martedì 30 giugno 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XIII


Aspetti di pietas autentica. Contro l’insepoltura (Odisseo nell’Aiace) e contro i sacrifici umani (l’Ecuba di Euripide, le Troiane di Seneca). Contro la pena di morte. Chi ha voluto uccidere Saddam Hussein non è migliore di lui.

E' vero che la disumanità di Enea ricorda quella di Achille nell'Iliade[1], ma, volendo rappresentare un personaggio pio, sarebbe stato più congruo utilizzare come modello l'Odisseo dell'Aiace di Sofocle, quando l'Itacese suggerisce ad Agamennone di non lasciare il suicida spietatamente insepolto (v. 1333), poiché così facendo distruggerebbe le leggi degli dèi[2] (vv. 1343-1344). Infatti, se fu nobile odiare ( "misei'n kalovn" v. 1347) Aiace nel pieno della sua forza, e lui, Odisseo, allora lo ha fatto (e[gwg j ejmivsoun, v. 1347) sarebbe un successo indegno (v. 1349) oltraggiare il cadavere di un uomo che è stato un nemico (" ejcqrov"") sì, però valoroso ("gennai'o"", v. 1355).
Ma non è facile che un tiranno abbia pietà, replica Agamennone: “Tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rav/dion” (v. 1350). Nel caso specifico si tratta
Di quella pietà che impedisce di manifestare gioia per la morte di un nemico.
Il figlio di Laerte lo aveva già messo in rilievo nell'Odissea, quando la sua nutrice Euriclea aveva urlato la sua felicità per la morte dei proci. Le aveva ordinato di non esultare poiché non è pietà ("oujc oJsivh") far festa sugli uomini uccisi (XXII, 411-412) [3].
Contro i sacrifici umani si esprime umanamente, ancor più che umanisticamente[4], la vecchia regina troiana nell'Ecuba di Euripide che accusa la disumanità dei demagoghi rappresentati da Odisseo: "Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano/presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?(vv. 254-261). Poco più avanti Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: "mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li" " (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti.
Anche l’assassina Clitennestra, alla fine dell’Agamennone ha orrore del sangue: a Egisto che vorrebbe uccidere ancora, o essere ucciso, dice: “mhdamw'~, w\ fivltat j ajndrw'n, -a[lla dravswmen kakav. - ajlla; kai; tavd j ejxamh'sai-polla; duvsthnon qevro~: -phmonh'~ dj a{li~ g j: u{parce-mhdevn: hJ/matwvmeqa” (vv. 1653-1658), no, per niente, carissimo tra gli uomini, non facciamo altri mali. Anche questi sono molti da mietere, misera messe. Basta sciagure. Non cominciare nulla: siamo coperti di sangue.
What bloody man is that?[5]
Nelle Troiane di Seneca Agamennone prende una posizione analoga contro lo spietato Pirro che esige il sacrificio di Polissena: "Quidquid eversae potest/superesse Troiae, maneat: exactum satis/poenarum et ultra est. Regia ut virgo occidat/tumuloque donum detur et cineres riget/et facinus atrox caedis ut thalamos vocent, /non patiar. In me culpa cunctorum redit: /qui non vetat peccare, cum possit, iubet " (vv. 285-291), tutto ciò che può sopravvivere di Troia sconvolta, rimanga: è stato fatto pagare abbastanza in fatto di pene e anche troppo. Non sopporterò che la ragazza figlia della regina muoia, e la sua vita sia donata a una tomba, e spruzzi di sangue le ceneri, e chiamino cerimonia nuziale il crimine atroce di un assassinio: la colpa di tutti i misfatti ricade su me: chi non impedisce un delitto, quando può, è come se lo avesse ordinato.
Se deve essere fatto un sacrificio in onore di Achille, continua il dux, "caedantur greges/fluatque nulli flebilis matri cruor " (vv. 296-297), si ammazzino animali del gregge e scorra il sangue che non faccia piangere nessuna madre umana.
Eppure c’è ancora chi considera la pena di morte un atto di giustizia e plaude ai bombardamenti sulle abitazioni umane in nome della democrazia.
Chi ha voluto uccidere Saddam e altri, pure colpevoli, a sangue freddo, non è migliore di loro.





[1] XXII, 352-354.
[2] Questo principio è il motivo della contesa tra Antigone e Creonte nell’Antigone di Sofocle e nelle successive.
[3] Il divieto di gioire per la morte del nemico è un tabù antico secondo Freud il quale in Totem e tabù indica alcune culture primitive che ne conservano manifestazioni evidenti: "nell'isola di Timor.. viene eseguita una danza, accompagnata da un canto in cui si piange il nemico abbattuto e si chiede il suo perdono"(p. 58).
[4] Cfr. T. Mann, La montagna incantata, II, p. 239.
[5] Shakespeare, Macbeth, I, 2, Chi è quell’uomo insanguinato?

sabato 27 giugno 2015

L'inizio del lavoro di insegnante. VIII parte

il Castello Superiore di Marostica
La “buona” scuola va avanti nonostante le proteste del paese. Io procedo nel racconto dell’accoglienza che ricevetti dal mio primo preside, non il peggiore del resto tra tutti i presidi della mia vita. Nemmeno il migliore a dire il vero, ma certamente un personaggio esemplare del fatto che molti dirigenti scolastici, quasi tutti credo, non hanno gli strumenti per giudicare la preparazione e l’efficienza degli insegnanti, in particolare di quelli che impiegano la maggior parte del loro tempo studiando.

“Mi dia un’aula qua dentro - gli dissi - una stanza un po’ soleggiata. La scuola sta per finire ma i ragazzi vogliono continuare a studiare con me fino all’esame. ”
“Non voglio che lei qui faccia un club”, rispose. “ Lei, le ragazze può vederle solo di mattina durante il suo orario. Altrimenti si aspetti una censura. La sto preparando”
“Ho capito” conclusi. “Ho sentito”.
Poi mi sottrassi al suo occhio cattivo che mi aveva fissato con una luce di sinistro bagliore.
Continuai a fare lezione alle ragazzine e ai ragazzini non solo dentro la scuola media Ugo Foscolo, ma anche nel prato di Marostica e nel piazzale davanti alla scuola dove c’erano i tavolini del “bar ristorante albergo Centrale”.
Lui non mandò la censura, non a me almeno, però mi punì con la qualifica: mi diede “valente” invece dell’ovvio “ottimo” riscosso da tutti gli altri. Un giudizio politico, del tutto iniquo.
Io non gli permisi di cambiarmi strutturalmente né di domarmi, però mi lasciai fuorviare dal disgusto che mi diede, e per un paio di anni studiai poco facendo lezioni mediocri, ripetendo i luoghi comuni dei manuali e annoiando sia me stesso sia gli allievi.
Allora il preside, credendo che mi fossi normalizzato e inquadrato, mi diede “ottimo” come a tutti gli altri.
Solo nel 1974, quando avevo già fatto un paio di abilitazioni e avuto l’incarico per la superiori, sei mesi prima di trasferirmi a Bologna, ricominciai a studiare e a fare lezioni egregie per gli scolari di Carmignano. Negli anni dell’imbarbarimento culturale ero stato infelice, accoppiato male con una donna adatta al mio ozio e alla mia degradazione. Trascorrevo quei giorni sciagurati tra micrologiche ciance, mangiate, bevute, e indifferenza per tutto il creato e le belle creature.

