mercoledì 8 giugno 2016

Il mito di Er. La scelta del destino. I parte


Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira,  tornò in vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica, 614b).
Er disse che l’anima, quando esce dal corpo,  si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due  nel cielo di fronte, in alto.
In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`)  e agli ingiusti di precipitare in basso a sinistra.
A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire nunzio agli uomini  delle cose dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).

Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).

Le anime giunte sul prato (eij~ to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si conoscevano.
Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th;n poreivan cilievth, 615).
Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).

I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.
Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.

Il giudizio delle anime nel Gorgia di Platone.
Nel Gorgia  c’è il racconto del giudizio delle anime. In questo dialogo platonico Socrate dice a Callicle, il sofista fautore del diritto del più forte,  che al tempo di Crono e all’inizio del regno di Zeus, c’erano giudici viventi che giudicavano uomini ancora vivi, emettendo sentenze nel giorno in cui era destino che i giudicati morissero. Ma i giudizi erano errati (kakw`~ ou\n aiJ divkai ejkrivnonto, 523b). Così succedeva che nel carcere del Tartaro finissero i giusti e nelle isole dei beati i malvagi. Zeus comprese che gli errori giudiziari dipendevano dal fatto che i  giudici vivi emettevano sentenze su dei vivi, e questi potevano trarre in inganno  poiché  le anime malvagie erano rivestite con corpi attraenti, autorizzate da stirpi illustri, coperte da ricchezze, e aiutate da molti testimoni che davano false testimonianze (523c).
 I giudici ne restavano impressionati e condizionati.
Allora Zeus disse che gli uomini non dovevano conoscere in anticipo il giorno della loro morte. Inoltre sarebbero stati giudicati del tutto privi di orpelli, cioè da morti. Anche il giudice doveva essere nudo e morto, così da penetrare direttamente con lo sguardo nell’anima di ciascun giudicato. E veniva vietato il seguito di parenti.
 Zeus designò quali giudici  tre figli suoi: Minosse[1] e Radamanto[2] provenienti dall’Asia, Eaco[3]  dall’Europa. Il giudizio doveva avere luogo nel prato di asfodeli, ejn th`// triovdw/ ejx h|~ fevreton tw; oJdwv (524a) nel triodo dal quale si dipartono due vie: una porta all’isola dei beati, l’altra al Tartaro[4].
Socrate prosegue il racconto ricordando a Callicle che i cadaveri conservano segni della vita vissuta. Se uno da vivo aveva le membra rotte o contorte (kateagovta mevlh h] diestrammevna, 524c), tali deformità sono evidenti anche nel cadavere.  Ebbene, questo avviene anche per l’anima che prende delle segnature secondo il modo di comportarsi degli uomini.
Quando il Gran Re d’Asia, per esempio, o un altro sovrano si presenta davanti a Radamanto, questo vede che l’anima di molti dinasti è piena di piaghe (oujlw`n mesthvn) causate da spergiuri e ingiustizia (uJpo; ejpiorkiw`n kai; ajdikiva~, 525a) che marchiano l’anima.
Tutto è distorto dalla menzogna e dalla impostura  e non c’è nulla di retto poiché l’anima è cresciuta lontana dalla verità (panta skolia; uJpo; yeuvdou~ kai; ajlazoneiva~ kai; oujde;n eujqu; dia; to; a[neu ajlhqeiva~ teqravfqai).
Radamanto  vedendo l’anima piena di disordine e bruttura (ajsummetriva~ te kai; aijscrovthto~ gevmousan), la caccia direttamente e con ignominia in carcere, dove subirà i giusti patimenti.
Le anime curabili, qui nella terra e nell’Ade, traggono giovamento dalle sofferenze e dai dolori. E’ il tw`/ pavqei mavqo~ di Eschilo[5].   
Ma ci sono anche quelli che hanno coomesso ingiustizie estreme e per queste sono diventati incurabili (ajnivatoi525c), ebbene questi restano sospesi nel carcere dell’Ade a fare da esempi negativi: la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li vedono. La maggior parte di questi esempi negativi sono tiranni, re, dinasti e politico.
Omero ha voluto significare questo collocando  tra i tormenti dell’Ade Tantalo, Sisifo e Tizio[6]. Tersite e altri che furono malvagi da privati cittadini, non subiscono pene eterne. Socrate ne deduce che i più malvagi appartengono al numero dei potenti, anche se non è detto che tutti i potenti siano dei farabutti. Alcuni sono delle eccezioni alla regola della loro casta e sono da ammirare poiché è meritorio vivere da persone giuste avendo la possibilità di fare del male.
Del re di Persia in precedenza Socrate aveva detto a Polo che ignorava se fosse felice in quanto non sapeva come stesse a educazione e a giustizia (ouj ga;r oi\da paideiva~ o{pw~ e[cei kai; dikaiosuvnh~, 470e). Sono questi i criteri di giudizio della felicità.

Ma torniamo alla Repubblica  platonica e al mito di Er.
Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo (   jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to)
Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che  afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel Tartaro.

Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv)  distesa per tutto il cielo e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.
Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon   jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli (ojktw; ga;r ei\nai tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi gli uni negli altri.
Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo. E’ l’ordine pitagorico.

            Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.

Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.

Le Sirene
“Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[7] O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione, proponeva nella Repubblica, esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[8]; quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del sapere, sul tipo delle doctae sirenes celebrate da Ovidio?”[9].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae Sirenes, figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì,  cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i fiori primaverili. Come la Kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.
  Per questo divennero alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero la facoltà del canto, ille canor mulcendas natus ad auras (561), fatto per incantare gli orecchi. 
Nell’ultimo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio,  Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con  degli scogli vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne, incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per dimora.  (Argonautiche, 4, 892 sgg.).  Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna.


continua



[1] Cfr. Odissea, XI, 568-571, Virgilio, Eneide, VI, 432 e Dante Inferno , V, 34 e sgg.
[2] Cfr. Odissea, IV, 563-565
[3] Cfr. Pindaro, Istmica VIII, 26
[4] Cfr. Virgilio,  Eneide VI: hic locus est, partis ubi se via findit in ambas,
Questo è il luogo dove la via si divide in due parti.
E continua:
la destra che tende sotto le mura del grande Dite,
per di qua la nostra via verso l’Elisio; ma la sinistra dei malvagi
mette in atto le pene e all’empio Tartaro invia”.
[5] Agamennone, v. 177.
[6] Cfr. Odissea, XI, 576-600.
[7] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo dell’Elena di Euripide dove Elena intona  il primo  canto   cui risponde il coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto.  La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~  (v. 169)  pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi  gemiti con il flauto libico o le zampogne ,  lacrime, canti di pianto accordati con i suoi   desolati lamenti, dolori per dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr
[8] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che  l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che erano  risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw;  oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[9] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27-28

1 commento:

  1. Il mito di Er è affascinante anche perchè precorre la moderna psicologia , veramente che i classici parlano di noi . Con più spessore e chiarezza di tanti contemporanei.Grazie. Giovanna Tocco

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