo
di Antigone: "però sei
innamorata dell'impossibile", le obietta la sorella (v. 90) vedendola
determinata a seguire il suo destino.
La serva ribadisce i meriti della padrona:
"come non la migliore? chi lo contesterà?
cosa deve dirsi
della la donna che la
supera? come una
potrebbe dimostrare
di onorare lo
sposo in misura maggiore che volendo morire per lui? " (Alcesti, vv. 152 - 155).
Questo, continua l'ancella, lo sanno tutti, ma
i particolari che la città non conosce la rendono ancora più pregevole.
Eccoli dunque:
"Quando si accorse che il giorno fatale
era giunto, ha
lavato il corpo candido con acque
correnti, e dopo
avere tirato fuori dalle casse di cedro
un vestito e gli
ornamenti, si preparò convenientemente
e stando in piedi
davanti alla dèa del focolare pregò" (158 - 162).
Questo racconto della collaboratrice ci
informa sul rispetto del proprio corpo, sull'ordine e l' avvedutezza casalinga
dell'eroina.
Kott
in questi dettagli trova forme di "realismo domestico... in nessun altro
testo greco sino a Menandro abbiamo una così netta sensazione di trovarci all'interno
della casa”. (Mangiare Dio, p. 120).
Il
critico anzi pensa che le virtù di Alcesti siano soprattutto quelle della
"buona massaia".. "Il legno di cedro, annota A. M. Dale nella
sua edizione critica di Alcesti, proteggeva gli abiti dall'umidità e
dalle tarme" (p. 119), e aggiunge che il massimo turbamento di Admeto
quando ritorno dal funerale e dice "ora comprendo" (940) provenga dalla paura della solitudine e
dal disgusto per il disordine che trova nelle stanze.
"Che cosa ha capito? " commenta
malignamente Kott: "Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui
non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo" (p. 127)
In effetti Admeto non fa una bella figura.
Ma ora torniamo al racconto dell'ancella
che riferisce la preghiera di Alcesti moritura a Estia ( la latina Vesta),
la dea del focolare domestico:
" Signora, poiché io vado sotto terra 163
per l'ultima
volta, caduta in ginocchio, ti chiederò
di prenderti cura
dei miei bambini orfani: all'uno unisci
una sposa che
l'ami, all'altra uno sposo nobile;
e che non muoiano
anzi tempo (qanei`n ajwvrou~) come muoio
io che li ho
generati, ma felici
nella terra
paterna possano compiere una vita lieta"169
Nel Fedro di Platone c’è una processione
celeste di dèi guidati da Zeus che ordina le cose e se ne prende cura. JEstiva mevnei ejn qew`n oi[kw/ movnh (247 A), Estia rimane nella casa degli dèi, da
sola.
Alcesti
dunque non lascia la vita per disgusto; anzi conserva stima di questo bene
prezioso che va perdendo, e anche del matrimonio che augura ai figli come un
bene. Ricordiamo che la pietà di Euripide, e, nelle lettere latine quella di
Virgilio, si volge spesso ai giovani che muoiono anzi tempo, ante diem.
Alcesti
non ha perduto fiducia negli dèi, né il rispetto di se stessa. Infatti:
"Poi si è accostata a tutti gli altari che
sono nella casa
di Admeto, li ha incoronati e ha pregato
staccando il fogliame dai ramoscelli di mirto,
senza lacrime (a[klauto~), senza gemiti (ajstevnakto~), né
l'imminente
disgrazia cambiava la bella natura del suo
incarnato" (170 - 174).
Molto
nobile è il fatto di non fare pesare sugli altri la sventura che viceversa la
giovane donna si è addossata.
Piangere in pubblico è cosa
riprovata più di una volta nella tragedia classica. Nell'Elettra sofoclea (v. 1172) il coro suggerisce alla protagonista: non piangere troppo; sei nata da padre
mortale, e Oreste pure era mortale. Pascersi di lacrime è una voluttà depravata:
infatti significa non riconoscere la giustizia divina.
Del resto
lacrimare in pubblico è pure sconveniente: nell'Antigone (vv. 1247 - 1249) il nunzio spera che
Euridice, appreso il suicidio del figlio, sparga lacrime sotto il suo tetto, non
pubblicamente.
Nell'Andromaca
di Euripide, la nutrice di Ermione consiglia alla ragazza affranta di entrare
nel palazzo per non dare spettacolo del proprio dolore.
Platone
biasima il piangere di Achille. Nella Repubblica (388b), Socrate dice
che si dovrebbe dire a Omero di non rappresentare Achille che si getta la
polvere sul capo o mentre fa altri pianti o lamenti.
A
Leopardi, viceversa, piacciono queste debolezze dell’eroe.
Il
poeta di Recanati ha assunto più volte atteggiamenti eroici però, o forse
perciò, nello Zibaldone fa notare che l'eroismo non coincide con la
perfezione né con la grandezza: : "Omero ha fatto Achille infinitamente
men bello di quello che poteva farlo... e noi proviamo che ci piace più Achille
che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec. "
(2).
Più
avanti leggiamo: "L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni
eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali
ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto
più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi" (471).
Alcuni
anni più tardi Leopardi scrive: “L’eroismo ci trascina non solo all’ammirazione,
all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci
sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della
nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano
con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado che avevano
dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così
gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di
Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi
difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22 Settembre 1828)”.
continua
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