Ma torniamo alla prima mattina di Carmignano. Dopo il telegramma kafkiano, salii nella mia Mini Minor e la misi in movimento per andare a vedere i dintorni del borgo dove senza saperlo ero destinato a rimanere per cinque anni. Fermai l’automobile al ponte di Tezze sul Brenta attirato dall’acqua del fiume che rifletteva la santa faccia del sole e il campanile della chiesa di quel paese. Mi fermai a fissare lo scorrere dell’acqua come facevo a Moena da bambino. Era più lenta di quella dell’Avisio ma non meno limpida. “Forse anche questa - pensai - scende dalle mie montagne di forma umana”. Sul greto sassoso andavano e venivano due cacciatori con cani che correvano freneticamente su e giù. Erano due animali snelli, muscolosi, vitali. Cercavano qualcosa. Anche io. Dovevo trovare la mia parte di uomo nella vita perché quella di ragazzo l’avevo già recitata tutta.
“La parte la dà il regista, Dio stesso” pensai, “ma io devo recitarla bene”
Entrare nel ruolo nuovo e interpretarlo con arte. Non dovevo lasciarmi scoraggiare e debilitare dai tangheri. L’acqua era trasparente. Si potevano contare le pietre sommerse. “Come un sasso che l’acqua tira giù”[1]. La contemplavo pregando in silenzio: che mi aiutasse a purificarmi dalle debolezze, a liberarmi dai terrori, e trascinasse via le persone ottuse, disoneste, che, al pari di fango informe, di mota e liquame osceno cercavano di imbruttire la mia intelligenza, di ottundere e ammorbare la mia vitalità, di inquinare la mia naturale schiettezza.
Il sole galleggiava nel fiume come un canotto purpureo e rosseggiava in cima al campanile come quella famosa mela o ragazza di Saffo, troppo elevata per essere còlta.
Poi ripartii e salii al castello di Marostica che avevo notato dal ponte. Era circondato da voli di rondini ritardatarie. All’epoca in certi campi ero in ritardo anche io. Però potevo rifarmi. Le foglie dei tanti ciliegi erano vizze ma verdi, si pure di un verde ormai spento; i pampini delle viti erano arancioni o purpurei come il sole riflesso dall’acqua del Brenta. Aleggiava una malinconia dolce. Finiva un’era per me. Il giorno dopo avrei iniziato quella del professore. Il preside mi aveva assegnato una prima e una terza. Dovevo essere una guida per i ragazzi. Io non potevo più essere soltanto un ragazzo.
“La morte non esiste”, pensai. “L’acqua dei fiumi scorre su questa terra da milioni di anni. Se sarò bravo con i miei allievi, se sarò una buona guida, continuerò a vivere nelle loro azioni, nei loro pensieri e in quelli dei loro figli e dei figli dei loro figli, nei secoli dei secoli e così sia. Continuerò ad aleggiare qui sulla terra, anche dopo che mi avranno messo sotto la terra”.
Sei mesi più tardi, in quel castello di nuovo incoronato da voli di rondini, su quel prato dal verde vivacizzato, screziato da fiori bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come in una notte d’estate cadono in scivolata le stelle nei golfi sacri dell’Ellade e invece di inabissarsi spente nell’imo, galleggiano trasformate in luccicanti barche da pesca[2], su quel prato verdissimo e rifiorito dunque, avrei portato i miei allievi contenti, contento anche io di parlare, di correre, di giocare con loro nel sole vivo e nell’aria brillante della nuova stagione, felice di comunicare la mia gioia di vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti.
Mi vedo in una fotografia dell’ultimo giorno di scuola, il 12 o il 13 giugno del 1970.
Io, Peppino Graziani e i nostri allievi siamo allineati di fianco alla mastodontica chiesa di Carmignano, davanti a una grande quercia frondosa, profetica, alata. Come quelle che avrei sentito stormire a Dodona. Tutto nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce abbronzate, i grembiuli neri delle ragazzine e anche l’ombra dell’albero gigante, dalle ampie ali. Ho l’aria soddisfatta. Sono elegante, armonioso. Ho i lineamenti marcati ma fini, come la mamma etrusca, come le zie. Sono bello. Sentivo di avercela fatta a diventare un educatore piuttosto che un impiegato alla Zanini.
Però mi mancava qualcosa: il vivido pathos degli occhi pieni di luce di una splendidissima femmina umana.
In quel motel mi era mancata molto una donna, un’amante.
Ma nessuna delle colleghe mi era piaciuta. Non che sognassi attrici e principesse, ma trovavo del tutto antieroica e antierotica la loro bramosia di accasarsi prima che fosse troppo tardi per loro. Anni dopo avrei considerato molto più interessanti le colleghe sposate ansiose di trovare un amante occulto e clandestino.
Avrei trovato erotica, se non eroica, la complicità con quelle mogli infedeli. Voglio dire che la stoffa idealistica e missionaria l’ho indossata sempre studiando e insegnando, ma in altri campi non ho disdegnato altre maschere per recitare altri ruoli. Criterio non eludibile è stato sempre quello di non danneggiare la vita: la mia e quella degli altri.
Finita la scuola e gli esami, partii per l’Università estiva di Debrecen, con la volontà risoluta di fare del gran sesso, una scorpacciata di sesso, roba ghiotta e possibilmente non indigesta. Durante il viaggio cantavo: “Come un sasso che l’acqua tira giù. /La mia libertà non finisce qua”[3]. Non è ancora finita e non credo che finirà prima di questa mia vita meravigliosa di cui sono grato a chi me l’ha data. Così concludo il capitolo Carmignano di Brenta ringraziando la mamma, il babbo e il buon Dio.


giovanni ghiselli

il blog giovanni ghiselli blog ha superato i 250 mila contatti in 877 giorni alla media di 285 lettori al giorno. Ringrazio anche loro. Saremo 300 mila entro l’anno 2015. Lo spero.



