NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 26 giugno 2016

Alcesti. III parte

teatro greco di Siracusa

Nella Parodo (vv. 77 - 135) il coro, formato da quindici anziani di Fere, esprime la speranza che il trapasso dell'amata regina non sia già avvenuto e si chiede come sia possibile evitarlo:
"Perché mai questa calma (hJsuciva) davanti al palazzo?
perché tace la casa di Admeto?
Non c'è nessuno degli amici vicino,
che possa dire se bisogna
che io pianga la regina come morta, o se ancora viva
veda questa luce la figlia di Pelia
Alcesti che a me e a tutti
è parsa essere ottima moglie (ajrivsth gunhv)
verso il suo sposo" (77 - 85).
Ecco dunque che il "misogino" Euripide ci presenta la migliore delle donne. Il primo canto del coro invero rimane sul generico e non mostra immagini di questo valore di femmina umana. Si limita a manifestare la speranza che arrivi l' aiuto soprannaturale di Apollo, il Peana o guaritore:
"oh se
in mezzo ai flutti dell'acciecamento
potessi apparire tu Peana!" (vv. 91 - 92).
Lo spettatore sa che è una speranza mal riposta, mentre ancora non sa, e glielo chiariranno i fatti, che l'acciecamento, l'ate la follia la quale, è figlia della violenza e madre di lacrime (Eschilo, i Persiani, 821 - 822) è male e colpa di Admeto, l'egoista, che solo verso la fine del dramma giungerà alla resipiscenza e soltanto alla fine del IV Episodio capirà:
"io che non avrei dovuto vivere, schivato il destino,
passerò la vita nel dolore: ora comprendo" ( lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw, vv. 939 - 940).
Queste di Admeto sono parole forti, "ideologiche", mentre i vecchi nella Parodo manifestano dolore e chiedono soccorso con parole scontate, oppure evasive, tali cioé che evocano posti remoti, come luoghi di possibile salvezza, un procedimento del resto tipicamente euripideo
" Bisogna, quando i buoni sono straziati
che si dolga
chiunque da sempre è stato considerato onesto" (crhstov~ 109 - 111).
A questa banalità di una parte del coro, un'altra parte replica:
"Ma non c'è un luogo sulla terra
dove uno avendo mandato una spedizione
navale, o la Licia,
o alle sedi senza
acqua di Ammone
potrebbe salvare la vita
dell'infelice? Infatti la morte scoscesa si accosta" ( movro~ ga; r ajpovtomo~ plavqei, v. 112 - 119). Efficace è l'aggettivo scosceso attribuito al burrone della morte: è una variazione di aijpu; n o[leqron dell’ Odissea ( I, 11).

A proposito di questa parodo inefficace calza la critica nicciana (La nascita della tragedia, 14) per la quale il coro euripideo è degradato rispetto a quelli di Eschilo e Sofocle poiché appare "come qualcosa di casuale" piuttosto che “una forza determinante nell'ingranaggio dell'opera: "
Secondo Nietzsche infatti il coro può soltanto essere concepito come “causa della tragedia e del tragico in generale".

La Parodo termina con parole sconsolate che rievocano il mito di Asclepio, il figlio di Apollo, che risuscitava i morti,
"prima che lo colpisse il dardo
del fuoco fulmineo scagliato da Zeus" (128 - 129).
Ma, scomparso così il risanatore miracoloso
"adesso quale speranza di vita
posso accogliere ancora? " (130 - 131) si domandano i vecchi di Fere. C’è dunque rassegnazione per la morte di Alcesti.

Il Primo Episodio (136 - 212) inizia con l'ingresso in scena di una delle serve di Alcesti. Il corifèo le domanda se la padrona sia ancora viva o già morta.
E l'ancella risponde:
"Ti è possibile dire che è viva e che è morta" (141).
Euripide e i suoi personaggi non hanno proprio nessuna sicurezza: nemmeno quella della vita e della morte.
C'è un frammento del Frisso di Euripide che dice:
"chi sa se il vivere sia morire
e il morire invece vivere? ".

Jan Kott in Mangiare Dio commenta tanta incertezza sostenendo che "l'ambiguità è il cardine dell'Alcesti "p. 142).
Del resto l'ambiguità è una delle caratteristiche dell'affabulazione tragica: "il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali" (p. 142).
L'Alcesti poi è un dramma ambiguo anche come genere: non si capisce se sia una tragedia o una commedia. In questo senso, sostiene il critico polacco, può raffrontarsi con l'arte manieristica che imita l'arte invece della natura,
Euripide dunque apre la via a questa mescolanza di generi che nella cultura classica ha un seguito nell' estetica del sofista Crizia permeata dall'antitesi, o nell' Anfitrione di Plauto, nel prologo del quale dramma Mercurio dice:
" Eandem hanc, si voltis, faciam ex tragoedia
comoedia ut sit omnibus isdem versibus (vv. 54 - 55).
Questa medesima, se volete, farò in modo che da tragedia
diventi commedia con tutti gli stessi versi.
E, subito dopo:
"faciam ut commixta sit tragico comoedia " (v. 59), farò in modo che la commedia sia commista di tragico.

Tornando al nostro dramma, il corifèo, che è più semplice di tanti critici scarabocchiatori, domanda:
"Come potrebbe essere morta e vedere la luce la stessa persona? " (142); e la serva risponde che Alcesti è mezza morta mezza viva:
"E' già a capo chino e agonizza" (143).
Quindi comincia il processo di beatificazione della vittima che il corifèo definisce:
"la donna migliore tra quelle che stanno sotto il sole, e di gran lunga" (151). Per questo motivo: "morrà piena di gloria" (150).

