Presentazione del libro Limite
di Remo Bodei
(il Mulino, 1916)
L’estensione dei sensi
e la plasticità del cervello umano (primo capitolo pp. 12-16).
I sensi costituiscono per quasi tutti gli animali “i canali
di comunicazione tra l’interno e l’esterno dell’organismo”
Sono “le cinque principali finestre sul mondo”.
A mano a mano che queste
si chiudono, ci avviciniamo all’ultimo atto della vita dove noi, secondo
il malinconico Jaques di As you like it [1],recitiamo sette parti durante sette età.
"L'ultima scena,
che chiude questa storia strana e piena di eventi, è una seconda fanciullezza e
completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla" (II,
7)
I nostri sensi sono in molti casi meno raffinati e potenti
rispetto a quelli di altre specie: “ Non abbiamo, in effetti, l’udito dei cani
per gli ultrasuoni, né l’olfatto degli squali (per non parlare del maschio di
una farfalla, significativamente chiamata Satyr
satyr, che avverte a chilometri di distanza l’odore della femmina). Non
possediamo la proverbiale vista delle aquile, non cogliamo con i nostri occhi i
movimenti rapidi come le rane, non percepiamo l’ultravioletto al pari delle api
o l’infrarosso al pari dei polli”.
Pindaro attribuisce a Linceo ojxuvtaton-
o[mma ( Nemea X, 61-62) , la
vista più acuta tra tutti gli abitanti della terra. Dal Taigeto vide Ida che
stava nel tronco di una quercia (cfr. anche Pausania, IV, 2, 7).
Per l’acutezza della sua vista (ojxuderkiva/) Linceo era
tanto superiore da penetrare anche sotto terra (wJ"
kai; ta; uJpo; gh`n qewrei`n, Apollodoro, Biblioteca, III, 10). Ma questi sono miti, favole piene di
iridescenti bugie.
“Vi è però uno dei canonici cinque sensi su cui la specie
umana presenta un vantaggio: il tatto che- a causa della nostra pelle delicata,
priva di pelliccia e di armature biologiche come quelle dei pachidermi-possiede
nel suo campo una maggiore competenza e finezza nel discriminare le varie
sensazioni. In noi questo senso si estende a tutto il corpo, che è sensibile al
caldo e al freddo, al liscio e al rugoso, al morbido e al duro. In una storia
della carne trovano così posto la carezza materna, l’erotica e il senso della
certezza, del “toccare con mano” per accertarsi della verità di qualcosa”.
Admeto, nell’Alcesti
di Euripide, comincia a credere che la donna velata portata nel suo palazzo da
Eracle sia la propria moglie strappata alla morte solo dopo che ha chiesto e
ottenuto dall’ospite il permesso di toccarla (qivgw
(…); v. 1131).
“Machiavelli, come strumento di potere da parte dei principi,
contrappone opportunamente il tatto alla vista. Sostiene, infatti, che il
principe lascia vedere ai sudditi solo quello che vuole mostrare, ma impedisce
loro di toccare con mano, ossia di controllare, ciò che, simulando e
dissimulando, vuol far loro credere.
E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle
mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che
tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi all’opinione di molti che abino la
maestà dello stato che li difenda” (Il
principe, XVIII, 5-7)”.
In certi casi nemmeno il tatto è soddisfacente: per quanto
riguarda l’amore, Lucrezio inficia il piacere del contatto sessuale con
l’avverbio sesquipedale nequiquam:
"sic in
amore Venus simulacris ludit amantis/nec satiare queunt spectando corpora
coram/nec manibus quicquam teneris abradere membris/possunt errantes incerti
corpore toto./Denique cum membris collatis flore fruuntur/aetatis, iam cum
praesagit gaudia corpus/atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,/adfigunt
avide corpus iunguntque salivas/oris et inspirant pressantes dentibus
ora,/nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt/nec penetrare et abire in
corpus corpore toto;/nam facere interdum velle et certare videntur:/usque adeo
cupide in Veneris compagibus haerent,/ membra voluptatis dum vi labefacta
liquescunt " (De rerum natura, IV, vv.