[1] Era una canzone dell’epoca.
[2] Me lo avrebbe fatto notare Ifigenia nella notte fatata di Galaxidion, molti anni più tardi.
[3] La canzone invece faceva: “la mia libertà non la voglio più”. 

venerdì 26 giugno 2015

Enciclica di Papa Francesco


Papa Francesco

Laudato si’
Sulla cura della causa comune


La presenza dei Greci in questa enciclica

Francesco parte citando il santo suo eponimo quando loda il Signore per “sora nostra madre terra/la quale ne sustenta et governa, /et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba”.
Il papa associa la malattia del suolo, dell’acqua e dell’aria alla “violenza del cuore umano ferito dal peccato”.
E’ il topos del nesso che intercorre tra l’uomo, la sua psiche e la terra dove abita, il determinismo geografico.
Nel primo canto della Gerusalemme liberata di Tasso, l’esercito sfila davanti al “pio Buglion”. Alcune schiere di crociati portano impressi i segni della terra di provenienza: “ Ma cinquemila Stefano d’Ambuosa/e di Blesse e di Turs in guerra adduce. / Non è gente robusta e faticosa, /se ben tutta di ferro ella riluce. /La terra molle, lieta e dilettosa, /simli a sé gli abitator produce. /Impeto fan ne le battaglie prime, /ma di leggier poi langue e si reprime” (T, Tasso, Gerusalemme liberata, I, 62) .
La terra dunque influisce sugli uomini, e gli uomini, a loro volta, sulla terra.
 I delitti e le malattie umane possono rendere malata la madre comune e perfino il cielo: ricordo l'Oedipus di Seneca dove il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens (v. 36) , abbiamo reso colpevole il cielo. Nel Macbeth[1], un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re: "some say the earth was feverous, and did shake" (II, 3) , la terra era febbricitante e ha tremato.
Dunque l’ecologia è anche psicologia ed è pure etica

Francesco denuncia gli stili di vita dannosi e grossolani. Dobbiamo cambiarli.
 Sono i costumi corrotti della civiltà decrepita descritta da Petronio nel Satyricon.
Trimalchione è il gigante dell’intrapresa privata che possiede latifondi estesi da Terracina a Taranto e vuole unirli a quelli della Sicilia.
Il pacchiano liberto smisuratamente arricchito vanta i suoi colossali possessi: "deorum beneficio non emo, sed nunc quicquid ad salivam facit, in suburbano nascitur eo, quod ego adhuc non novi. dicitur confine esse Tarraciniensibus et Tarentinis. nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines navigem" (Satyricon, 48, 2) , grazie a dio non compro niente, ma ora tutto quanto fa venire l'acquolina in bocca nasce in quel podere vicino alla città che io ancora non conosco. Si dice che fa da confine con le terre di Terracina e quelle di Taranto. Ora con dei campicelli voglio unire la Sicilia, in modo che, quando mi andrà di recarmi in Africa, possa navigare lungo le mie terre.

Lo spreco è un altro degli obiettivi polemici del Papa. Spreco del cibo.
 Si può di nuovo pensare a Trimalchione e al suo banchetto mostruoso dove i convitati non devono riconoscere quello che mangiano, secondo il precetto di Apicio[2], oppure si può ricordare a Giovenale che nella I satira descrive persone le quali una comedunt patrimonia mensa (138) , divorano patrimoni in un solo banchetto.
 Si tratta di ingordi che imbandiscono per sé cinghiali interi,
quanta est gula quae sibi totos
ponit apros, animal propter convivia natum!
poena tamen praesens cum tu deponis amictus
turgidus et crudum pavonem in balnea portas
hinc subitae mortes atque intestata senectus (140-144) . Quanto grande è la gola che imbandisce per sé cinghiali interi, animale nato per i conviti? La punizione però è pronta, quando tu ti togli le vesti gonfio di cibo e porti nel bagno il pavone non digerito. Di qui morti improvvise e la vecchiaia senza testamento. Il funerale che segue riceve applausi falsi dai clenti adirati.
 Per certa gente, emula di Caligola, lo spreco diviene predicato di magnificenza e di felicità: Nepotatus sumptibus omnium prodigorum ingenia superavit, con le spese dello sperpero superò il talento di tutti i prodighi (Svetonio, Caligula 37) .

Lo spreco presuppone l’avidità priva di scrupoli.
Nell’ultima parte del Satyricon, ambientata a Crotone, la senectus intestata viene corteggiata dagli heredipetae, giovani cacciatori di eredità che si prostituiscono ai vecchi ricchi o sedicenti tali, come Eumolpo cui una madre affida [3], la speciosissima filia perché il vecchio poeta la inizi ad pygesiaca sacra, (140) ai sacri riti delle natiche.
La madre è una matrona di Crotone, inter primas honesta, di primissimo rango, una che da giovane aveva estorto personalmente multas hereditates, ma poi, divenuta anus et floris extincti, vecchia e appassita, portava i figli a compiacere i vecchi senza eredi et per hanc successionem artem suam perseverabat extendere, e attraverso questa successione continuava a sviluppare il suo mestiere.

La Roma di Petronio e Giovenale viene chiamata da Nietzsche: "questo rospo velenoso con gli occhi di Venere"[4].

Francesco denuncia anche la spogliazione delle foreste
Nel terzo coro della Medea di Seneca, i coreuti danno questo avvertimento: "Quisquis audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit umbra, / quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri, /exitu diro temerata ponti/iura piavit. /Exigit poenas mare provocatum " (Medea, vv. 607-616) , tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra; chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato

Francesco, nota il papa omonimo, “amava ed era amato per la sua gioia” (10) e aggiunge: “Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza della nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati” (11) .
E pure incapace di pensiero filosofico: Aristotele afferma che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia ora sia in origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n"[5].

La natura è "uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà" (12)

La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, nel Timeo di Platone: se il cosmo è bello (eij me;n dh; kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o Jdhmiourgo;ς ajgaqovς) .
 Il demiurgo, il migliore degli autori (a[ristoς tw'n aijtivwn) , ha guardato al modello eterno (pro;ς to; ajivdion e[blepen) . Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw'n gegonovtwn 29a) .
Amare Dio significa amare il prossimo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Libro del Levitico, 19, 18) . Dio è amore. Platone consiglia l’assimilazione a Dio (oJmoivwsiς qew', Teeteto (176b) .