 Alcesti dunque è la donna eroica, l'ottima (ajrivsth) tra le mogli, colei che sacrificandosi per il marito, ottempera femminilmente alla regola educativa degli eroi dell'Iliade: " primeggiare (aristèuein) sempre ed essere egregio tra gli altri.
Lo raccomandano i padri ai figli: nel VI canto (v. 208) Ippoloco a Glauco; nell'XI (v. 784) Peleo ad Achille.

 Analoga componente abbiamo visto nell'eroismo di Antigone: "però sei innamorata dell'impossibile", le obietta la sorella (v. 90) vedendola determinata a seguire il suo destino.

La serva ribadisce i meriti della padrona:
"come non la migliore? chi lo contesterà?
cosa deve dirsi della la donna che la
supera? come una potrebbe dimostrare
di onorare lo sposo in misura maggiore che volendo morire per lui? " (Alcesti, vv. 152 - 155).

 Questo, continua l'ancella, lo sanno tutti, ma i particolari che la città non conosce la rendono ancora più pregevole.
Eccoli dunque:
"Quando si accorse che il giorno fatale
era giunto, ha lavato il corpo candido con acque
correnti, e dopo avere tirato fuori dalle casse di cedro
un vestito e gli ornamenti, si preparò convenientemente
e stando in piedi davanti alla dèa del focolare pregò" (158 - 162).

Questo racconto della collaboratrice ci informa sul rispetto del proprio corpo, sull'ordine e l' avvedutezza casalinga dell'eroina.

 Kott in questi dettagli trova forme di "realismo domestico... in nessun altro testo greco sino a Menandro abbiamo una così netta sensazione di trovarci all'interno della casa”. (Mangiare Dio, p. 120).

 Il critico anzi pensa che le virtù di Alcesti siano soprattutto quelle della "buona massaia".. "Il legno di cedro, annota A. M. Dale nella sua edizione critica di Alcesti, proteggeva gli abiti dall'umidità e dalle tarme" (p. 119), e aggiunge che il massimo turbamento di Admeto quando ritorno dal funerale e dice "ora comprendo" (940) provenga dalla paura della solitudine e dal disgusto per il disordine che trova nelle stanze.
"Che cosa ha capito? " commenta malignamente Kott: "Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo" (p. 127)
In effetti Admeto non fa una bella figura.

Ma ora torniamo al racconto dell'ancella che riferisce la preghiera di Alcesti moritura a Estia ( la latina Vesta), la dea del focolare domestico:
" Signora, poiché io vado sotto terra 163
per l'ultima volta, caduta in ginocchio, ti chiederò
di prenderti cura dei miei bambini orfani: all'uno unisci
una sposa che l'ami, all'altra uno sposo nobile;
e che non muoiano anzi tempo (qanei`n ajwvrou~) come muoio
io che li ho generati, ma felici
nella terra paterna possano compiere una vita lieta"169

Nel Fedro di Platone c’è una processione celeste di dèi guidati da Zeus che ordina le cose e se ne prende cura. JEstiva mevnei ejn qew`n oi[kw/ movnh (247 A), Estia rimane nella casa degli dèi, da sola.

Alcesti dunque non lascia la vita per disgusto; anzi conserva stima di questo bene prezioso che va perdendo, e anche del matrimonio che augura ai figli come un bene. Ricordiamo che la pietà di Euripide, e, nelle lettere latine quella di Virgilio, si volge spesso ai giovani che muoiono anzi tempo, ante diem.

Alcesti non ha perduto fiducia negli dèi, né il rispetto di se stessa. Infatti:
"Poi si è accostata a tutti gli altari che sono nella casa
di Admeto, li ha incoronati e ha pregato
staccando il fogliame dai ramoscelli di mirto,
senza lacrime (a[klauto~), senza gemiti (ajstevnakto~), né l'imminente
 disgrazia cambiava la bella natura del suo incarnato" (170 - 174).

Molto nobile è il fatto di non fare pesare sugli altri la sventura che viceversa la giovane donna si è addossata.
Piangere in pubblico è cosa riprovata più di una volta nella tragedia classica. Nell'Elettra sofoclea (v. 1172) il coro suggerisce alla protagonista: non piangere troppo; sei nata da padre mortale, e Oreste pure era mortale. Pascersi di lacrime è una voluttà depravata: infatti significa non riconoscere la giustizia divina.
Del resto lacrimare in pubblico è pure sconveniente: nell'Antigone (vv. 1247 - 1249) il nunzio spera che Euridice, appreso il suicidio del figlio, sparga lacrime sotto il suo tetto, non pubblicamente.
Nell'Andromaca di Euripide, la nutrice di Ermione consiglia alla ragazza affranta di entrare nel palazzo per non dare spettacolo del proprio dolore.
Platone biasima il piangere di Achille. Nella Repubblica (388b), Socrate dice che si dovrebbe dire a Omero di non rappresentare Achille che si getta la polvere sul capo o mentre fa altri pianti o lamenti.
A Leopardi, viceversa, piacciono queste debolezze dell’eroe.

Il poeta di Recanati ha assunto più volte atteggiamenti eroici però, o forse perciò, nello Zibaldone fa notare che l'eroismo non coincide con la perfezione né con la grandezza: : "Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo... e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec. " (2).
Più avanti leggiamo: "L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi" (471).

Alcuni anni più tardi Leopardi scrive: “L’eroismo ci trascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado che avevano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22 Settembre 1828)”. 


continua

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