mercoledì 29 giugno 2016

Alcesti. IV parte

Pierre Peyron,
Admeto piange sul letto di Alcesti

Tacito nella Germania (27, 1) fa distinzione tra il pianto dei maschi e quello delle femmine: "Feminis lugere honestum est, viris meminisse ", per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ancora a proposito dell'ostensione del dolore Nietzsche scrive: "A che cosa rimanda il fatto che la nostra cultura non solo è tollerante verso le estrinsecazioni del dolore, verso le lacrime, i lamenti, i rimproveri, il gesticolare del furore o dell'umiliazione, ma le approva e le annovera tra le più nobili delle cose inevitabili? Invece lo spirito dell'antica filosofia le riguardava con disprezzo e non annetteva loro assolutamente alcuna necessità. Ci si rammenti come Platone - cioè uno dei filosofi non certo meno umani - parla del Filottete della scena tragica. Che alla nostra moderna cultura manchi “la filosofia? ” Apparterremmo forse noi tutti e ciascuno in particolare, secondo quanto stimavano quegli antichi filosofi, alla “plebe”? ".
Non a tutti gli autori moderni del resto approvano le lacrime: infatti l'autore di Il Gattopardo considera le lamentele poco aristocratiche: "Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrino, lo so, se siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un 'signore' lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco" (p. 135).

Alla vista del letto però Alcesti non riesce a trattenere le lacrime:
“Poi, gettatasi nel talamo e sul letto
qui scoppiò a piangere e dice così:
‘o letto dove io ebbi sciolta la castità verginale
da quest'uomo per il quale muoio
addio: infatti non ti odio, poiché tu hai mandato in rovina me
sola: io muoio non volendo tradire te e
lo sposo. Un altra donna ti possederà,
più casta no (swvfrwn me; n oujk a]n ma`llon), più fortunata forse (eujtuch; ~ d j i[sw~, vv. 175 - 182).

Gli ultimi due versi si ritrovano parodiati in una commedia di Aristofane, i Cavalieri, dove Paflagone, cedendo la corona il simbolo del potere al salsicciaio che lo ha battuto nella volgarità e nell'impudenza dice:
"ti lascio: un altro ti avrà dopo averti presa,
ladro non più di me, ma forse più fortunato" (1251 - 1252).
klevpth~ me; n oujk a]n ma`llon, eujtuch; ~ d j i[sw~, vv. 175 - 182

Il letto dunque è il mobile più importante della casa. Ed è una suppellettile citata spesso dalle donne di Euripide, come nodo di affetti e di pulsioni, come simbolo della stessa situazione femminile. Ricordiamo, oltre i passi già citati, questa affermazione di Medea:
"La donna infatti nelle altre cose è piena di paura,
è vile nella lotta e a vedere un'arma;
ma quando si trova ad essere offesa nel letto
non c'è altro cuore più sanguinario" ( Medea, vv. 263 - 266).

Intanto la donna morente, compianta da tutti, saluta ciascuno con signorilità davvero regale:
"Tutti piangevano i servi nella casa
compatendo la regina; ed ella tendeva
la destra ad ognuno e non c'era nessuno così vile
cui non rivolgesse la parola e dal quale non ricevette un saluto" (vv. 192 - 195).


Si può ricordare a questo proposito la lettera 47 di Seneca: "libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cun servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet"" (1), volentieri sono venuto a sapere da quelli che vengono da casa tua che tu vivi da amico con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza, alla tua cultura.

Quindi la serva passa al racconto della miserevole situazione di Admeto:
"Piange tenendo l'amata sposa tra le braccia201
e la prega di non abbandonarlo, chiedendo
 l'impossibile: infatti Alcesti si distrugge e consuma per la malattia
Lasciandosi andare, misero peso per il suo braccio
tuttavia, seppur poco, ancora respirando,
vuole volgere lo sguardo verso lo sfavillare del sole
poiché non più un'altra volta, ma ora per l'ultima volta
vedrà i raggi e il cerchio del sole". (208)
Ecco dunque la contraddizione di Admeto, il pover' uomo che dopo avere chiesto alla moglie di morire al suo posto, la prega di non abbandonarlo. Piuttosto che un antico eroe sembra un omuncolo moderno.
Alcesti dal canto suo cerca la luce, come faranno le creature del neoclassico Foscolo ("perché gli occhi dell'uom cercan morendo/ il Sole", i Sepolcri, 121) o di Ibsen: "Mamma, il sole... dammelo, dammi il sole", chiede Osvald nell'ultimo atto degli Spettri e, chiudendo il dramma, ripete: 'il sole, il sole".