Altra frase chiave dell’enciclica: “tutto nel mondo è intimamente connesso” (16) .
Platone nel Menane scrive: “th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh" (81d) , tutta la natura è imparentata con se stessa.
Dostoevskij fa dire allo stariez Zossima che "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore"[6]. Bisogna dunque cogliere i nessi.
Più avanti (42) Francesco torna su questo punto: “Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna dev’essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri”


Seconda parte

Attraverso la sofferenza, la comprensione

Il papa suggerisce “di prendere dolorosa coscienza” e “osare trasformare in sofferenza personale quello che accade nel mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (20) .
È il nesso tra pavqo" (sofferenza) e mavqo" (comprensione) che risale all’Agamennone di Eschilo (tw'/ paqei mavqo", v 177) e viene ripreso molte volte nella letteratura europea. Ricordo solo l'Alcesti di Euripide, dove Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v. 940) . In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

Quindi Francesco evidenzia i limiti della tecnologia la quale “legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi”, mentre “di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri” (20)
Lo stesso inventore antico della tecnologia, Prometeo, ne denuncia la limitatezza tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità (Eschilo, Prometeo incatenato, v. 514) .
Cfr. a questo proposito anche Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit” (Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24) , del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.

Il sapere non è sapienza
Quindi il Papa fa una riflessione su “La vera sapienza” che è “frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone”. Essa dunque “non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale” (47) .
Ritrovo il: "to; sofo;n d j ouj sofiva" di Euripide (Baccanti, v. 395) , il sapere non è sapienza. Il sofovn è neutro e non produce, non genera vita; la sofiva è femminile ed è feconda.
Un’ idea del genere si trova nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940) : il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve parlare alla folla con parole che legittimino e anzi esaltino la prepotenza del tiranno, presentato come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua così: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

La sapienza non è di vedute basse e volgari: Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38) , e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv-aijpeinaiv, 107-108) , comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

La tecnologia e l’economie devono essere regolate da norme perché può essere volta al bene ma anche al male.
La tecnologia e l’economia devono essere regolate da norme chiare e ineludibili: “Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia” (53) .
La tecnologia e l’economia infatti, se lasciate senza regole e arbitrarie, possono volgersi tanto al bene quanto al male, come fa notare Sofocle nel celeberrimo I stasimo dell’Antigone: l’uomo “ il quale possiede il ritrovato della tecnologia, / che è un qualche sapere (sofovn ti) , oltre l'aspettativa/ora si volge al male, ora al bene/ e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città (u{yipoli") bandito dalla città (a[poli'") è quello con il quale /coesiste la negazione del bello morale (to; mh; kalovn) , per la sfrontatezza. /Non mi stia accanto sul focolare/né sia uno che ha lo stesso pensiero/chi compie queste azioni" (vv. 365 -375) .
Tote; me;n kakovnm a[llotj ejpj ejsqlo;n e{rpei (367) , ora si volge al male, ora al bene
 Difatti più avanti (102) Francesco scrive: “L’umanità è entrata in una nuova era in cui la potenza della tecnologia ci pone di fronte ad un bivio”.
E, ancora più avanti: “la tecnica separata dall’etica difficilmente sarà capace di autolimitare il proprio potere” (136)
Francesco deplora assai giustamente “il crescente aumento dell’uso e dell’intensità dei condizionatori d’aria”. Sono portatori di germi patogeni ma “i mercati, cercando un profitto immediato, stimolano ancora di più la domanda” (55) .
Quindi la condanna della guerra: che oltre distruggere vite umane “Causa sempre gravi danni all’ambiente e alla ricchezza culturale dei popoli, e i rischi diventano enormi quando si pensa all’energia nucleare e alle armi biologiche. Si richiede alla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute” (57) .
Antiche e nobili maledizioni della guerra
Nel primo Stasimo dell’Agamennone di Eschilo (del 458) , Ares viene definito "oJ crusamoibo;" d j [Arh" swmavtwn" (v. 437) , il cambiavalute dei corpi, nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori. Dai conflitti infatti,
"invece di uomini
urne e cenere giungono
alla casa di ciascuno" (Agamennone, 434-436) .

Nella Parodo dell’Edipo re[7] Ares viene deprecato dal religiosissimo autore come "il dio disonorato tra gli dei" (ajpovtimon ejn qeoi'" qeovn, v. 215) .
In maniera analoga il tenente Mahler, il disertore amante della contessa adultera del film Senso[8] di Visconti pone questa domanda retorica: "Cos'è la guerra se non un comodo metodo per obbligare gli uomini a pensare e ad agire nel modo più conveniente a chi li comanda?".
Caso o Provvidenza?
 Solo la Provvidenza (Provnoia) può dare all’universo l’ordine e la bellezza che vediamo. La tragedia scoppia quando il disordine umano va a cozzare contro l’ordine del kovsmo": “Che meravigliosa certezza è sapere che la vita di ogni persona non si perde in un disperante caos, in un mondo governato dalla pura casualità o da cicli che si ripetono senza senso! (Laudato sì’, 65)
E più avanti (77) : “Perfino l’effimera vita dell’essere più insignificante è oggetto del suo amore, e in quei pochi secondi di esistenza egli lo circonda con il suo affetto”
E Shakespeare: “there is a special providence in the fall of a sparrow" (Amleto, V, 2) , c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero.
Più avanti (96) il Papa cita l’evangelista Luca: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (et unus ex illis non est in oblivione coram Deo, Lc 12, 6)

La proprietà invero è solo un usufrutto da custodire.
La terra e ogni altro bene che possediamo ci è stato dato in custodia (cfr. Gen. 2, 15) . “Custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura (…) Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25, 23) ” (67)
Altrettanto in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive: "mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.

La giustizia arriva, prima o poi, comunque sempre.
In questa enciclica non mancano, anzi prevalgono parole di ottimismo: “l’ingiustizia non è invincibile” (74) .
Solone ed Eschilo sono assertori della vittoria della Giustizia già qui sulla terra.

Vediamo i primi versi dell'Elegia alle Muse di Solone
"Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,
Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:
concedetemi il benessere da parte degli dei beati, e di avere una buona/
 reputazione da parte di tutti gli uomini sempre;
e di essere in tal modo dolce per gli amici e amaro per i nemici,
rispettato dagli uni, temibile a vedersi per gli altri.
Ricchezze desidero averne, ma possederle ingiustamente
non voglio: in ogni caso più tardi è solita arrivare Giustizia. (1-8)

Ora sentiamo anche tragediografo. Nel terzo dramma dell’Orestea, le Erinni, sulla via di diventare Eumenidi, dicono: "Rispetta l'altare di Giustizia, e non disprezzarlo calciandolo con piede ateo in vista del guadagno: infatti poi segue il castigo" (vv. 539-541) .