1101-1114), così nell'amore Venere con i
simulacri beffa gli amanti, né possono saziarsi rimirando i corpi presenti, né
con le mani possono raschiare via nulla alle tenere membra, mentre errano
incerti per tutto il corpo. Infine, come, congiunte le membra, godono del fiore
della giovinezza, quando già il corpo pregusta il piacere, e Venere è sul punto
di seminare i campi della femmina, inchiodano avidamente il corpo e mescolano
le salive della bocca, e ansimano premendo coi denti le labbra, invano poiché
di lì non possono raschiare via niente, né penetrare e sparire nel corpo con
tutto il corpo, infatti sembrano talvolta volere farlo lottando: a tal punto
sono avidamente attaccati nei lacci di Venere, mentre le membra sdilinquite
dalla violenza del piacere si struggono.
Sembra che gli amanti vogliano mangiarsi a vicenda: invano.
Simile è questa situazione nel Castello di Kafka quando K. e Frieda “vacillarono e caddero sul
letto. E lì giacquero, ma non con l’abbandono di quella prima notte. Lei
cercava qualcosa, e lui pure, e ciascuno, furente e col viso contratto, cercava
conficcando il capo nel petto dell’altro; né i loro amplessi né i loro corpi
tesi li rendevano dimentichi, ma anzi li richiamavano al dovere di cercare
ancora; come i cani raspano disperatamente il terreno, così essi scavavano
l’uno il corpo dell’altro, e poi, delusi, smarriti, per trovare un’ultima
felicità, si lambivano a volte con la lingua vicendevolmente il viso. Solo la
stanchezza li pacificò e li riempì di mutua gratitudine. Poi sopraggiunsero le
due serve. “Guarda quei due sul letto” disse l’una, e per compassione li coprì
d’un lenzuolo”[2].
“Tutti i sensi possono essere modificati dall’educazione,
come sa chiunque studi musica o pittura, faccia il sommelier o si eserciti semplicemente a guardare, ad ascoltare o a
gustare. Essi possono essere migliorati, surrogati o sostituiti dalla
tecnologia, che supera con artifici i limiti imposti dalla natura. Ciò avviene
non solo attraverso protesi artificiali (dagli occhiali, inventati nel
Medioevo, agli apparecchi acustici o ai più recenti sistemi di bioingegneria in
grado, per ora, di far vedere ai ciechi delle ombre confuse), ma anche
attraverso la realtà virtuale, che modifica lo stato di uno di essi, il tatto”.
La tecnologia ha fatto miracoli, ma il suo stesso inventore
primo, Prometeo, deve riconoscere che essa è comunque molto più debole della
necessità: “ tevcnh
d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/
(Prometeo incatenato, v. 514).
Euripide riconosce questa forza suprema nel terzo stasimo
dell’Alcesti
"Io
attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi
ragionamenti (pleivstwn
aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della
Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n
jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie
che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi
Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle
malattie"(vv. 962-972).
Restituisco
la parola all’autore che conclude questo secondo capitolo con un’altra
considerazione relativa al tatto: “Quest’ultimo, appunto-a differenza della
vista e dell’udito, che sono sensi pubblici della distanza e implicano la
reciprocità del vedere e dell’essere visto, dell’udire e dell’essere udito-, è
finora rimasto un senso privato: io tocco un oggetto, ma nessun altro può
condividere con me la medesima sensazione nello stesso momento. Se però
indosso, assieme ad altre persone vincolate al medesimo programma di realtà
virtuale, un casco o dei guanti provvisti di sensori sul capo e nei
polpastrelli, allora tanto io che gli altri abbiamo simultaneamente la medesima
sensazione di toccare, ad esempio, gli spigoli di un cubo mostratoci nel
cyberspazio”.
giovanni
ghiselli 4 giugno 2016
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