Nel Primo Stasimo (vv. 213 - 243) il coro rivolge una preghiera agli dèi, e in particolare ad Apollo, il "signore Peana" (v. 221), affinché "trovi un rimedio contro i mali di Admeto".
La richiesta è accompagnata dal ricordo riconoscente della grazia già ricevuta, Ricorda la Preghiera ad Afrodite di Saffo:
"procuralo, procuralo: anche in precedenza infatti (kai; pavro~ gavr)
lo trovasti; anche ora
sii liberatore dalla morte,
e tieni lontano Ades omicida" (222 - 225).

Ricorda la Preghiera ad Afrodite di Saffo
ma vieni qua, se mai anche l'altra volta
udendo la mia voce da lontano
mi desti ascolto, e, lasciata la casa d'oro
del padre, giungesti
aggiogato il carro…
Vieni da me anche ora (e[lqe moi kai; nu'n).

Segue il compianto per i mali di Admeto "degni di sgozzamento" (227) e i versi con la constatazione che le nozze, anche con la migliore delle donne, portano comunque dolore.
Il Coro dunque, formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", o}sti" ajrivsth" - ajplakw; n ajlovcou th'sd j, ajbivwton - to; n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

All'inizio del Secondo Episodio (244 - 434) entra in scena Alcesti con queste parole:
"Sole e luce del giorno
e vortici celesti di nuvola in corsa" (244 - 245).
Il sole dunque viene invocato quale un dio, forse "il primo fra tutti gli dèi", com'è chiamato nell'Edipo re (v. 660) e quale "la luce più bella" (Antigone, 101 - 102).
Insomma questo verso fa parte di quell'elogio del sole che percorre parte della letteratura greca e prosegue oltre in quella europea; proviamo ad indicarne alcune espressioni.
Già Omero nell'Odissea (XI, 109) gli attribuisce la facoltà di vedere e ascoltare tutto.
Nell'inno omerico a Demetra infatti, quando Persefone viene rapita, solo Ecate ed Elio, splendido figlio di Iperone (v. 26), udirono la fanciulla che invocava il padre Cronide.
Se ne ricorderà, all'inizio dell'Asino d'oro, Apuleio quando giura al lettore che sta per raccontare la verità (I, 5): "sed tibi prius deierabo solem istum omnividentem Deum ", ma prima ti giurerò per il sole, questo dio che vede tutto.
Il coro delle Trachinie di Sofocle (v. 102) lo invoca così: " o tu che domini con lo sguardo".
Nell'Edipo re è anche chiamato (v. 1425), " la fiamma che nutre la vita" (v. 1425).
Nell'Edipo a Colono (v. 869)è, con una ripresa dell'idea omerica, " Elio che vede tutto".
 Nell'Antigone la fanciulla lamenta che non le sia più permesso i
di vedere "il santo volto di luce" (vv. 879 - 880).
 Aiace prima di uccidersi invoca il sole (vv. 845 - 848):
" o tu che spingi il carro per il cielo scosceso,
Sole, quando vedi la mia terra
Patria, trattenuta la briglia d'oro,
annuncia il mio accecamento e il mio destino".
La luce del sole è sacra per quanti sono iniziati ai misteri nelle Rane di Aristofane (vv. 454 - 456).
L'"ateo" Prodico di Ceo chiama dèi i quattro elementi e poi il sole e la luna. Infatti affermava che da questi ha esistenza per tutti la vitalità.
Nella Repubblica di Platone dove si narra il mito della caverna, il sole è l'immagine dell'idea del bene ( 517c) che a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
Cicerone nel Somnium Scipionis (IV, 9) lo chiama"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del mondo e forza regolatrice, seguendo un misticismo solare di origine pitagorica.
Virgilio, nella prima Georgica (463 - 464), afferma la sincerità del sole nel dare segni: "Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe chiamarlo falso?
 Seneca in una lettera a Lucilio (73, 6) esprime personale riconoscenza al sole e alla luna che pure sorgono per tutti: "Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur ".
Se diamo una rapida occhiata alla letteratura moderna, vediamo che Francesco d'Assisi nel Cantico delle creature definisce "messèr lu frate sole", "bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione".
Questa riconoscenza per il sole interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, come si vede, percorre vari momenti della letteratura europea.
Facciamo solo un altro paio di esempi tratti dal neoclassicismo. F. Hölderlin in Iperione scrive: " l'eroica luce del sole dona gioia con i suoi raggi alla terra" (p. 76), e, "il sacro sole sorrideva tra i rami, il buon sole che non posso nominare senza gioia e gratitudine, che spesso, con un solo sguardo, mi ha guarito da un profondo dolore e ha purificato la mia anima dallo scontento e dalle preoccupazioni" (p. 111).
Foscolo, nell'Ortis, lo chiama"ministro maggiore della natura" (20 novembre 1797) e "sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato" (3 aprile 1798).
infine Leopardi nello Zibaldone (3833 - 3834) scrive: "Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa

 (5 Nov. 1823.).


continua 

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