Gli stessi accenti posati sulla forza vincente e ineludibile della Giustizia si trovano nel primo stasimo dell’Agamennone. Eschilo è in effetti uno dei profeti della giustizia
"infatti non c'è difesa di ricchezza contro Sazietà, per l'uomo che con arroganza ha preso a calci il grande altare di Giustizia, con il proposito di annientarla" (Agamennone, primo stasimo 381-384) .
E, poco più avanti:
"Ogni rimedio è vano. Il danno non rimane nascosto,
ma risalta, quale luce di sinistro bagliore; e, come bronzo cattivo, per sfregamento e colpi, diventa nero il colpevole sottoposto a giustizia, poiché insegue, come un fanciullo, un uccello che vola" (Agamennone, 387-394) .

Anche il male è funzionale al bene
Anche il male serve al bene: “molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza, fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore” (Laudato si’, 80)
Ancora l'assimilazione a Dio[9] e la condivisione delle sue decisioni, con la concezione della Provvidenza: “Nihil indignetur sibi accidere sciatque illa ipsa quibus laedi videtur ad conservationem universi pertinere…placeat homini quidquid deo placuit” (Ep. 74, 20) , (l’uomo) non si sdegni di nulla di quanto gli accade e sappia che quelle stesse congiunture dalle quali gli sembra di essere danneggiato servono alla conservazione dell'universo. Piaccia all'uomo tutto quanto piace a Dio.
Nietzsche chiama questo atteggiamento amor fati: “La mia formula per la grandezza dell'uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l'eternità…amor fati è la mia più intima natura”[10].

L’umanesimo è amore per tutto ciò che è umano
Nel capitolo successivo (81) si legge una massima umanistica: “A partire dai testi biblici, consideriamo la persona come soggetto, che non può essere ridotto alla categoria di oggetto”. I testi greci e latini non sono da meno.
Amore per l’umanità dunque che troviamo già in Omero. Sentiamo quello che dicono Nausicaa a Odisseo e Eumeo sempre a Odisseo
La principessa dei Feaci Nausicaa, nel VI canto dell’Odissea (207-208) vuole aiutare Ulisse giunto naufrago nell’isola di Scheria e dice queste parole alle ancelle in fuga spaventate dall’aspetto miserabile e orribile di Odisseo: “ to;n nu`n crh; komevein: pro;~ ga;r Dio;~ eijsin a[pante~-xei`noiv te ptwcoiv te, dovsi~ d j ojlivgh te fivlh te”, dobbiamo prenderci cura di questo: da Zeus infatti vengono tutti gli stranieri e i poveri, e un dono pur piccolo è caro
 Le stesse parole (Odissea, XIV, 57-59) dice Eumeo il guardiano dei porci di Itaca quando Ulisse gli si presenta travestito da mendicante, irriconoscibile, e il porcaio lo accoglie ospitalmente spiegandogli che non è suo costume maltrattare lo straniero (xei`non ajtimh`sai) , nemmeno quando ne arriva uno kakivwn più malconcio di lui.
 Bisognerebbe che Salvini e la gente come lui leggessero i classici.

Non dissimile è la situazione di Edipo giunto a Colono cieco e vagabondo, per giunta malfamato. Teseo, il re di Atene, lo aiuta poiché, dice “so di essere uomo” (Edipo a Colono, v. 567) .
Il sapere di essere uomo che cosa comporta?
Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo cieco, esule e mendico, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande, chiedendo di che cosa abbia bisogno: “kaiv s j oijktivsa"-qevlw jperevsqai[11], duvsmor j Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t j e[cwn, -aujtov" te chj sh; duvsmoro" parastavti"", (Edipo a Colono, vv. 556-559) , e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui, tu e l’infelice che ti aiuta.
Essre uomo significa ascoltare, mettersi nei panni del supplice e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte.
" Fammi sapere-continua Teseo- infatti dovresti raccontarmi misfatti atroci perché mi sottraessi; poiché so che anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo (e[xoid j ajnh;r w[n, v. 567) e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te" (vv. 560-568) .
A queste parole si può accostare l’homo sum di Terenzio: "Homo sum: humani nil a me alienum puto "[12].

La natura ci educa e contribuisce a formare la nostra identità
La natura può essere una delle educatrici della sensibilità umana e una formatrice della nostra identità: “Chi è cresciuto tra i monti, o chi da bambino sedeva accanto al ruscello per bere, o chi giocava in una piazza del suo quartiere, quando ritorna in quei luoghi si sente chiamato a recuperare la propria identità” (84)
H. Hesse in Peter Camezind scrive: "Le montagne, il lago, le tempeste e il sole erano i miei educatori ed amici che per molto tempo mi furono più cari degli uomini e del loro destino"[13]
La natura non è “qualcosa di separato da noi” né una “mera cornice della nostra vita” (Laudato si’, 139)


Tutto è pieno di dèi.
"Qalh'" wj/hvqh pavnta plhvrh qew'n ei\nai"[14], tutto è pieno di dèi, pensò Talete, non diversamente da quanto leggiamo in questa enciclica: “c’è una manifestazione divina nello sfolgorare del sole e nel calare della notte” (Laudato si’, 85)

Il sole è l’immagine visibile della divinità, ne “porta significatione”.
A proposito del riflesso di Dio in tutto ciò che esiste e in particolare del sole, papa Francesco cita i versi del Cantico del santo di Assisi che lodano le creature del Signore e “spetialmente messer lo frate sole, /lo quale è iorno, et allumini noi per lui. /Et ellu è bellu e radiante con grande splendore: /de te, Altissimo, porta significatione” (87)
Ebbene il Sole come immagine visibile della mente divina si trova anche nel mito della caverna della Repubblica di Platone: la luce del sole nel visibile (e[n tw'/ oJratw'/ fw'ς) è generata dall’idea suprema del bene nel campo conoscibile (ejn tw̃/ gnwstw'/ teleutaiva hJ tou' ajgaqou' ijdeva, 517c) che a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
E’ questa idea del bene dunque che fa apparire il sole, signore della luce, ed è lei la signora (kuriva) che nell’intellegibile (e[n te nohtw'/) elargisce la verità e l’intelligenza.
Giuliano Augusto detto dai Cristiani l’ "Apostata" riassume questi elogi dell'antichità in termini neoplatonici nella orazione A Helios re dedicata a Salustio. Questo "sermone natalizio" fu redatto alla fine del 362 d. C. per celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti. Elio è visto come il signore del mondo intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo assai simile al Bene preesistente a tutte le cose. Giuliano cita la Repubblica di Platone dove (508c) si dice che il Sole è figlio del Bene ("tou' ajgaqou' e[kgonon") che il Bene generò simile a sè ("oJ;n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/") e ciò che è il Bene nel mondo intelligibile, rispetto all'intelletto e agli intelligibili, è Helios nel mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21) . L’Uno (e{n) o il Bene (tajgaqovn) , come lo chiama Platone, ha rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene identificato con Zeus e con Apollo (31)
Alla fine (44) Giuliano prega Elio, to;n basileva tw'n o{lwn, di accordargli una vita virtuosa, una intelligenza più piena e una mente divina. E alla fine della vita vorrebbe congiungersi a lui.

Sor’ aqua
Per quanto riguarda il verso “Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua” del Cantico Francesco, gli avvicino l’incipit dell’Olimpica I di Pindaro: “a[riston me, n u[dwr, ottima è l’acqua.

La proprietà privata
La proprietà privata è considerata legittima, tuttavia “su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato…Questo mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità” (93) . Mi vengono in mente i bambini scheletrici di certe ampie zone del mondo, e gli obesi i torpidi ghiottoni che disonorano il nostro paese.
Sant’Ambrogio nel De Nabuthae già ricordato da papa Francesco[15], scrive: “Non de tuo largiris pauperi sed de suo reddis” (53) , non concedi del tuo al povero, ma gli rendi del suo.

L’energia nucleare.
Il papa prosegue (104) notando il “tremendo potere” insito nell’energia nucleare, nella biotecnologia et cetera. Come il sapere non è sapienza, così il potere non è potenza, oppure è una potenza malvagia se è privo di “un’etica adeguatamente solida, una cultura e una spiritualità che realmente gli dia un limite e lo contenga entro un lucido dominio di sé” (105)
E’ necessaria “una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico” (77)
E’ questo l’invasore cui ultimamente penso quando mi viene in mente e magari mi metto a cantare “Bella ciao” che i cori della mia generazione ripetevano spesso.

Sviluppo senza progresso e consumismo.
Francesco polemizza molto giustamente anche con quello che Pasolini chiamava lo sviluppo senza progresso e con il consumismo (112) suggerito dalla pubblicità, dai mass media e dai governi.
Già Epicuro suggeriva che i consumi davvero necessari sono limitati e facilmente procurabili: Tw̃n ejpiqumiw'n aij me;n eijsi fusikaiv, aiJ de; kenaiv, kai; tw'n fusikw'n aiJ me;n ajnagkai'ai, aiJ de; fusikai; movnon, dei desideri alcuni sono naturali, altri invece sono vuoti, e dei naturali alcuni sono necessari, altri solo naturali.
Ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano: "to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (Epistola a Meneceo 130)
Gli fa eco Lucrezio“Ergo corpoream ad naturam pauca videmus-esse opus omnino, quae demant cumque dolorem” (De rerum natura, II, 20-21) , dunque vediamo che alla natura sono del tutto necessarie poche cose che tolgono il dolore e in tal modo offrono anche il piacere.
“Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane” (114)

I grandi valori imprescindibili. L’arte politica, la giustizia, il rispetto.
Sono quelli indicati da Platone nel Protagora
In questo dialogo platonico, il sofista Protagors racconta che Prometeo donò all’umanità il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica. Allora i mortali commettevano ingiustizie reciproche (hjdivkoun ajllhvlou") in quanto non possedevano l'arte politica (a{te oujk e[conte" th;n politikh;n tevcnhn, 322b) . Senza questa, che deve essere fondata sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano: quindi Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie mandò Ermes a portare tra gli uomini rispetto e giustizia perché costituissero gli ordini delle città: " JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai; divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi" (322c) . Chi non le avesse accettate, doveva essere ucciso come malattia della città (322d) .

Nel Politico, Platone fa dire allo straniero di Elea che l’arte politica regia è quella di prendersi dell’intera comunità umana (ejpimevleia dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~, 276b) . Guidare gli uomini come fanno i pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla qreptikh;n tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai; politikhvn tevcnhn (276c) , non arte regia e arte politica. Infatti il re e l’uomo politico è quello che si prende cura (ejpimevleian) di uomini bipedi che liberamente l’accettano (eJkousivwn dipovdwn, 276d) .

Il sogno prometeico è ingannevole.
“Molte volte è stato trasmesso un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli” (116) . Il “sogno prometeico” di fatto è ingannevole.
Lo stesso Titano di Eschilo deve riconoscere: ho infuso in loro[16] cieche speranze ("tufla;" ejn aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa", Prometeo incatenato, v. 250) .
 Egli è divinità solo apparentemente benefica in quanto portatore di conoscenze pratiche fuorvianti: " qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di prevedere il destino di morte" (v. 248) .
Prometeo ha reso ciechi gli uomini riguardo al futuro.

Le leggi e i loro limiti.
“La logica dell’usa e getta produce tanti rifiuti solo per il desiderio disordinato di consumare più di quello di cui realmente si ha bisogno. E allora non possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno a evitare i comportamenti che colpiscono l’ambiente, perché quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o princìpi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare” (123)
E più avanti: “Le leggi possono essere redatte in forma corretta, ma spesso rimangono come lettera morta” (142)
A proposito dell’impotenza delle leggi, riferisco quanto disse Anacarsi Scita a Solone
Solone, ammirata la prontezza di spirito di quello straniero, lo accolse amichevolmente e lo trattenne per qualche tempo presso di sé, quando già si occupava degli affari pubblici e stabiliva le leggi. Anacarsi venutolo a sapere, derideva l’opera di Solone che pensava di fermare le ingiustizie e le pretese dei cittadini con norme scritte, le quali non differiscono per niente dalle ragnatele mhde;n twn racnwn diafšrein, ma, come quelle, trattengono i deboli e i piccoli tra gli irretiti, mentre dai potenti e ricchi verranno lacerate. Plutarco Vita di Solone, 5, 2-4.

 Sentiamo anche Tacito il quale afferma che la legge non vale di fronte alla consuetudine e denuncia la corruzione dei costumi dei Romani contrapponendo spesso illic a ibi o ad alibi: “ Nemo illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur” nessuno là, tra i Germani, si prende gioco dei vizi, né corrompere ed essere corrotti si chiama moda (Germania, 19) ,
E alla fine dello stesso capitolo: “ plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges” e valgono più là i buoni costumi che altrove le buone leggi.

Negli Annali lo storiografo scrive che le leggi sono impotenti contro la forza, l’intrigo, il denaro leges quae vi ambitu postremo pecunia turbabantur (I, 2) .

Nel III degli Annali, Tacito scrive alcuni capitolo sull’ordinamento sociale e giuridico dei romani. Nei primi tempi c’era l’aequalitas e non c’era bisogno di leggi. Poi irruppero ambizione e violenza e si stabilirono signorie o leggi come quelle cretesi di Minosse, quelle di Solone, e a Roma Romolo e Numa che impose al popolo il freno della religione, poi Tullo e Anco. Il primo ordinatore delle leggi fu Servio Tullio (III, 26) . Leggi semplici in origine.
Nel capitolo seguente (III, 27) Tacito scrive che le 12 tavole segnarono finis aequi iuris, la fine del diritto giusto.
 In seguito le leggi per vim latae sunt, quindi vennero i Gracchi e i Saturnini, turbatores plebis, turbatori della plebe poi Silla che impose un freno alle novità, ma i tribuni ebbero di nuovo licenza di agitare il popolo, et corruptissima repubblica plurimae leges.

Monachesimo in fuga dal mondo e monaci attivi. Necessità e nobiltà del lavoro.
Il Papa ricorda che a una fase di monachesimo che fuggiva dal mondo seguì Benedetto da Norcia (480-547) il quale “volle che i suoi monaci vivessero in comunità, unendo la preghiera e lo studio con il lavoro manuale (Ora et labora) (126) .

La fase della fuga dal mondo è rilevata da Rutilio Namaziano, prefetto di Roma nel 414, il quale nel De reditu suo scrive dell’isola di Capraia che
Squalet lucifugis insula plena viris
Ipsi se monachos graio cognomine dicunt. (I, 440-441)

“La realtà sociale del mondo di oggi (…) esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti” (127) .
Il primo encomiatore del lavoro è stato Esiodo: gli dei e gli uomini odiano l'inoperoso, simile per indole ai fuchi senza pungiglione (Opere e giorni, 303) , mentre l'uomo che lavora è assai più caro agli immortali (309) . Non è vergognoso il lavoro, ma l'ozio (311) .

I piccoli produttori e la teoria della classe media.
“Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione” (129) .
A questa idea della misura è collegabile la teoria della classe media. La troviamo nelle Supplici[17] di Euripide dove Teseo si oppone all'araldo tebano il quale sostiene il vantaggio di una città governata da un solo uomo (che poi è Creonte) ponendo, tra l'altro, una domanda retorica: " Come potrebbe il popolo, che non ragiona rettamente, reggere uno Stato?" (vv. 417-418) .
Il capo degli Ateniesi "non controbatte l'araldo per quel che riguarda la critica ai demagoghi"[18], ma propugna la teoria della classe media.
Tre sono le classi dei cittadini: i ricchi sono inutili e desiderano avere sempre di più, quelli che non hanno mezzi di sussistenza sono temibili ("deinoiv", v. 241) poiché si lasciano prendere dall'invidia e, ingannati dalle lingue dei capi malvagi, lanciano strali contro i possidenti.
In conclusione: "Triw'n de; moirw'n hJ jn mevsw/ sw/zei povlei"-kovsmon fulavssous j o{ntin j a]n tavxh/ povli"", (Supplici, vv. 244-245) , delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendo l'ordine che essa dispone. Anche Plutarco nella Vita di Teseo mette in rilievo la cura del figlio di Egeo per l’ordine: egli unificò la popolazione e fondò la democrazia dell’Attica ma non permise che questa, risultante da una massa indistinta riversatasi là, fosse disorganizzata e confusa (ouj mh;n a[takton oujde; memeigmevnhn periei'den, 25, 2) .
 Concludo con l’Oreste (del 408) .
 “Egli[19] vede negli aujtourgoiv, nei lavoratori in proprio, coloro che soli sono in grado di salvare la polis. Il v. 920 dell'Oreste - "un lavoratore in proprio, di quelli che appunto sono i soli a salvare la patria"[20]-ricorda da vicino Suppl. 244: "delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città". La classe media era quindi per Euripide costituita essenzialmente dai contadini che lavorano il fondo di loro proprietà"[21].

Il relativismo culturale
 “La visione consumistica dell’essere umano (…) tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità (…) Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano” (95) .
 Si può pensare al relativismo culturale di Erodoto o pure alla logica aperta al contrasto delle due Divkai delle Coefore.
Per le comunità aborigene con le loro tradizioni culturali “la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano[22], uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori” (Laudato si’, 146) .

L’ ajgorav necessaria.
 “Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (152) . Insomma com’è bella l’ajgorav con le sue discussioni e i suoi valori (divkh, povno~, aijdwv~, fides, disciplina, pudicitia etc)
“bisogna aggiungere che i migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significati, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso” (181)
Il problema di fondo è quello dell’auri sacra fames, dell’adorazione del denaro e del consumo, dell’idolatria.

Il tempo.
“Il tempo è superiore allo spazio” (178) .
 Il tempo soltanto rivela l’uomo giusto, crovno~ divkaion a[ndra deivknusin movno~, si legge nell’Edipo re di Sofocle (614) .
Sant’Agostino definisce il tempo distentionem ipsius animi (Confessiones, XI, 25)

Il potere che non subisce controlli è quello del tiranno.
“Se i cittadini non controllano il potere politico-nazionale, regionale e municipale-neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali” (179)
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo: " uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80, 6) . Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide. Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori, prevalse quest'ultimo con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo: "ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2) , infatti non voglio comandare né essere comandato[23].
“Una forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una tendenza altrettanto forte al rifiuto di dominare e di comandare”[24].

La politica e l’economia. Questa non deve prevalere su quella. Ratio e Natura.
La politica non deve sottomettersi all’economia (…) Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana” (189) . La politica, come la cultura deve potenziare la natura seguendone le indicazioni. La ratio dell’uomo deve osservare, rispettare, seguire e pure imitare la natura: “sequitur autem ratio naturam. Quid est ergo ratio? Naturae imitatio” (Seneca, Ep. 66, 39)

Il progresso deve comprendere la sfera etica e quella estetica.
Dobbiamo “ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso” (194) . Progredire significa infatti avanzare, procedere verso il meglio. E il meglio è il buono e il bello.

Il profitto.
“Il principio della massimizzazione del profitto, che tende a isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia” (195) . Il kevrdo~ (profitto) è una delle fissazioni del tiranno.
Tucidide scrive che i tiranni delle città greche, siccome badavano solo al proprio vantaggio, non compirono alcuna impresa notevole (I, 17) .

Il condizionamento pubblicitario al consumismo compulsivo. Aconzio e Cidippe.
“Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue” (124) .
E’ il meccanismo inventato da Aconzio per sedurre Cidippe (cfr. gli Aitia di Callimaco e le Heroides di Ovidio) .
“L’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca” (204) . Tornando alla omoivwsi~ qew`/ di Platone (Teeteto, 176) alla assimilazione a Dio, nell’ Eracle di Euripide leggiamo che Dio non ha bisogno di nulla (v. 1341) e dunque l’uomo che gli somiglia ha bisogno di poco.

Possedere e utlizzare.
Non si devono acquistare prodotti nocivi alla vita: “acquistare è sempre un atto morale oltre che economico” (206) .

Si può pensare alla distinzione tra kth`sqai, (possedere) e crh`sqai (utilizzare) dell’Economico di Senofonte
Il Socrate di Senofonte dice a Critobulo: le medesime cose per chi sa servirsene sono averi utili, per chi invece non sa servirsene non sono averi utili: "Taujta; a{ra o[nta tw'/ me;n ejpistamevnw/ crh'sqai aujtw'n eJkavstoi" crhvmatav ejsti, tw'/ de; mh; ejpistamevnw/ ouj crhvmata"
 (Economico, I, 10) ; così i flauti sono utili per chi li sa suonare bene; per chi non lo sa, non sono niente più che sassi inservibili ("oujde;n ma'llon h] a[crhstoi livqoi") . Non basta quindi possedere (kekth'sqai) il denaro; bisogna anche sapersene servire (crh'sqai) .
Luogo simile in Seneca: “Stulto nulla res opus est (nulla enim re uti scit) , sed omnibus eget” (Ep, 9, 14) , allo stupido non occorre nulla (infatti non sa fare uso di nessuna cosa) , ma sente la mancanza di tutte.
“Non va trascurata la relazione che c’è tra un’adeguata relazione estetica e il mantenimento di un ambiente sano” (214) . Il bello infatti e parte costitutiva del buono. Non c’è bontà senza bellezza e viceversa Cfr la kalokajgaqiva.

Il “di più” non serve.

La Bibbia insegna che “meno è di più” (222) . Ma non solo la Bibbia.
Nelle Fenicie di Euripide troviamo un contrasto fra Eteocle che sostiene il proprio potere assoluto, e Giocasta che gli fa notare la presenza dell’uguaglianza nel cosmo.
 "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[25], Giocasta obietta: "tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon: /ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
Ma Giocasta propugna l'uguaglianza più in generale: "kei'no kavllion, tevknon, -ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536) , quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica: "nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" (vv. 543-544) , l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[26], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549) , la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

Agitarsi e affannarsi non serve.
 “Gesù ci invitava a guardare i gigli del campo e gli uccelli del cielo” (226) . In senso anticonsumistico e antinevrotico.
"Et de vestimento quid solliciti estis? Considerate lilia agri quomodo crescunt: non laborant neque nent. Dico autem vobis quoniam nec Salomon in omni gloria sua coopertus est sicut unum ex istis" (Matteo, 6, 28) , e quanto al vestire perché vi affannate? Considerate come crescono i gigli dei campi: non si affaticano e non filano. Eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria è stato coperto come uno di loro.
“Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma” (230)
I piccoli gesti quotidiani possono testimoniare “una cultura della cura che impregni tutta la società” (231)
Torno a ricordare “so di essere uomo” (Edipo a Colono, v. 567) detto da Teseo a Edipo che gli ha domandato per quale ragione lo aiuti.

Segue l’elogio di Maria.
“E’ la donna “vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul suo capo” (Laudato si’ 241) (mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et, super caput eius corona stellarum duodecim” (Ap. 12, 1) .
E pure l’encomio di Giuseppe che “Nel vangelo appare come un uomo giusto, lavoratore, forte” (242) 

La necessità di un rinnovamento
“Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr. 1 Cor 13, 12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo…Gesù ci dice: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap. 21, 5) ” (243) . Ecce nova facio omnia, ijdou; kaina; poiw` pavta. Credo ci sia davvero bisogno di un rinnovamento.
Papa Francesco conclude la sua enciclica con una Preghiera per la nostra terra con la quale riconosce ancora una volta “che siamo profondamente uniti con tutte le creature” (246)

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 maggio, Solennità di Pentecoste, dell’anno 205, terzo del mio Pontificato.
Segue la firma Franciscus


giovanni ghiselli. Bologna, 25 giugno alle 19, 30



[1] 1605-1606.
[2] Ad mensam nemo agnoscet quid manducet”, De re coquinaria (IV, 2)
[3] Cfr l'Ulisse di Joyce: " Ho reso omaggio su quell'altare vivente dove la schiena terminando cambia nome " (p. 737) .
[4]Umano, troppo umano, II, trad. it. Mondadori, Milano, p. 82.
[5] Metafisica, 982b.
[6]F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, del 1880, p. 402.
[7] Propendo per una datazione bassa, posteriore al 415 a. C.
[8] Del 1954. Di questo film Aristarco scrisse che rappresentava la maturazione del cinema italiano dal neorealismo al realismo.
[9] Quella che Socrate consiglia nel Teeteto (176b) : la si cerca sviluppando giustizia, santità e sapienza.
[10] Ecce homo, p. 38 e p. 92.
[11] Aferesi da ejperevsqai, infinito aoristo da ejpeivromai, “domando”
[12]Heautontimorumenos, 77.
[13] H. Hesse, Peter Camezind. p. 12.
[14] Aristotele, Sull'anima, 411a 8.
[15] Cotidie Nabuthae sternitur, cotidie occiditur…Nescit natura divites, quae omnes pauperes generat. Neque enim cum vestimentis nascimur, cum auro argentoque generamur. Natura omnes similes creat, omnes similes gremio claudit sepulchri (Ambrogio, De Nabuthae, 1 -. 2)
[16] Negli uomini.
[17] Del 422 a. C.
[18]V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, p. 180.
[19] Euripide.
[20]Aujtourgo;", oiJvper kai; movnoi sw/zousi gh'n.
[21]Di Benedetto, op. cit., p. 208.
[22] Penso con gratitudine ai miei antenati: la nonna Margherita, il bisnonno Guglielmo e il trisavolo Adamo Scattolari. Non ho venduto la loro terra a un costruttore, rinunciando ai soldi e agli appartamenti che mi aveva offerto. E non sono pentito. 
[23] Diodoro Siculo racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5) , poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
Diodoro Siculo racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5) , poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
[24] Hannah Arendt, Sulla violenza, p. 41.
[25]Lanza, op. cit., p. 53.
[26] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6) , prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
 I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo, continua Giocasta (Fenicie, v. 555-556) . Seneca echeggia questo topos in Ad Marciam de consolatione (del 37d. C.) : "mutua accepimus. Usus fructusque noster est" (10, 2) , abbiamo ricevuto le cose in prestito. Nostro è l'usufrutto. 

Parole di pace nei testi sacri.

  Il personaggio Settembrini   parla contro la pena di morte: “citò persino il versetto “mia è la vendetta”. (cfr. Deuteronomio 32 n. ...